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Autore: DilettaWCG    15/02/2010    3 recensioni
Il problema dell'avere una mente brillante consiste nell'incapacità di ignorare i suoi consigli. Un essere intelligente non segue mai il cuore: quando questo fornisce cento motivi a suo favore, il cervello ne trova sempre uno in più. La mente, spesso, è una subdola consigliera: ti salva dalle fregature, ti permette di vincere qualsiasi sfida, ti fa guadagnare il rispetto della gente, ma allo stesso tempo t'impedisce di cogliere le sfumature della vita, di gustare la gioia che c'è in una cosa semplice come un sorriso, un abbraccio, una parola di conforto.
Genere: Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mente brillante
 
 
Il problema dell'avere una mente brillante consiste nell'incapacità di ignorare i suoi consigli. Un essere intelligente non segue mai il cuore: quando questo fornisce cento motivi a suo favore, il cervello ne trova sempre uno in più.
La mente, spesso, è una subdola consigliera: ti salva dalle fregature, ti permette di vincere qualsiasi sfida, ti fa guadagnare il rispetto della gente, ma allo stesso tempo t'impedisce di cogliere le sfumature della vita, di gustare la gioia che c'è in una cosa semplice come un sorriso, un abbraccio, una parola di conforto.
Chi mi conosceva mi definiva brillante, intelligente, astuta, molto più matura delle altre ragazze della mia età.
Chi si limitava ad osservarmi mentre andavo in giro per strada, mai con un capello fuori posto o con un’unghia appena scheggiata, mi trovava presuntuosa, saccente, spesso fastidiosa.
Ma tutto ciò non mi toccava: ero convinta che chi non mi sopportava fosse solamente invidioso di me, che certe battutine acide e sarcastiche mirassero solamente a nascondere l'ammirazione provata nei miei confronti.
Ero convinta di poter calcolare tutto, di prevedere ogni conseguenza delle mie azioni, di avere il controllo su ogni cosa. Non facevo mai niente senza pensarci bene prima.
Ero fondamentalmente una persona molto egoista. E di conseguenza, anche molto sola.
Mi rifiutavo di scendere a compromessi, di sentire le ragioni altrui. Mi rifiutavo, in definitiva, di mettermi in gioco veramente.
Ho una domanda nel cuore da quel giorno freddissimo di metà ottobre, quando io e i miei compagni di classe eravamo radunati nel piccolo bar a pianterreno, mentre fuori una pioggerellina leggera faceva da sottofondo ai nostri pensieri. Una domanda che seppi mi avrebbe tormentato dal momento esatto in cui negai la verità che il mio cuore stava urlando, mentre il cervello gli tappava la bocca. Che cosa ne sarebbe stato di me se, per una volta, avessi seguito il cuore al posto della mente?
Mi accorsi subito che quella giornata era strana. Era come se nell’aria ci fosse stata nube di fumo denso e nero che m’impediva di rendermi conto con chiarezza di cosa stava succedendo e di conseguenza faceva nascere in me l’angoscia che assale solo colui che ha passato una vita a vedere e all’improvviso si ritrova cieco, nel posto più pericoloso.
Sapevo che lui non aspettava altro che trovare il momento giusto per parlarmi. Era convinto che in questo modo, dichiarandosi senza un telefono o un video tra noi, avrei finalmente acconsentito a demolire il muro che avevo innalzato tra me e il mondo, tra noi. Io speravo di potercela fare, ma ero riluttante, incerta. Avevo rimandato quel momento all’infinito, ma lì, in quella stanza piccola e con poche persone presenti, niente in particolare da fare o sistemare, mi resi conto di non avere scampo.
E il suo sguardo, quei due occhi color ebano, che per la prima volta ostentavano sicurezza, diede la conferma ai miei timori.
Si avvicinò con andatura dondolante, la schiena ricurva, i vestiti sgualciti indosso. Tutto ciò mi infastidiva, mi disturbava. Il mio animo perfezionista non riusciva a lasciarsi andare al pensiero che la gente si rendesse conto di quanto fossimo diversi, anche solo nell’aspetto fisico, e che lo facesse notando la profonda differenza tra i miei abiti, il mio portamento, la mia eleganza e i suoi. Mi sentivo osservata, come sotto esame, ogni volta che lui mi salutava più calorosamente o mi sorrideva, in pubblico.
«Ciao»mormorò, con un lieve tremolio nella voce.
«Ciao»risposi, fissando la punta delle mie ballerine di vernice rossa, regalo di compleanno da parte dei miei genitori.
Aspettai che aggiungesse qualcosa, continuando a tenere lo sguardo rivolto verso il basso. Lo sentivo agitarsi quasi impercettibilmente accanto a me, e il pensiero di essere il motivo di tanta inquietudine mi faceva salire un groppo alla gola tanto grande da rendermi difficile il semplice deglutire. Anche se avessi voluto dire qualcosa, non ci sarei riuscita.
«Avrei voluto parlare di questa cosa con le tue amiche prima, ma sentivo che non era il caso. Ho pensato che probabilmente era meglio discuterne a voce, io e te, da soli, senza nessun altro»disse.
«Hai pensato bene»risposi, mentre un brivido mi percorreva la schiena all’idea che avrebbe potuto lasciare che qualcuno di esterno, che non mi conosceva realmente e si basava solo sull’apparenza, giudicasse ciò che era successo e stava succedendo fra noi. Tremai al pensiero che qualcuno sapesse come mi ero comportata con quell’individuo che nella scala sociale non era nessuno e contava meno di zero, quando predicavo di continuo che l’apparenza è tutto e che la bellezza, quando è interiore, è del tutto inutile.
«Tutto è cominciato da quella sera a casa tua, mentre guardavamo quell’horror da due soldi che non avrebbe spaventato nemmeno un bambino. Era buio, e io non avevo nemmeno guardato su quale divano ti eri messa. Ma quando mi sei venuta in collo, abbracciandomi con una dolcezza di cui non credevo tu fossi dotata, mi hai spiazzato. Sono rimasto inerte, sicuramente l’avrai notato. Inerte come solo uno stupido può rimanere, tenendo una come te sulle ginocchia. Ma il mio cervello…» fece una pausa per accrescere l’effetto, «era partito alla velocità della luce e si stava perdendo in congetture che ci ritraevano insieme, mano nella mano, sotto una coltre di neve nel periodo natalizio, mentre ci scaldavamo l’un l’altro per non battere i denti; oppure stesi su un telo colorato, sotto il sole cocente di agosto, al mare…»sospirò.
Il mio cuore, che aveva immaginato tutte queste cose, scalpitava e si agitava. Il cervello cercava di calmarlo, di impedirgli di fare rumore. Sarebbe stata la fine.
«Poi si è accesa la luce nella stanza e sei scappata lontano da me. Non mi hai più abbracciato, ma ti lamentavi perché io non lo facevo. Quando ti assecondavo, scappavi di nuovo. Non capivo più niente, cercavo di fare mille ipotesi che non portavano a nessuna soluzione. Penso di essermi innamorato di te, nonostante tutto. Non trovo altri nomi per i miei sentimenti. E proprio per questo ho deciso di parlarti… perché so che l’amore non può essere definito tale se è a senso unico»disse, con la tristezza nella voce di chi ormai si è rassegnato all’evidenza.
Non sapevo cosa dire. Era come se le parole, che di solito affluivano nella mia mente e affioravano alle mie labbra con facilità, fossero state segregate sul fondo di un pozzo profondissimo al quale io non potevo attingere.
E la solita battaglia fra cuore e cervello aveva luogo dentro di me, lacerandomi, spezzandomi in due parti nette, precise, entrambe invitanti, seducenti, convincenti.
Decisi di alzare lo sguardo, commettendo l’errore che mi convinse che un rimpianto è meglio di un rimorso. La collezione di troppi pentimenti viene sempre rinfacciata dalla gente. La mancanza di coraggio nell’agire, invece, spesso è garanzia di stima. Nessuno può dire nulla sui tuoi errori.
La ragazza più popolare della scuola, quella di cui avevo agognato la vita, i lucenti capelli rossi, l’adorazione di ogni singolo studente, la schiera infinita di amici; quella che mi aveva spesso fatto complimenti e dato consigli, negli ultimi tempi, fino ad ammettermi nella cerchia dei pochi eletti che potevano starle accanto, passò di lì. E mi fissò, con un tale disgusto nello sguardo nei confronti di colui che mi stava accanto che trasalii.
Improvvisamente realizzai che stare lontana da lui sarebbe stata la soluzione migliore. Ignorarlo, trascurarlo, escluderlo per sempre dalla mia vita.
Senza di lui, avrei brillato. Con lui, avrei avuto solo il suo amore.
Ed ero quasi sicura che non mi bastasse, perché negli esseri dotati di mente brillante, gli esseri razionali, precisi e ragionevoli, l’affetto delle persone non ha mai la priorità sul successo, sulla convenienza data dall’essere circondati di persone forse prive di sani principi ma dotate di un certo valore nella scala sociale, sulla popolarità, sulla fama.
E agii di conseguenza. Dissi a quel ragazzo, di cui ormai non ricordo nemmeno il nome, che i miei gesti erano stati dettati dall’inesperienza, inventai la scusa di non aver mai avuto un amico maschio per giustificare il mio comportamento ambiguo; proseguii per la mia strada, brillando in tutti i campi, tranne in quello dell’amore.
Ma ancora oggi, qualche volta, mi chiedo: che cosa ne sarebbe stato di me se, per una volta, avessi seguito il cuore al posto della mente?
  
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