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Autore: Briseide    18/07/2005    5 recensioni
"E' meglio bruciare che spegnersi lentamente". Questa la filosofia di vita comune a molti Slytherin. Tra questi, c'è anche Pansy Parkinson, dura con il mondo e con chi la circonda, in cerca di un compromesso che la porti a non dover nè bruciare nè spegnersi lentamente. Accanto a lei, i compagni di quella vita che non riescono a definire piacevole, ma che cercano di mitigare con la presenza l'uno dell'altra. Questa breve storia è un piccolo viaggio nel mondo Slytherin, giusto per sentire anche l'altra faccia della vita di quel mondo magico. Quindi, attenzione: i protagonisti sarano esclusivamente Slytherin, le altre Case faranno i loro interventi, ma è da tenere a mente che tutto sarà raccontato da un punto di vista Slytherin. ^^.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Blaise Zabini, Draco Malfoy, Pansy Parkinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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It's better to burn





E' meglio bruciare, che spegnersi lentamente.
[Neil Young]



Mettiamo subito in chiaro una cosa.
Se c’è una cosa che non sopporto, quella è sicuramente mischiarmi alla gente, così volgarmente comune, peggio ancora se devo farlo per le vie di Diagon Alley.
Non è un luogo comune, o un generalizzare, o un pensiero spocchioso da ragazza di ricca famiglia come tutti trovano più semplice affermare, ma semplicemente la verità, chiunque potrebbe considerarlo: in quella strada si verificano tutte le situazioni più improponibili e assurde che possano accadere. Come ad esempio il dover assistere ad una folla di gente in preda a follie omicide pur di arrivare per primi a toccare una vetrina con la punta del naso. O penosi quadretti famigliari mamma-papà e figlio che camminano serenamente per la strada, solitamente al centro per far ammirare a tutti quanto è felice quella famiglia. Il tutto assume toni ancora più patetici quando la madre aspetta un altro bambino.
Che io mi ricordi, non sono mai andata in giro per Diagon Alley dando la mano a mia madre, e camminando al fianco di mio padre, che con le mani in tasca sorride ad un conoscente e stringe la mano ad un amico, incontrato per caso, anche lui lì con la sua allegra famiglia.
Mia madre mette piede fuori di casa solo per entrare in quella di altri, in occasioni di ricevimenti o false riunioni tra vecchi amici, che stranamente si svolgono in saloni insonorizzati o in scantinati adibiti a Sala Riunioni, con tappeti pregiati, mobili antichi e comodi divani.
Ho smesso di credere a quella storia a dieci anni. È un po’ inusuale che durante una riunione di vecchi amici uno di loro esca dalla stanza riverso su un lettino, con la camicia sbottonata e la schiena forata da chissà quale incantesimo, non è vero?
Quello è stato il primo cadavere che ho visto, e francamente, mi aspettavo di peggio. Ad altri non è andata così bene la prima volta, ma non ho voglia di parlarne.
Tutto questo era solo per sottolineare quanto fosse snervante per una come me passeggiare per Diagon Alley. Ma sempre perché secondo la regola Non C’è Mai Fine Al Peggio, dovevo farlo affiancata alla persona più sinceramente insopportabile con la quale abbia mai avuto a che fare. È un altro modo per dire che è mia amica, ma che ho perso di vista le poche ragioni per le quali lo siamo ancora, da quando contavamo soltanto undici anni di età. Solitamente non la chiamo con alcun nome, contando che è sempre alla mia destra non ho mai bisogno di alzare la voce e attirare la sua attenzione, per questo ogni tanto dimentico persino come si chiami in realtà. È grazie agli altri che finisco con il ricordarlo sempre, quando qualcuno alza la voce e la chiama per nome, solitamente per rivolgere in seguito un simpatico commento su uno dei tanti difetti che la compongono. In ogni caso, lei è qui al mio fianco e si chiama Millicent Bullstrode.
Capirete che non faccio un gran danno a non nominare mai il suo nome.
Ebbene si ,le grandi ingiustizie di questa misera e cinica vita: io sono una viola del pensiero, pensata soprattutto nelle ore notturne, e lei semplicemente Millicent Bullstrode, Colei Alla Quale La Natura Ha Definitivamente Voltato Le Spalle.
Ma se c’è una cosa da dire su Millicent, va detta: è una ragazza d’oro in realtà, non fa mai pesare agli altri il fatto che Madre Natura si è scordata di lei, facendo sentire in colpa chi ha davanti per essere tanto migliore di lei. Cara Millicent. Fa così con tutti, ma non con me. Non le riesce proprio, d’altra parte, e io non sono tipo da rimanere male per certe cose.
Probabilmente perché la parola senso di colpa non so neanche cosa sia. Da lungo tempo non mi fa visita, l’ultima volta è stata da bambina, quando per sbaglio ho fatto cadere una allora curiosa maschera d’argento, su un ripiano in alto della libreria di mio padre.
Non sono una vigliacca, avrei finito con l’avvisare di quanto fatto, ma mi sembra ovvio che la prima cosa da fare è cercare di rimediare da soli al danno fatto. Ebbene, a otto anni non ero poi così esperta in fatto di manualità, esperienza che avrei poi acquisito più in là e di certo non per il bricolage, e se possibile peggiorai la situazione.
Il mio senso di colpa fu causato da una cicatrice sulla schiena di mio padre. Mia madre mi aveva accarezzato la testa e sorriso il più falsamente possibile, per farmi credere che dopotutto non fosse colpa mia. In effetti mia madre è una persona particolare, con le sue strane convinzioni, ognuna alquanto discutibile. Ma pare che mio padre la ami sinceramente.
Sentii qualcosa urtare contro la mia spalla: un ragazzino poco più alto di me era passato di corsa accanto a noi, scostandomi anche poco gentilmente. Ecco perché non sopporto questa via e la gente che la frequenta. Mi viene da sorridere, perché penso che se Blaise mi sentisse dire una cosa del genere, aggiungerebbe con la sua solita classe che io odio tutta la gente che non sia io.
In realtà non è propriamente così, ma la mia corrente di pensiero tende a prendere quella strada.
Il secondo colpo sulla spalla però, arrivo da un dito tozzo di Millicent. Mi voltai verso di lei, appena spazientita. Erano passati più di trenta minuti da quando eravamo lì, io lo considero un fatto normale.
“Pansy guarda quel vestito!”.
Allungò un dito verso la vetrina davanti a noi, e lo puntò su un vestito blu, adagiato su un modello in legno dalla corporatura perfetta. Prima di posare lo sguardo sul vestito, guardai il modello in legno e lo confrontai con il mio corpo. Potei ritenermi soddisfatta. Allora passai al vestito, posando gli occhi sul tessuto blu notte, sulle pieghe in fondo alla gonna, sulle spalline sottili, sulla scollatura appena accennata. Non era male, ma addosso a Millicent sarebbe andato malissimo.
Come sempre, non mi sentii in colpa per quel pensiero: amavo la mia schiettezza, non l’avrei cambiata per nessun altro pregio al mondo.
La guardai scettica. Poi scossi la testa. Millicent salutò il vestito con un’ultima occhiata di rimpianto e riprese a camminare.
Esatto, se io, Pansy Parkinson, mi trovavo a Diagon Alley, era solo perché Millicent si era gettata ai miei piedi, implorandomi di uscire con lei quel sabato mattina, in cerca di un fantomatico (ed inesistente) vestito che le andasse bene. Alla fine avevo accettato, anche se piuttosto controvoglia.
Tra tutte le cose che odio, rientrano anche le cose all’ultimo minuto e al tempo stesso, le cose fatte inutilmente di corsa.
I cancelli di Hogwarts si sarebbero aperti due giorni dopo quel sabato, e Millicent mi aveva trascinata a Diagon Alley per cercare un vestito da sera da indossare al prossimo ballo che forse neanche ci sarebbe stato.
Quella sciocca di Hannah Abbott, aveva sparso la voce di un futuro ballo che si sarebbe dovuto tenere in quel di Hogwarts nel corso del nostro ultimo anno. Esattamente quell’anno. Peccato che quella vecchia gatta spelacchiata della McGranitt avesse espresso il suo categorico no, con l’appoggio ovviamente della Granger, che non faceva i salti di gioia all’idea di dover piangere per i prossimi tre anni perché il Re Weasley non l’avrebbe invitata, e quello di Ernie McMillan, che sapeva fin dall’inizio che avrebbe ricevuto una lunga serie di rifiuti da parte di tutto il corpo femminile del castello.
Avrebbe potuto andarci con la Granger. Insomma, il punto è che di definitivo non c’era assolutamente niente, era solo un’idea venuta fuori all’ultima riunione dei Prefetti con il corpo docente alla fine dell’anno scorso, il sesto per noi. E ovviamente l’aveva tirata fuori quella scervellata della Patil, che aveva una gran voglia di rifarsi dell’ultimo ballo con Weasley. E nel caso in cui avessimo ottenuto l’accordo, non sarebbe stato prima di dicembre. Per non parlare poi della possibilità che si facesse direttamente a giugno.
E, dopo tutte queste considerazioni, Millicent mi aveva portata a Diagon Alley a Settembre.
“E di quello che ne dici?”.
Ecco che aveva adocchiato un altro vestito. Repressi uno sbuffo e seguii la direzione del suo dito. Alzai un sopracciglio. Meno peggio dell’altro, addosso a lei. Il che implica che fosse anche meno bello. O più brutto per non usare altri patetici eufemismi.
“Se lo hanno di un altro colore, provalo”.
Decisamente, il turchese non faceva per Millicent. Fu come se le avessi detto che Blaise aveva intenzione di sposarla. Entrò zampettando dentro al negozio, e si diresse con un sorriso che non finiva più verso la prima commessa libera. La prescelta impallidì nel vederla venire, ma non volli farci caso, o mi sarei dovuta arrabbiare.
Non tutti avevano il diritto di offendere Millicent o avanzare critiche. Capitava spesso che fulminassi qualche studente ad Hogwarts, senza che lei ci facesse caso. Un mio sguardo era sufficiente a far chiudere la bocca al malcapitato di turno. Ma ammetto che i commenti di Blaise sono sempre ben accetti, dopotutto lui potrebbe anche vantarne il diritto. Già, Millicent è innamorata di lui dal nostro secondo anno. Perdutamente innamorata, è anche un po’ patetica, e non mi risparmio mai dal dirglielo, ma lei risponde che non posso capire non avendo mai amato nessuno.
Non so se è vero. Tendenzialmente si, non credo di aver mai detto a qualcuno di amarlo, anzi non lo ho mai fatto, lo so per certo, ma ho delle vaghe reminiscenze, e fatico a ricordare se in effetti abbia mai pensato di poter amare una persona. Non ricordo molto bene, e per questo non ci penso mai tanto a lungo sopra. Non è che mi interessi poi molto, se non lo ricordo non è importante, e in ogni caso il mio nuovo approccio con la vita assorbe tutto quello che è stato il mio passato sentimentale.
Dopo aver osservato un vestito nascosto da quello scelto da Millicent e valutato che il mio corpo merita molto di più, feci per entrare, quando qualcosa mi fermò il passo.
La cosa era la mano di Blaise, che riconoscerei tra mille: vellutata come quella di un bambino, forte, le dita lunghe come le mie, e sempre gelida. Ma è un gelo che a me non ha mai fatto male. A molti altri si.
“Guarda chi si vede…”.
Commentò aprendosi in un sorriso storto dei suoi. Si, sorriso storto è quel che si addice al sorriso di Blaise. Non è un vero e proprio ghigno, particolarità solo ed unicamente di Draco quella, essendo più accattivante che maligno, benché la sua dose di veleno in bocca ce l’abbia anche lui come me e come Draco e come tutti quelli costretti a stare sempre sulla difensiva quando non sono tra di loro. Beh, a parte Millicent come già detto.
“Blaise”.
Lo salutai reclinando di poco la testa e assottigliando gli occhi. Allora mi lasciò il polso e si fermò a guardarsi intorno. Non si accorse di Millicent dentro al negozio, e io preferii non dirglielo. Il pensiero che quel vestito le sarebbe andato male ancora una volta mi aveva già rattristato abbastanza. “E’ un vera soddisfazione coglierti nella pagina più ingloriosa della tua esistenza”.
Aggiunse indicando con un cenno del capo il negozio alle mie spalle. Sorrisi divertita, senza perdere quell’ombra di malizia che ormai sembra essere cucita addosso a me come una seconda pelle.
“Oh figurati, ci sono state pagine ancora più ignominiose nella mia vita”.
Una luce di interesse attraversò i suoi occhi screziati d’argento. Si, gli occhi di Blaise sono sempre stati il centro dell’interesse di molti, ma pochi hanno avuto la possibilità di studiarli realmente da vicino. Personalmente, sono convinta che nella sua vita precedente, Blaise fosse un gatto. I suoi occhi sono quelli di un gatto, non tanto per il colore, ma per la loro luce e particolarità. Quel blu avvolgente screziato di argento. Chi volesse fare della mielosa poesia, potrebbe benissimo dire che equivalgono ad un mare di notte con i riflessi della luna. E io dico semplicemente che sono la cosa più bella che abbia Blaise. “E ci saranno ancora. Però questa me la appunto”.
Promise scherzoso. Ma sapevo che non stava scherzando. L’ironia di Blaise per certi aspetti era molto sottile…così sottile che quando meno te lo aspetti, scompare. E allora capisci, a volte troppo tardi, che non sta scherzando per niente. Io sono piuttosto brava, lo capisco sempre. Ma credo di partire anche più avvantaggiata rispetto ad altri.
“Ti restituirò il favore, Blaise, stai attento”.
Lo minacciai ridendo appena. Rise appena anche lui. Tra di noi, e per noi intendo noi Slytherin più o meno, non si ride quasi mai. Tutto al più si ride appena. Non ci sono molti motivi per ridere e basta, se non c’è un velo di malignità, e allora è un ghignare, c’è un motivo di dolore che per non ammettere nascondiamo dietro ad amarezza, raramente malinconia. Ma tutto sommato va bene così. Ridere appena con Blaise mi è sempre piaciuto.
“Draco?”.
Non avrei dovuto chiederlo, e lo sapevo anche mentre lo chiedevo e prima di farlo. Ma era scritto nel destino di quella conversazione. Dovevamo farlo, o io o lui. Odio aspettare che qualcosa di brutto che deve accadere per forza, avvenga. Preferisco bruciare subito, io. È come se volessi togliermi il pensiero, ma in questo caso il pensiero non ce lo saremmo tolto. Se il pensiero è Draco è del tutto impossibile.
È una maledizione: per quanto possa farti stare male, farti impazzire e farti arrabbiare, non puoi toglierlo dalla testa, in qualche modo ritorna sempre. Almeno a me succede così, e so che Blaise ha il mio stesso problema. Che in fin dei conti, è tutto meno che un problema.
Non voglio smettere di pensare a Draco. Perché lui ha bisogno che qualcuno pensi a lui, e a me fa piacere farlo, a volte mi fa piacere persino stare male per lui. È un po’ una convinzione idiota che se sto male per lui, un po’ del male che prova sparisca, perché l’ ho preso io. È ovvio che non è vero, ed è anche ovvio che non mi piace parlare di queste cose, perché sono troppo sentimentali.
L’importante, certe volte, è sapere che è così anche per Blaise.
“Non lo sento da un po’”.
Odio quando fa il vago. E lui sa che odio la vaghezza. Il fatto è che per lui ogni tanto esserlo diventa una sorta di difesa, come in questo caso. Non ho il diritto di avere certe pretese in effetti: io non ho avuto il coraggio di inviargli neanche una lettera via gufo.
“Gli hai scritto, almeno?”.
Annuì pensieroso e io sentii una fitta nervosa allo stomaco. Mi dava immensamente fastidio venire a sapere che ero l’unica a non avergli scritto. L’unica codarda. Ma sentirmi rispondere male non era la mia massima aspirazione, in nessuna famiglia le cose andavano bene dopotutto, con l’unica differenza che mio padre tornava a casa la sera arrabbiato e a volte ferito, discuteva un po’ con mia madre e dopo aver sbattuto qualche porta se ne andava a bere da qualche parte, a volte con il padre di Blaise. Ma prima o poi, che fosse l’alba o che fossero le due di notte, a casa tornava.
Lucius Malfoy, dall’arresto alla fine del quinto anno, non aveva fatto altro che entrare e uscire da Azkaban, con accuse e processi. Soprattutto processi. Processi su processi, senza fine e senza ottenere niente da nessuna delle due parti: nessuna accusa sicura, nessuna libertà certa. Fino a quando non era evaso, per non tornare più. E così adesso nessuno sa dove sia finito. Tantomeno Draco o sua madre.
“E tu?”.
Scossi la testa. Se solo suo padre non fosse stato Lucius Malfoy, niente sarebbe stato tanto complicato. Draco assomigliava moltissimo a suo padre. Incuteva la stessa soggezione a volte. Reagiva come lui. Si arrabbiava come lui. E ora che suo padre era sparito chissà dove, le cose erano precipitate. Non ho mai capito cosa vedesse Draco in suo padre. Se un modello, se un bastardo della peggior specie, se il sosia di un Dio o che altro. Però intuivo come si potesse sentire(anche se non gli dicevo mai frasi del genere): tradito. Abbandonato. Era anche molto arrabbiato, ma noi siamo così: i sentimenti li abbiamo, ma preferiamo non darlo a vedere oppure metterli direttamente da parte. Così succede che ogni tanto finiamo con il dimenticarci cosa si prova, come ci si sente, e non sappiamo più come si fa a tirarli fuori. Succedeva un po’ a tutti a turno, soprattutto negli ultimi tempi, da quando era successo quel putiferio all’Ufficio Misteri, ed era successo anche a Draco.
“Quella ti sta fissando”.
Mormorai guardando oltre Blaise. Una ragazza guardava in nostra direzione, con una busta piena di libri in mano e riccioli castani sparsi sulle spalle.
Sembrava una Granger in miniatura. Ovviamente non mi piacque, e il mio tono era piuttosto derisorio, come la maggior parte delle volte, del resto.
Blaise si voltò lentamente, stringendo gli occhi contro la luce del sole, per vedere meglio, e le sorrise. Lei abbassò immediatamente lo sguardo e se ne andò quasi correndo. Scoppiammo a ridere quasi divertiti. Ovviamente non mi fece pena e non mi sentii in colpa. Però mi sforzai di ricordare chi fosse, certa di averla già vista da qualche parte. Alla fine mi illuminai.
“Meredith Brummel. Una Hufflepuff mi pare”.
Blaise inarcò le sopracciglia perplesso. Non era da me considerare certe persone. Non consideravo quasi nessuno, e se lo facevo era con un certo sprezzo, ma una Hufflepuff poi, era veramente inverosimile in effetti.
“Come fai a sapere chi è?”.
Mi domandò tra il divertito e il disgustato. Riportai al loro posto dei capelli indisciplinati che mi erano scivolati ai lati del viso e alzai le spalle, indifferente. Non era poi così strano che sapessi chi era.
“Il suo ragazzo, o meglio ex-ragazzo, aveva una cotta per me l’anno scorso. Mi ha lanciato una fattura”.
Una luce di comprensione gli illuminò il viso e sorrise, come se avesse davanti la vera Pansy Parkinson, adesso.
“Ci vediamo alla stazione, tra due giorni”.
Annuì dandomi le spalle e riprendendo a camminare. Io guadagnai l’entrata del negozio, certa che Millicent fosse disperata non avendomi più vista, e che senza quella che ritiene la mia indispensabile guida non sapesse più dove sbattere la testa. Ero con un piede nel negozio quando la voce di Blaise mi richiamò dal fondo della strada. Mi voltai curiosa.
“Parkinson! Ti tengo d’occhio!”.
Urlò portando due dita sotto i suoi occhi e indicandomi poco dopo. Gli sorrisi e rientrai nel negozio, nello stesso momento in cui Millicent usciva dal camerino avvolta in una specie di carta da caramella che lei chiamava vestito.
“Allora? Che ne pensi?”.
Storsi il naso, e non potei fare a meno di lasciarmi sfuggire un commento sulla carta da caramella. La commessa mi odiò a morte, ma Millicent tornò nel camerino pronta a levarlo e rimetterlo sulla sua stampella, rivolgendomi invece uno sguardo di eterna gratitudine per essere stata così schifosamente sincera. Dio, ma come faceva ad essere mia amica?
nfatti non lo è. Tu la sopporti e basta.
Giusto.
Mi sentii meglio.


°°°

Due mattine più tardi mi svegliai con la sgradevole sensazione di dover fare qualcosa di poco piacevole.
Come cercare di non perdere il treno per Hogwarts. O come dove andare ad Hogwarts, esempio più valido. Non c’era qualcosa di particolarmente spiacevole nel doverci andare, solo la presenza della casata Gryffindor,di Silente…e di tutte quelle altre cose che non riguardassero Slytherin e il professor Piton.
E Draco Malfoy, che avrei dovuto necessariamente rivedere. Ecco, questo non mi allettava particolarmente. Ho detto che pensare a lui non fosse così male, ma rivederlo è un altro conto. Perché sapevo perfettamente di non avergli scritto neanche una lettera, e che se anche lui non me lo aveva chiesto, si era aspettato che io facessi qualcosa. Odio chi ha delle aspettative nei miei confronti.
Non mi piace deludere la gente, non tanto perché mi dispiace farla rimanere male, ma perché poi dovrò necessariamente convivere con il pensiero che secondo loro ho fallito. E fallire non piace a nessuno, a parte i Weasley, che ormai ci hanno fatto l’abitudine e ne hanno fatto lo stemma della loro sgangherata famiglia.
Appena oltrepassai la barriera che portava alla stazione in ogni caso non c’era il minimo segno di preoccupazione sul mio viso, e io in effetti non ne avevo neanche una, ero riuscita come sempre a metterle da parte con estrema maestria. Se mio padre lo avesse saputo, ne sarebbe andato fiero, ma quella mattina non avevo avuto l’occasione di vederlo.
Mia madre mi aveva detto sorridendo tutto il tempo che la notte prima era tornato tardi, e un po’ malconcio, e che era il caso di lasciarlo riposare. Non avevo aggiunto altro, dopotutto mi andava bene anche così, non ho un gran rapporto con mio padre. E al contrario di Draco, neanche desidero averlo. Draco. Ecco l’esempio lampante del problema esposto prima: tu non vuoi pensarci, ma ci pensi. È come se lui potesse accorgersi che in quel momento ti è volato via dalla mente, e allora ritorna, perché altrimenti nessuno starebbe pensando a lui, e per Draco sarebbe troppo dura e difficile da sopportare evidentemente. In ogni caso, quando varcai quella barriera, ero perfetta. Avvolta nella mia solita impeccabile perfezione. I capelli perfettamente al loro posto, sfioravano appena le spalle, solleticandomi la pelle. Il viso rilassato, l’unica contrazione era il mio sorriso storto, a volte in comune con Blaise, e il mio corpo…beh quello era quello di sempre. Che mi offriva vantaggi non da poco, e permessi che altri non avrebbero avuto.
Non ho mai pensato che fosse giusto, ma il mondo girava da quella parte e non avevo intenzione di sprecare opportunità che Madre Natura, molto magnanima con me, mi aveva messo a disposizione.
Armonico, minuto e perfettamente modellato.
Tra tutta quella perfezione, c’era anche la mia verità: vale a dire che io i miei difetti li so nascondere molto bene. Questa abilità, che in pochi hanno, mi da il diritto di essere perfetta. Almeno al tatto e alla vista, perché ammetto da sempre e senza problemi che la mia personalità non è affatto perfetta.
Ma è perfetta nella sua imperfezione.
Ero perfetta persino nella mia sicurezza di me stessa. L’unica cosa a non essere perfetta era la mia vita, che con me c’entrava ben poco: ecco perché non era perfetta del resto.
“Parkinson”.
“Goldstein”.
Salutai con un cenno del capo il mio collega, quell’anno Caposcuola come me. Non avevo grandi rapporti con Goldstein, era un filo-grifone dichiarato dopotutto, ma sapeva ammettere che meritavo un certo interesse. L’unica cosa per il quale potessi apprezzarlo: ammettere la verità, nonostante poi sbandierasse ai quattro venti i suoi difetti, scelta imperdonabile a mio parere. Andare in giro con Hermione Granger, convinto forse che tra loro possa nascere una sorta di relazione, inconsapevole che nel letto con loro finirebbe anche l’intero reparto della biblioteca scolastica, e poi posare i suoi occhi scuri sulle mie gambe e salutarmi la mattina, con l’aria di chi ha lanciato il suo avviso e la sua proposta.
Non ti stimo, ma non ho bisogno di stimarti per finire a letto con te.
Un discorso piuttosto logico, che per me non rappresentava alcun problema, né ora, né durante il sesto anno, da quando mi aveva resta partecipe di quel tacito pensiero.
Ma non mi piace macchiarmi di piacere sporco. Non fosse stata la Granger, quella con cui è sempre stato a stretto contatto, gli avrei fatto spazio nel mio letto per una notte piacevole da trascorrere insieme.
Ma, capita l’antifona, non sembrava essersi pentito di correre dietro alla Granger. E lo sguardo che mi aveva lanciato in quel momento lasciava intendere che credeva potessi aver messo da parte quei pensieri, e sperava che avessi deciso di dargli una possibilità.
Sbagliato Goldstein, io non concedo possibilità a nessuno. È sempre la solita storia, che mi sono anche un po’ stancata di dover ripetere: do per ottenere qualcosa. Nessuno di noi ha mai ricevuto seconde possibilità, quindi io non le do. Sperai che lo capisse, perché intrattenermi con lui non mi sarebbe andato a genio. Averlo nel letto implicava non parlare. D’altra parte io amo la chiarezza.
“Saluti anche Goldstein, adesso? Pansy stai perdendo colpi. Così disperata?”.
Alzai gli occhi al cielo, incurvando le labbra in un sorriso. Tra tutta quella gente, era riuscito a trovare me. Non era una cosa tanto difficile, da verificarsi. Noi Slytherin abbiamo sempre dovuto contare su noi stessi, o sulle uniche due o tre persone che fossero come ognuno di noi. Io avevo Draco e Blaise, e Millicent aveva me. E quando eravamo circondati da ostacoli e da nemici, cercavamo sempre di ritrovarci, ed era facile riuscirci.
Eravamo allenati da tutti quegli anni, e soprattutto eravamo allenati dalle nostre famiglie. Sapevo che mio padre poteva contare unicamente sul padre di Blaise, in mezzo a tutti quegli assassini quali erano, e forse era stato proprio questo il problema di Lucius Malfoy. I Lestrange erano finiti ad Azkaban, e per un suo imperdonabile errore di valutazione, era rimasto solo: Piton aveva tradito.
Anche a causa di questo, quegli sciocchi Gryffindor si lamentavano continuamente, denunciando a chiunque gli rivolgesse la parola la parzialità di Piton e il suo privilegiare Draco.
Da quando aveva messo piede ad Hogwarts, Draco non aveva mai rivolto a Piton un sorriso gentile. Non. Un. Solo. Sguardo. Di. Stima. O di rispetto. E con il passare degli anni, quando eravamo cresciuti, non un briciolo di comprensione nei suoi occhi grigi quando guardavano quelli di Piton.
E i favoritismi di cui tanto parlavano le altre Case, non erano altro che i tentativi di Piton di farsi perdonare, per aver abbandonato quello che un tempo era stato il suo appoggio. Sapevamo tutti che il più grande rimorso di Piton era quello di aver compromesso la vita di Draco, non quello di aver lasciato nei guai suo padre, e forse lo sapeva anche Draco e proprio per questo non voleva ancora perdonarlo.
Mi incamminai al fianco di Blaise, diretta al treno. Mi guardai rapidamente intorno, e Blaise mi imitò.
“E’ già arrivato?”.
Questa volta era stato lui. A non volersi bruciare lentamente. Alzai le spalle e guardai indietro: ma non lo vidi da nessuna parte. In genere lo distinguevo sempre. Quel passo arrogante e sicuro, e quella fermezza nei suoi occhi che tanti scambiavano per strafottenza, e pochi riconoscevano come puro terrore di guardarsi intorno. Guardava solo avanti, perché quella era l’unica cosa che gli era rimasta. Perché, ovunque fosse, suo padre era sempre un passo avanti a lui, e non lo avrebbe trovato guardandosi alle spalle.
Un soffio di vento più fresco degli altri mi fece rabbrividire. La mia gonna della divisa era quella dell’anno passato, più corta rispetto agli standard, e le calze autoreggenti non proteggevano dal freddo. Il maglione della divisa era qualcosa di ingombrante da portare con me, mi piaceva mostrare i miei averi, ed era rimasto nel baule. Strinsi le spalle e le strinsi tra le mani, mordendomi un labbro. Non ebbi il tempo di dire niente, che il maglione di Blaise era finito sulle mie spalle, e lui si stava abbottonando i bottoni superiori della camicia per non sentire freddo a sua volta.
Alzai la testa per guardarlo negli occhi, e accennai un sorriso.
“Prego”.
Nessuno era abituato a sentirmi dire tanto spesso grazie. Io invece me lo sentivo dire molto più spesso, quando qualcuno si stendeva accanto a me nel letto, il suo respiro leggermente irregolare, le coperte finite chissà dove. Ma allora non rispondevo ‘prego’. Non c’era niente di carino nel suo ringraziamento, era solo l’ultimo momento di eccitazione che stava andando spegnendosi.
“Saliamo”.
Mi invitò Blaise. E nella sua voce tremava l’impazienza.
Impazienza di vederlo. Di mettere fine a quest’ansia inusuale, in genere avevamo un controllo come pochi. Di mettersi l’anima in pace e vedere che almeno era lì, da qualche parte.
“Elargisci addirittura tuoi indumenti?”.
Una voce strascicata quanto ironica ci accolse nel salire sul treno. Appoggiato al vetro del corridoio del treno, Draco ghignava sinceramente divertito in nostra direzione. Il mio sorriso suonò molto come un sospiro di sollievo, e accanto a me Blaise rilassò i muscoli, prima di scambiarsi un saluto piuttosto, ed esageratamente, maschile con Draco.
“D’altra parte le ragazze infreddolite sono così carine…”.
Rispose scherzando Blaise e mi strizzò l’occhio. Gli lanciai addosso il maglione, e li raggiunsi. La mia sicurezza si era un po’ sfaldata, e i ricordi di un sogno assurdo fatto la sera prima mi impedirono di avere la coscienza sgombra da strani pensieri che generalmente non mi capitava di avere.
Draco mi guardò per qualche secondo, senza perdere il sorriso di poco prima.
“Goldstein ti preferisce senza maglione, Pansy?”.
Ecco, ora era tutto a posto. Le solite provocazioni, lo stesso timido piacere del rivedersi, la stessa durezza stupida nel non dirlo a parole, o nel non farlo a voce alta. E un vago senso di calore alla bocca dello stomaco, qualcosa che mi opprimeva la gola e tante parole non dette che avrei dovuto dire. Fu quella la prima volta dopo nove anni, in cui fui assalita dai sensi di colpa. Non fu niente di violento, piuttosto una dolce fitta al petto, e una gran voglia di chiedere scusa. Scusa per non aver scritto, per essere stata una codarda, per aver pensato a lui in tutto questo tempo e non avergli dato la certezza di averlo fatto, quando io stessa sapevo benissimo che le uniche cose di cui avesse bisogno Draco fossero un po’ di certezze.
“Va tutto bene?”.
Domandai invece, anche piuttosto seccamente, in un tono duro che non era quello che avrei voluto usare. Draco scrollò le spalle, forse pensò per qualche secondo se dire la verità per la prima volta dopo una vita intera, o se continuare a mentire, sapendo che con me e Blaise non avrebbe funzionato lo stesso. “Si”.
Quel momento di mia fragilità naturalmente durò pochissimo. Theodor Nott aveva pensato bene di passarci davanti, di scambiare qualche pacca sulla spalla con Draco e Blaise e di porgermi il suo personale bentornata Pansy con un lungo quanto indiscreto apprezzamento alle mie gambe, senza risparmiarsi di salire più su con lo sguardo, e confermare che il suo unico desiderio era quello di strapparmi la camicia e passare oltre. Altre persone si sarebbero sentite in imbarazzo o dispiaciute. Beh, io no, mi sentii come sempre. Gli vietai di andare oltre con un semplice sguardo, nel quale colse forse l’illusione che l’impedimento fossero stati i due scomodi testimoni, e la promessa che in altra sede gli avrei concesso quello che gli avevo vietato. Non mi sorprese, quel deliberato fraintendimento della mia risposta al suo personalissimo saluto. Lo facevano in molti, chi per addolcire il rifiuto che si erano sentiti rivolgere, chi per crogiolarsi in una fittizia illusione, chi sperando che cambiassi realmente idea come Goldstein.
Io non smentivo mai: il mondo era materiale, chi ci viveva amava il piacere che poteva scorrergli sotto le dita, nessuna idea dell’amore era più romantica e apprezzata che quella di un corpo vero sotto il proprio. Io avevo la possibilità di attirare l’attenzione altrui, sapevo come fare, se e quando porre dei limiti e non era mai capitato che qualcuno non li rispettasse. E non mi ero mai sentita sfruttata, per quanto detto prima: davo solo se ricevevo. Guardai la schiena di Nott scomparire in uno scompartimento a metà del treno, e fui certa che non ne sarebbe più uscito durante il viaggio, aspettandosi che io tornassi lì e mi concedessi a lui nel modo più squallido che potesse accadere.
Avevo delle piccole pretese anche io: non tolleravo lo squallore, quello non mi dava piacere, e io mi concedevo a patto che piacesse anche a me. E io pretendevo il rispetto, e non era mai mancato. Quello che poteva, e forse doveva, mancare era un coinvolgimento sentimentale: niente mazzi di rose fuori dalla porta del Dormitorio dopo una notte passata con qualcuno. Niente pretesa che io smettessi di fare tutto quello dopo che avevo fatto l’amore con uno di loro. Niente pretese di dimostrazioni di affetto. Ma il rispetto si, e anche una certa sensibilità. Il mio non era un prendermi gioco di altri, era ingannare il tempo e preservarmi qualche favore, che non avrei potuto ottenere in altra maniera, visto il mio nome e la posizione della mia famiglia in quella battaglia senza fine. E nessuno si prendeva gioco di me. Ma questo era ovvio.
“Abbiamo la riunione”.
Mi ricordò Draco, in tono annoiato. Ah, la noia. Io sapevo realmente cosa fosse, ma lui no. La sfruttava come difesa personale: quello che lo colpiva e lo rendeva vulnerabile, diventava noioso. Uno sbadiglio nascondeva uno stupore. Ma io invece, spesso finivo con il trovare noiosa quella quotidianità, interrotta solo di notte o in qualche pomeriggio particolare, in cui ci chiudevamo in qualche stanza a svagarci un po’. La mia noia si risolveva altrimenti in un turbinio di lenzuola e niente più. E tre minuti dopo tornavo ad annoiarmi e inevitabilmente quell’apatia profonda mi portava a farmi domande idiote, come ad esempio se fosse un buon sistema di vita quello che stavo utilizzando. Se comportarmi in quel modo mi stesse insegnando a non innamorarmi. Se la mia intelligenza venisse fuori veramente tra le bocche di tutti, o se prima parlassero della nostra ultima serata passata insieme. Domande che in genere non mi pongo mai, non interessandomi le risposte. La noia mi faceva sembrare le rispose materiale interessante, invece. E questo mi innervosiva tremendamente, perché era un mettere in discussione la mia vita. E quella che era la mia vita in quel momento, era di gran lunga migliore di quella che portavo avanti da bambina. Vivevo nel terrore, accidenti. Finalmente avevo la situazione sotto controllo, e le mie paure sapevo come metterle da parte e come ingannarle, anche se ancora non sapevo come sconfiggerle.
“Si, andiamo”.
Un cenno del capo e la promessa di vederci più tardi, con Blaise. E una noiosa riunione tra Capiscuola ci aspettava. Repressi uno sbadiglio assonnato, e ovviamente, annoiato. Draco mi guardò di sfuggita per un momento, come se per quell’attimo non fosse certo che fossi io quella accanto a lui. Non feci niente per dimostrarglielo, e lui sembrò convincersene da solo.

°°°

Essere Caposcuola aveva i suoi vantaggi, escludendo quelle patetiche riunioni e i giri di ronda la notte, per i piani del castello. Ad esempio una camera interamente per me, comunicante con quella del mio collega, con un bagno degno del nome, fornito dei migliori agi.
E una bella vista sul parco posteriore di Hogwarts dalla finestra sulla parete opposta alla porta.
Quella finestra che trovai spalancata quando entrai nella mia nuova camera, un pomeriggio. Trovai anche due ospiti seduti sul mio letto, intenti a fumare e a bisbigliare qualcosa di tanto in tanto, più per uccidere a coltellate violente di parole affilate il silenzio, che per reale voglia e necessità di parlare.
“Vi ho già detto che non voglio che fumate quella roba qui dentro”.
Protestai chiudendo la porta e gettando il maglione sulla sedia all’angolo della stanza. Tolsi le scarpe e raggiunsi Draco e Blaise sul letto. Il mio avviso non accolse risposte.
“C’è anche la stanza di Draco”.
Aggiunsi portando le gambe al petto e poggiando la schiena sullo schienale in ferro del letto. Blaise scrollò le spalle, a sottolineare che quel particolare non aveva importanza. Non avevo mai capito perché lo facessero infatti, ma ogni tanto mi capitava di tornare nella mia stanza e trovarli lì, intenti a fumare e a parlottare di chissà quale diavoleria. Ogni volta mi dimostravo infastidita, ma a conti fatti non li cacciavo mai, se non con un invito piuttosto rude accompagnato da un sorriso storto dei nostri, e una scrollata di spalle nel non vederli alzarsi da lì. Anche quella volta, era tutto secondo le regole. Ma quella era una quotidianità che non mi dava poi così tanto fastidio.
“Ne vuoi una?”.
Mi offrì Blaise indicando il pacchetto. Valutai la proposta ma scossi la testa. Preferivo assaporare il sapore agre e di mille profumazioni delle loro sigarette sparso nell’aria, non direttamente dalla sigaretta. Era più piacevole, e mi dava l’idea che evitassi di farmi ancora più male.
“Dove sei stata?”.
Mi domandò Draco guardando fuori dalla finestra. Era una classica domanda di quelle che poneva Draco ogni tanto. Non era realmente interessato alla risposta, ma gli faceva piacere chiedere qualcosa, e dimostrare che anche lui a volte aveva piacere ad informarsi sul conto di altri. Ma non era vero, e così l’effetto si perdeva subito per lui e per il suo interlocutore. Eppure tutti ogni volta perdevano tempo a rispondergli, forse perché dopotutto non era male illudersi per quei brevi secondi che Draco Malfoy avesse posto una domanda, senza che la risposta lo riguardasse in qualche modo.
“In giro per il castello. Ho rimediato queste dall’infermeria”.
Aggiunsi gettando sul letto una manciata di Caramelle Marinare, prodotto marcato Weasley, ma quelli buoni, gli unici in quella famiglia che non meritassero il mio disprezzo, semmai compatimento per essere nati tra quella gentaglia. Sarebbero state delle ottime menti, secondo un’altra scuola di pensiero.
“Ma…sono dei Weasley”.
Credette di ricordami Draco, guardandole con circospezione e netto rifiuto. Scrollai le spalle e le nascosi nel cassetto del mio comodino. Stava commettendo gli stessi errori di suo padre: mai isolarsi e rischiare di non avere altri appoggi. L’aiuto di quei due era del tutto clandestino e soprattutto inconsapevole da parte degli stessi, ecco perché lo avevo colto al volo. Madama Chips sequestrava milioni di quelle caramelle ogni mese, una volta scoperto dove le riponeva, era un gioco da ragazzi entrarne in possesso.
“Spirito di sopravvivenza, Draco”.
Tagliai corto stendendo le gambe e chiudendo gli occhi. Accanto a me Blaise espirò una voluta di fumo, che mi solleticò il naso e accarezzò i sensi: aveva un buon odore quella sigaretta, quasi fosse un bosco selvatico. Annusarla mi dava l’impressione di essere fuori da lì, e di poter decidere dove andare con la consapevolezza di poter sbagliare strada e di saperla sempre ritrovare prima o poi. Ma non c’erano più quelle maledette quattro mura se non altro.
“Ho incrociato Potter, prima”.
Mormorai sentendo i muscoli stendersi e ammorbidirsi lentamente. Al contrario il respiro di Draco si spezzò e percepii, pur avendo gli occhi chiusi, la violenza che impiegò nel inspirare il fumo e lasciarlo veementemente uscire dalle sue labbra. Blaise, come suo solito, non si mosse. Ma domandò.
“Cosa potrebbe mai accadergli quest’anno?”.
Risi appena. Come sempre, Blaise non stava scherzando, o almeno non del tutto. Draco ancora non parlava, ma la sua sigaretta ne stava risentendo. Ancora poco e l’avrebbe spezzata in due con la sola forza di due dita.
“Potrebbe anche scamparla. Mio padre di certo non attenterà più alla sua vita”.
Commentò inaspettatamente, lanciando la sigaretta fuori dalla finestra, come se quella fosse la sua vita, senza averla neanche finita. Sentii Blaise tirarsi su, e replicare alzando il tono della voce.
“Ehi, le ho pagate quelle!”.
Draco aveva tutta l’intenzione di ribattere, non gli era mai piaciuto non avere l’ultima parola, quando qualcuno bussò alla porta. In un attimo avevo le scarpe ai piedi, Blaise si impegnava a spegnere la sigaretta e a chiudere la finestra, mentre Draco cercava di smuovere l’aria e allontanare l’odore del fumo, agitando le mani, cosa del tutto inutile da fare.
“Hai del profumo?”.
Mi domandò a bassa voce. Gli indicai il bagno, ma dopotutto non perse neanche tempo ad alzarsi, non avremmo potuto fare aspettare all’infinito chi c’era dietro alla porta. Perché se si fosse affacciato Piton, saremmo stati tutti spacciati. Era di fronte agli altri che si dimostrava favorevole alle sue serpi preferite, ma in separata sede, nei sotterranei, le punizioni fioccavano come neve a Natale, anche se non toglieva mai punti a nessuno della sua Casa.
“Si?”.
“Sono io, apri”.
Sul momento rimasi piuttosto perplessa. Non era stato poi molto chiarificatore, quel qualcuno, che se non altro aveva una voce maschile.
“Aspettavi qualcuno?”.
Domandò Draco dietro di me, con un tono tutt’altro che informativo, ma di chi pensa di sapere la risposta e non ne è molto entusiasta. Non che lui si comportasse in modo tanto diverso da me, alla fine, non capivo dove nascesse il suo diritto di esprimere giudizi sui miei affari e comportamenti, quando erano quasi l’esatta fotocopia dei suoi.
“Mi pare di no”.
Risposi incerta. Era anche possibile che me ne fossi dimenticata, ma ero altrettanto sicura di aver detto di essere impegnata a quel Ravenclew all’ora di pranzo.
“Rivelaci il tuo nome, O uomo Misterioso”.
Tuonò Blaise aprendo nuovamente la finestra e tirando fuori la sua scatola di sigarette. Era già perfettamente rilassato come prima, a differenza di Draco, che era ancora in piedi quasi accanto a me, e osservava torvo la porta. Non gli piaceva avere dei dubbi. A Draco non piaceva niente, proprio come a me. Blaise era diverso per certi aspetti: ammetteva che aveva anche lui le sue passioni, e che a differenza di quello che dimostravamo io e Draco, le sue non erano quasi tutte poco ortodosse.
“Nott”.
Rispose meno sicuro di prima. Probabilmente perché a porgli quella domanda era stato Blaise, e non io. Sorrisi maliziosamente divertita, e mi avvicinai alla porta, posando una mano sulla maniglia. Draco aveva incrociato le braccia al petto, e continuava a guardare la porta, con la mascella serrata.
“Non gli avevi detto di non venire?”.
Ringhiò a bassa voce per non farsi sentire. Si, era vero, ma come avevo previsto aveva deciso di non accettare la dura realtà dei fatti. Mi appoggiai appena al legno della porta, sospirando il più soavemente possibile. Sentii il suo respiro da dietro la porta spezzarsi e accelerare appena, per quello che potevo sentire. Mi divertì: ecco che ancora qualcuno si dimostrava disponibile a giocare i propri sentimenti e pensieri per me. Una cosa inconcepibile: io non lo avrei mai fatto per qualcun altro.
“Ormai che è qui…facciamolo entrare, no?”.
Risposi assottigliando la voce e girando la maniglia. Draco non si mosse. Blaise era già alla terza boccata di fumo, e il sapore dolciastro di quella sigaretta iniziava già a produrgli i suoi effetti. Steso sul letto guardava oltre la finestra con lo sguardo vacuo e gli occhi un po’ torbidi. Sembrava ancora più un gatto, in quello stato.
Nott impiegò poco meno di un secondo ad entrare, e si guardò intorno, dalla sua posizione centrale si scontrò per primo con la figura di Draco, il doppio di lui in altezza e stazza. Nott aveva le spalle magre e le gambe lunghe e altrettanto filiformi. Draco aveva il corpo di chi gioca a Quidditch e ogni tanto sfida la vita per vedere chi dei due è più forte.
“Cosa ti serviva?”.
Gli domandai il più gentilmente possibile.
“Fumo”.
Rispose guardando il mio seno, e scorrendo con gli occhi lungo il resto del mio corpo. Blaise mugugnò sardonicamente dal letto, accompagnato dall’espressione assolutamente dubbiosa di Draco. Non era un bravo mentitore Nott, però era bravo ad ingannare se stesso. Altrimenti non sarebbe finito con il bussare alla porta della mia stanza. Incrociai le braccia al petto, anche solo per il gusto di nascondergli una parte del suo reale interesse, e appoggiai la schiena contro il muro.
“E lo cerchi da me?”.
“Da Malfoy non c’era nessuno”.
Replicò indicando con un cenno nervoso della testa la porta al lato della stanza che metteva in comunicazione la mia camera con quella di Draco. A Nott mancava l’esperienza, a furbizia tutto sommato non era messo male. Anche se parve evidente a tutti che non aveva cercato Malfoy prima di venire da me: aveva passato troppo tempo a divorarmi con lo sguardo, per farmi credere che gli interessava realmente una sigaretta e non il mio corpo.
“Blaise? Hai una sigaretta per Theodor?”.
Domandai atteggiandomi a padrona di casa. Parve divertire Nott, perché mi guardò malizioso e accennò un sorriso divertito. Blaise allungò verso di me il porta sigarette e mi permise di offrirne una a Theodor. La sfilò e la accese con la propria bacchetta, fingendo di assaporare il gusto dolciastro e trovarlo piacevole. Sapevo bene che l’unico piacere che ne aveva tratto, era stato grazie alla sua immaginazione che gli aveva permesso di sostituire le mie labbra a quella sigaretta.
“Grazie”.
Rispose guardandomi e gettando un po’ di cenere sul pavimento. Scorsi Draco alzare gli occhi al soffitto e stringere il polsino della sua camicia tra due dita. Inclinai la testa da un lato, sorridendo fintamente timida a Nott. Blaise si schiarì la gola dal fondo della stanza.
“Con tutto il rispetto, amico, ma non le ha pagate lei”.
Theodor parve risvegliarsi dai suoi sogni ad occhi aperti, forse mi rivestì con il pensiero, e annuì in direzione di Blaise, ripetendo il ringraziamento. Blaise chinò il capo e fece un semplice gesto con la mano, molto simile ad un Bene, adesso puoi anche andare. Ma Nott non se ne sarebbe andato di certo, quindi decisi che per il momento potevo anche mettere fine a quel divertimento e presa in giro nei confronti dello sventurato Nott.
“Ciao, Theodor”.
Si inchinò e finse di togliersi il cappello, uscendo poi dalla porta e strizzandomi un occhio, per andare poi ad impiccarsi nel primo bagno di passaggio per la pessima figura appena fatta. Tornai a stendermi sul letto, trovando un comodo appoggio sullo stomaco di Blaise, e lasciando dondolare i piedi nel vuoto, non essendo poi molto alta. Draco ci raggiunse poco dopo, con uno sbuffo e un idiota sussurrato tra i denti. Blaise spense la sigaretta.
“Mi spieghi perché ti accanisci tanto contro di lui?”.
Gli chiesi effettivamente curiosa. Draco era un tipo rancoroso. E anche piuttosto vendicativo, ma se portava rancore verso qualcuno di solito aveva seri motivi per farlo, a mia differenza, che invece provavo spesso antipatia a pelle per qualcuno.
“E’ un venduto anche lui”.
Ah, ecco. Ovviamente dietro c’era la politica delle famiglie. I conti tornavano: nella casata Slytherin prima di tutto veniva il tuo cognome e poi la tua testa e il tuo nome. Valeva per tutti così. Kimberly McNair da sempre era tormentata dalle attività lavorative di suo padre. Nessun ragazzo era rimasto con lei per più di qualche mese. Al momento di presentarlo alla famiglia, secondo una distruttiva usanza di secoli e secoli prima, nessuno se la sentiva. L’idea di non piacere al padre o a qualsiasi altro membro, era troppo alta per permettergli di rischiare: suo padre era un boia, Il boia, e tutti avevano cara la testa.
“E a chi si sarebbe venduto?”.
Azzardò Blaise, perfettamente consapevole che far innervosire Draco non sarebbe stata la cosa migliore da fare. Ma lui non si scompose e si affacciò alla finestra, perdendo lo sguardo verso il basso. Lo sbirciai con la coda dell’occhio, e notai l’intensità nei suoi occhi, mentre si perdevano in quel vuoto. Le camere dei Capiscuola si trovavano rialzate rispetto al resto. Doveva sembrargli allettante quel vuoto sotto di lui: lo era stato anche per me, molte volte, in quei mesi di permanenza ad Hogwarts. Forse mi aveva scosso l’idea che fosse l’ultimo anno. Ma la sera cercavo di ricordarmi di chiudere quella finestra: perché se l’ennesimo incubo mi avesse svegliata, rendendomi consapevole di quello che era la vita reale, forse non avrei fatto in tempo a chiuderla.
“Cosa importa a chi? Una volta che decidi di venderti, cerchi il miglior acquirente. E se non lo trovi, se non ti vuole, non ha più importanza a chi ti venderai, tanto non puoi più tornare indietro”.
A quel punto avrei voluto dirgli che suo padre non si era venduto a nessuno. Ovviamente non lo sapevo con precisione, ma sentivo che era così. Lucius Malfoy, da sempre, non aveva mai venduto niente. A volte aveva lasciato che altri pagassero per lui, ma venduto mai. Neanche quella volta lo aveva fatto. Ma come non gli avevo spedito alcuna lettera, non gli dissi quelle parole.
E, sempre a quel punto, avrei voluto dirgli anche che suo padre non era alla fine di quel vuoto. Non era lì che lo avrebbe trovato. Qualche volta ,pensandoci, credevo anche che non lo avrebbe trovato più. Ma non dissi niente neanche quella volta.

Quella notte non riuscii a dormire. Nonostante l’estate fosse solo un ricordo, e come sempre l’Inghilterra un paese ostile e umido, sentivo caldo tra le coperte ,e l’acqua con la quale mi ero bagnata il viso non era servita a niente.
La sala comune era deserta, tutte le serpi se ne erano andate strisciando a dormire, così presi per me una poltrona e mi sedetti, abbracciandomi le gambe e scongiurando il sonno di venirmi a prendere. Ma non venne, purtroppo.
Dieci minuti più tardi, le lancette stabilirono che era passata la mezzanotte, e che come sempre, le principesse avrebbero dovuto fare ritorno alla catapecchia in cui vivevano, perché l’incantesimo era finito.
Ma nella scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts gli incantesimi non finivano mai, e io ero bella anche passata la mezzanotte ,e il castello non si sarebbe tramutato in stalla, e i passi che riecheggiarono per quella sala scura, rischiarata solo dal camino, non erano quelli della fata che veniva a prendermi per portarmi gentilmente alla mia vecchia e umile vita, ma quelli di quel qualcuno che veniva a prendere il mio corpo e portarlo nel suo letto.
“Cosa fai qui tutta sola?”.
Eddy Moon. Se mi sforzavo di non pensare al suo sciocco nome, potevo anche ammettere che non era male come ragazzo. Non che avessimo mai parlato più di tanto, non di cose serie almeno, ma la sua voce non aveva il tono petulante di molte altre, e non lo avevo mai sentito perdersi in smielate frasi su quanto ero bella o quanto fossi graziosa. A nessuno interessava che io sentissi quei loro pensieri, tanto si finiva sempre allo stesso punto. Ma mi piaceva sentirmelo dire, ogni volta era una piacevole conferma da parte di tutti.
“Cercavo il sonno”.
Risposi a bassa voce. Lo feci per non far sentire a tutti che eravamo svegli, ma alla fine dovette sembrare alquanto sensuale. Moon almeno la interpretò così, perché si avvicinò alla poltrona e si sedette su un bracciolo.
“Ma hai trovato me”.
Scontata e banale. Rimangiai mentalmente quello che avevo pensato qualche attimo prima. Ma non avevo sonno. Non ancora.
“Veramente è il contrario, Moon”.
Gli feci notare. Non seppe cosa dire e allora mi baciò. Afferrò la mia testa con una presa piuttosto gentile, e avvicinò il mio viso al suo. Poggiò le sue labbra sulle mie e cercò la mia complicità. Non la trovò, ma ottenne il permesso di approfondire quel bacio, e di tuffare le mani tra i miei capelli. Si sporse leggermente più avanti e guadagnò un po’ più di spazio sulla poltrona. Guadagnò anche la strada per le mie spalle, sulle quali fece scivolare una mano, e arrivò alla spallina del completo nero che mi copriva il corpo. Seppe anche trovare la via giusta per far scendere la spallina e riuscire ad accarezzare la mia pelle lattea, la spalla, la scapola, il seno. Da parte mia non fu poi così ardua e sconvolgente l’impresa di passare le mani sotto alla sua maglia e di accarezzare il suo petto. Scoprii che durante l’estate aveva proseguito con i suoi allenamenti e indovinai che prossimamente avrebbe chiesto a Draco di poter entrare in squadra. Scostai un attimo le labbra dal suo collo, per prendere fiato e rendermi conto di aver pensato ancora una volta a Draco, mentre ero impegnata a baciare e ad accarezzare Eddy Moon. La sua mano si allontanò un attimo, mentre l’altra era ancora sulla mia nuca, a tenermi vicina a lui, e scese accarezzando la linea della mia gamba, in una carezza che aveva tanto della voglia di me, ma che poco faceva immaginare il desiderio di gustare lentamente ogni secondo che fosse prezioso. Ovviamente, nessuno dei due aveva intenzione di condividere con l’altro altre sensazioni che non fossero quelle base, prive di qualsiasi coinvolgimento, altrimenti avrei saputo se i suoi capelli erano chiari o scuri, o se i suoi occhi fossero neri o blu. E dire che non era neanche la prima volta che finivo con il baciarlo e quant’altro. Tuttavia la sua mano non era prepotente, e aveva tutto il lodabile del rispetto. “Fa caldo”.
Sussurrai inarcando la schiena: la poltrona era di pelle e il camino era acceso. Eddy annuì un attimo, allontanandosi dalla poltrona e finimmo tutti e due in terra, lui con la schiena contro la poltrona, io davanti a lui. Mi baciò di nuovo, con nuovo ardore che di romantico e passionale aveva poco, ma era giusto così, era quello che volevamo entrambi. Sentivo le sue labbra sul mio collo, sul mio petto, ovunque, e mentre accarezzavo i suoi capelli, trovai il tempo di pensare se fosse giusto passare un'altra notte in questo modo. Cioè se mi sarei mai annoiata di quella situazione e di passare le notti così. Decisi di non rischiare per una volta. Baciai ancora Eddy e mi scostai dal suo corpo.
“Buonanotte”.
Mormorai e sorridendogli appena tornai verso la mia stanza, facendogli credere che quel gesto fosse una provocazione e niente di più. Lo vidi portarsi una mano ai capelli e alzarsi da terra, sistemando appena la maglietta, un po’ sudata e un po’ slabbrata in alcuni punti. Mi salutò con la mano e mi voltò le spalle per tornare a dormire.
Ecco cosa apprezzavo di Eddy Moon: sapeva accontentarsi, e probabilmente aveva capito quello che cercavo, quello che ero disposta a dare e a ricevere. Ah, se solo non si fosse chiamato Eddy.
Che nome sciocco con cui farsi chiamare.
Di seducente aveva ben poco.
Di simpatico solo una grande tristezza e poca originalità.
Di importante ancora meno. Nessuno avrebbe preso sul serio qualcuno che si fa chiamare Eddy.
Decisamente, non ci sarebbe potuto essere alcun futuro tra me e lui.
Ma quando tornai a letto, mi addormentai subito dopo.

°°°

[]



La stanza era deserta,intrisa di oscurità e strani rumori.
Tendevo l’orecchio e iniziavo a distinguerli lentamente, con maggior sentore e d’un tratto iniziavo a tremare, e sentivo qualcosa pungermi ai lati degli occhi. Mi voltavo freneticamente cercando qualcuno che non c’era e che sapevo non ci sarebbe più stato.
E quel rumore andava avanti. Era un continuo raspare, e fermarsi all’improvviso.
Quando una luce aveva squarciato l’oscurità e l’unica cosa visibile era uno scrittoio antico, roso dai tarli. Mi avvicinavo a piedi scalzi e sentivo qualcosa fremere sotto la pelle sensibile della pianta del piede, ma se guardavo in basso, potevo vedere solo il buio e nient’altro.
Avevo raggiunto lo scrittoio ed era pieno di fogli di pergamena, tutti riempiti con minuziose grafie, fitte righe di parole, pergamene infinite, inchiostro vivido. Ne prendevo alcune tra le mani e tutte, tutte, avevano le stesse parole sul margine sinistro.
La grafia di una bambina di pochi anni forse, incerta ma teneramente attenta a non fare errori, un po’ tremolante in alcune lettere, su ogni margine sinistro, recitava con insistenza:
Caro Draco,
e quella virgola finiva dispersa, da tutte le altre parole. Ne prendevo in mano uno dopo l’altro, ma ogni foglio aveva quelle parole e quella grafia non sembrava più la mia. Tranne una che mi era volata tra le mani, e diceva
Caro Draco,
auguri per i tuoi dieci anni.

E poi tutte le altre avevano solo quelle due parole. Mi gettavo disperatamente su quella marea di fogli cercandone una con la grafia dei miei diciassette anni ma non ce ne era nessuna, eppure io mi lamentavo a bassa voce e pregavo perché ne trovassi una.
E all’improvviso tutti quei fogli mi volavano in faccia, sbattevano le loro pagine di filigrana contro il mio viso, alcune mi tagliavano e mi ferivano, e un vento forte mi bruciava su quei tagli. Mi ero voltata verso il vento, ed eccola laggiù, lontanissima: la finestra era aperta.
E io iniziavo a correre verso la finestra della mia camera da Caposcuola, e non sembrava mai arrivare e ogni tanto, inaspettato, una pergamena con quelle parole mi colpiva in viso, fino a quando non ero arrivata a quella finestra, ma il vento non soffiava più.
Non c’era nessuno, ma i fogli che mi avevano colpito, volavano tutti oltre la finestra. Ero corsa per affacciarmi e c’era quel vuoto e in fondo a quel vuoto c’era Draco, ma non mi guardava, non guardava niente.
Era sdraiato e aveva gli occhi chiusi, e tutte le lettere si posavano su di lui, e stavano lentamente ricoprendo il suo corpo. E io mi sporgevo e lo chiamavo per nome. Ma non rispondeva, teneva ancora gli occhi chiusi.
Allungavo le mani ma lui non le afferrava e non tendeva le sue, e quel vuoto stava diventando denso.
E allora una lettera era arrivata tra le mie mani, ed era scritta con una grafia minuta e incerta in alcune lettere anche lei, e al margine sinistro del foglio c’era scritto:
Cara Pansy,
e nient’altro. E poi una pioggia violenta di quelle lettere mi aveva ricoperta, e lentamente ne venivano giù altre, e sentivo un lamento provenire dal vuoto, allora mi affacciavo ma Draco era sempre steso lì e iniziava a vedersi di meno, sempre di meno, sempre più coperto da quelle lettere, e altre ancora, quelle di prima stavano attaccando me.
E alla fine, tra tutte, una mi era caduta tra le mani e la stessa grafia delle altre, mi diceva:
Cara Pansy,
perché non mi hai scritto?
Allora io iniziavo a tremare, e comparivano altre parole, più incerte e tremolanti.
Io sono quaggiù,
tu perché non mi hai scritto?
E io mi affacciavo di nuovo alla finestra, e lo guardavo di nuovo, e le lettere avevano coperto tutto il corpo, ma all’improvviso aveva aperto gli occhi e iniziato a farsi più lontano e io avevo pregato e sussurrato…
No…
No…no…
Draco…
No…
NO!
NO!
E mi svegliai.

[]



°°°

“Non hai una bella cera, stamattina”.
Mugugnai un ringraziamento a Blaise per il suo buongiorno e cercai di affogare i brutti pensieri dell’incubo della notte passata, in una tazza di caffè. Accanto a me, Millicent aveva addentato una fetta di pane, o meglio una distesa di marmellata con un po’ di pane sotto, perché probabilmente Blaise neanche l’aveva salutata quella mattina, e poi si era sprecato a rivolgermi quei complimenti.
Lo fulminai con lo sguardo quando la vidi aggiungere del burro con un coltello. E lui represse un ghigno, e gli costò molta fatica, quanta ne costò a me il trattenermi dal dargli uno schiaffo e lanciargli il caffè sulla sua preziosa camicia bianca.
Non sopportavo che si prendesse il diritto di farla stare tanto male. Amavo la sua ironia, mi faceva divertire, ma ignorandola era tutto molto peggio, molto peggio del sentirsi rivolgere una battuta od essere consapevole che se quel gruppo di ragazzi lì in fondo rideva era perché lei era presente, e a volte, anche perché Blaise Zabini era tra loro.
Pardon”.
Si scusò poggiando la sua tazza sul tavolo. Finii con l’accettare quelle scuse, ma non smisi di tenere il broncio, si proprio come una bambina piccola. Alcune volte, la mattina soprattutto, avevo così poca voglia di alzarmi e aprire gli occhi, che mi crogiolavo nel pensare di poter tornare bambina per un po’ di tempo, anche per il primo quarto d’ora, e fare finta di sapere unicamente quello che una Pansy di nove anni possa sapere, di volere solo quello che a nove anni si può desiderare, di ottenere quello che ad una bambina solamente si concede.
Poi incontravo lo sguardo di Piton a lezione, e allora la smettevo, perché sapevo quanto avrebbe pagato quell’uomo per poter rinascere di nuovo e cambiare tutto. In genere non ero così clemente con chi viveva intorno a me, ma per Piton provavo una sorta di compatimento e di rispetto, che sommati insieme risultavano essere un binomio particolare. In questo modo finivo con il portargli rispetto, forse perché mi sentivo molto vicina a lui quando cercava di ottenere il perdono di Draco, o almeno un segno di possibile dialogo. Solo che io ogni tanto ci riuscivo, e lui no.
“Millicent mi passeresti il bricco del latte?”.
Millicent lasciò immediatamente andare la sua colazione e afferrò il bricco, allungandolo verso Blaise con il polso instabile: rovesciò solamente una goccia, che fu sufficiente a far comparire un sorriso compiaciuto sul viso di Blaise. Gli piaceva da matti far perdere il controllo agli altri. Mi indirizzò uno sguardo indisponente e si meritò uno sguardo di fuoco, che raffreddai subito poco dopo. Blaise era l’unico con il quale potevo temperare un po’ l’amarezza e la tristezza di certe giornate. Non sapevo se capitasse anche a lui di sentirsi tanto e così umanamente triste, o se non andasse mai oltre a quell’essere pensieroso e grave, ma in qualche modo finiva sempre con il farmi mettere da parte un pensiero particolarmente fastidioso.
Quella mattina, per rimproverare la sua arroganza, avevo dimenticato quell’incubo, del quale non gli avrei parlato. Ci avevo pensato, e alla fine avevo deciso così. Lo avrei tenuto per me, altrimenti avrei ammesso il ritorno dei sensi di colpa, che mi aveva fatto tornare quella bambina di otto anni che ero stata, per un po’.
Ma questa volta non c’era più nessuna cicatrice sulla schiena di mio padre, bensì una invisibile su Draco, e forse questo era anche peggio.
“Hai la ronda anche stanotte?”.
Annuii scocciata. Il dover girare come una sciocca insieme agli altri Capiscuola, per i corridoi la notte, con le bacchette puntate e l’aria fintamente interessata al rispetto delle regole scritte di Hogwarts, mi rubava tempo prezioso, per dormire o divertirmi un po’, io che vivevo di notte e ripudiavo il giorno come un vampiro.
“Parlerete a proposito del Ballo?”.
Alzai lo sguardo dalla tazza davanti a me e guardai Millicent. Mi guardava in completa adorazione,e sapevo che se anche le avessi detto che suo padre era morto come un disertore vigliacco, mi avrebbe sorriso e detto grazie, Pansy. Mi sentii molto triste al suo posto ,ma lasciai che mi adorasse ancora per qualche secondo.
“Se ci sarà tempo”.
Conclusi laconicamente. In realtà non era previsto che io sapessi, ma in ogni caso la Abbott avrebbe fatto di tutto per tirare in ballo l’argomento, e si sarebbe scatenato il finimondo, tra la Granger e il resto delle persone che sapeva cosa fosse il divertimento. Sinceramente l’idea di starmene seduta nella sala dei Capiscuola ad assistere allo sbranamento tra lupi non mi entusiasmava molto, ma ero altrettanto consapevole del fatto che di certo saremmo finiti con il parlarne. Il tempo lo avrebbero trovato di sicuro.
“Grazie, Pansy”.
Fui disgustata per lunghi secondi, pur avendo sempre saputo che prima o poi lo avrebbe detto. E nell’esatto momento in cui Draco si sedette accanto a Blaise, allontanai la tazza e quelle poche molliche che avevo sbriciolato davanti a me. Le avrebbero mangiate i gufi più tardi, quando avrebbero portato la posta.
Ecco un altro momento paradossale della quotidianità lì al castello: La Posta. Tutti aspettavano La Posta con intrepida ansia, con eccitazione e alcuni anche con apprensione, come ad esempio i Weasley, terrorizzati all’idea di aver sbagliato qualche cosa che avesse potuto turbare l’animo della loro povera mamma. Tutti tranne alla tavolata Slytherin: qui, se arrivava posta, non erano altro che brutte notizie.
Hanno catturato tuo padre, non ci resta che sperare.
Il Ministero ha intensificato i suoi controlli, non possiamo venire questo fine settimana al villaggio.
È meglio che tu non venga per le vacanze quest’anno: tira una brutta aria da queste parti.
Tieni duro, forse la sentenza non sarà mortale.
Per questo io finivo con lo smettere di mangiare e il tormentare l’orlo della tovaglia con le unghie. L’unico che si era costretto ad aspettare qualcosa era Draco, anche se non lo dava a vedere e ormai non credeva neanche più lui che fosse possibile ricevere anche solo uno straccio di lettera. Ogni volta che si sentivamo lo stridio dei gufi, lui non alzava mai lo sguardo, continuava la sua colazione e non guardava nessun’altro, totalmente immerso nei suoi pensieri, in quel pensiero, nella sua personale opera di convincimento.
Non doveva sperare niente, alzandosi la mattina, in questo modo non sarebbe rimasto deluso nel non vedere alcun gufo.
Quella mattina ero piuttosto su di giri, e decisi di risparmiare a tutti quell’angoscia gratuita. Fui la prima a lasciare il tovagliolo sul tavolo e ad alzarmi.
“Andiamo?”.
Non era una domanda. Era una supplica, mascherata da ordine. Ma tutti la esaudirono e tutti lo eseguirono. Blaise fu il secondo ad alzarsi dopo di me e come era ovvio si portò dietro Millicent, ancora raggiante e quasi onorata per avergli passato il bricco del latte.
Draco fu l’ultimo, si alzò con uno scatto secco e rabbioso. Se avesse potuto, avrebbe preso a sassate tutti i gufi presenti in quella stanza, che avevano già iniziato a planare. Ma quando si voltò verso di noi era molto annoiato dall’inizio di quella mattina, e un’apatia era scesa sul suo viso.
Certo, finsi di crederci. E lo fece anche Blaise.
Millicent notò quanto fosse particolare il taglio del mento di Blaise, invece. E ne rimase commossa.

L’unico modo per migliorare una mattinata iniziata male, anzi per renderla meno peggio di quanto non apparisse già, era iniziarla con una lezione di Pozioni. Se divisa con la classe di Potter, forse ancora meglio, per il semplice gusto di ottenere quelle piccole rivincite, che in confronto a tutto il resto valgono ben poco, ma che sul momento garantiscono una breve ma intensa sensazione di superiorità.
Anche se a me ne davano ben poca di soddisfazione, sentendomi sempre superiore a loro. Ma sentire dare dell’imbecille a Potter era una vera delizia, quando poi il tutto veniva contornato da riferimenti e illazioni al suo essere un prode e valoroso Gryffindor, uscivo da quell’aula con il cuore più leggero e un ghigno soddisfatto sul volto.
“Dieci punti in meno a Gryffindor, Potter”.
Rilassai la testa e inclinai il collo leggermente indietro.
“Ma professore…è stato Nott!”.
Sentii Theodor sghignazzare con il vicino, e lanciare qualche provocazione in direzione di quel fomentato di Thomas e quel povero idiota di Paciock. Molte volte mi ero domandata se la sua psiche non fosse in correlazione con quella dei genitori, e il blocco delle funzioni cerebrali non avesse colpito anche lui. “Non sollevare polemiche, Potter. Una sola parola e leverò altri cinque punti alla sua Casa”.
Fu in quel momento che non riuscii a resistere. Fu una forza più forte di me, e un innato e inspiegabile bisogno di vendetta che mi trascinò con sé. Lui poteva vivere nel suo mondo di sogni rosso-oro alla torre nord del castello, io strisciavo tra le realtà della vita, destreggiandomi come meglio potevo e faticando per non piangere una sola lacrima la notte o non aprire quella finestra. Non mi sembrava poi così gusto, e in quel mondo l’unico modo di fare giustizia era farsela da soli.
Così mi sporsi leggermente in avanti, attirando l’attenzione di Potter e del suo sciocco compare Weasley. Mentre lanciavo una delle tante provocazioni velenose di cui disponeva il mio repertorio, intercettai gli occhi di Weasley guardarmi in modo strano, e ammirare la mia bellezza quasi marmorea, come avevo sentire dire, origliando nel bagno delle ragazze. Avere gli occhi di un pezzente addosso è molto meno lusinghiero, ma era amico di Potter e il futuro ragazzo della Granger a quanto in molti dicevano. Trovai anche lì il mio briciolo di compiacimento e soddisfazione. Draco, dietro di me, un po’ di meno.
“Sta zitta Parkinson o…”.
Troppo tardi, Potter. La voce di Piton risuonò sopra di lui come una punizione della provvidenza divina.
“Ti avevo avvertito Potter: cinque in meno a Gryffindor. E fanno quindici: che dici, è il caso di stare zitto e pensare alla tua vergognosa incapacità di leggere i più basilari incantesimi su una lavagna?”.
Abbassò il capo rosso in volto e arrabbiato come pochi. Io mi permisi il lusso di sorridere. Quei trucchetti subdoli e infantili, risalivano ai nostri primi anni, eppure con lui funzionavano ancora.
Le volte in cui mi chiedevo cosa vivesse ancora a fare uno come Paciock (che rubava solo ossigeno a chi ne avrebbe fatto un utilizzo migliore), pensavo anche a come stesse cadendo in basso il prestigio della casata Gryffindor: se Potter ne era il massimo esponente, allora potevo figurarmi gli altri. Potter era stupido, poco furbo, e forse neanche tanto intelligente come dicevano tutti.
Sapeva tenere bene in mano una bacchetta, ma la ragione lo abbandonava quasi sempre quando ce ne era bisogno. Senza quella mezzosangue della Granger sarebbe morto da lunghi anni.
“Ancora ti diverti a fare queste cose?”.
Sentii il sussurro di Draco nel mio orecchio e mi voltai verso di lui, lentamente per non farmi vedere da Piton. Lo guardai per un po’ negli occhi, cercando di capire cosa potesse aver pensato di tutto quello: della pochezza di Potter, della rabbia di Piton. Non lessi quasi niente, se non un cupo divertimento e un apprezzamento ai quindici punti Gryffindor andati persi.
“Ho una media troppo alta in Pozioni per permettermi di stare attenta”.
“Devo dedurre che la abbia anche Weasley, allora”.
Lo guardai ancora un attimo, mentre una luce di interesse sferzava i miei occhi scuri. Nei suoi però vibrava un moto di fastidio e nervosismo. Ma non li spostò su Weasley, li tenne sempre fissi su di me, anche mentre voltavo la testa e scoprivo Weasley intento a guardarmi, accanto a Potter. Quando incontrò il mio sguardo, un momento provocante, un attimo dopo schernitore, tramutò la sua espressione di meraviglia e, quasi desiderio, in una finta rabbia, piuttosto buffa.
“Ti fai ammirare da Weasley, Pansy? Attenta o finirà con il consumarti”.
Rispose tagliente Draco. Eppure io non riuscii a squarciare le tende che aveva tirato davanti al volto e alla sua umanità. Non capivo cosa lo infastidisse tanto: se il pensiero che Weasley guardasse me, o se io non gli impedissi di farlo. Sapeva benissimo quanto mi piace stare al centro dell’attenzione altrui, fino a quando si limita ad uno sguardo o ad un apprezzamento, in pubblico. Erano proprio quel genere di attenzioni che lui non mi aveva mai rivolto, dopo la fine del quinto anno, quando avevamo definitivamente smesso di comportarci tutti come bambini troppo viziati, sapendo che dentro non lo eravamo mai stati.
Io non mi sono mai lasciata viziare: accettavo gli agi, i vantaggi, i regali, le concessioni, ma tenevo gli occhi aperti, sapevo che alcuni non li meritavo e che come erano lì sarebbero potuti sparire. Lo stavano facendo poco a poco infatti, e io ero stata preparata.
“Eh già, finirai con lo sparire”.
Aggiunse Blaise che era rimasto in silenzio per tutto quel tempo. Finii con il roteare gli occhi in aria e pregare Millicent di trovare un modo per farli stare zitti. Era una preghiera così assurda che nessuno mi prese ovviamente sul serio: Millicent aveva poco potere persino sulla scelta dei lacci per le sue scarpe, era del tutto impossibile che riuscisse a farsi dare retta da qualcuno.
“Possibilmente senza saltare addosso a Blaise e tappargli la bocca con un bacio”.
Specificò Draco ammiccando in direzione dell’amico. Scossi la testa decisa a tornare al mio lavoro, piuttosto noioso, quando un brusio dalle ultime file Slytherin mi disturbò, e distolse la mia attenzione dalla pozione che avevo sotto gli occhi. In special modo perché avevo sentito Nott fare il mio nome e accostargli fin troppo vicino quello di Weasley. E infatti, come mio solito, non mi sbagliavo.
Si era sporto in avanti e aveva iniziato a tirare radici di Bubotubero contro il braccio destro di Potter, fino a quando quello non si era girato con un piede sulla linea di guerra e gli aveva ringhiato contro qualcosa. Nott aveva scoperto un ghigno piuttosto felino e spostato la testa verso di me. Naturalmente non mi girai, fingendo di non essermi accorta di niente, proprio come facevo da piccola quando i miei genitori discutevano o quando mio padre sbirciava nella mia stanza con la camicia insanguinata per controllare che non avessi sentito niente. Anche per quello, ero bene allenata. Ed entrambi caddero nel mio inganno.
“Ehi, Weasel!Ce la porteresti Pansy al ballo?”.
Non potei fare a meno di inorridire alla sola proposta, e al pensiero di quello che ne sarebbe potuto venire fuori. La Patil non era stata molto soddisfatta dell’esito del ballo al quarto anno dopotutto. Inoltre non mi sarei mai accostata a qualcuno con un simile colore di capelli, così pacchiano. La Granger aveva smesso di svuotare boccette nel suo calderone per assistere alla scena con la stessa espressione di un cane da guardia. Ecco perché poi non trovava un ragazzo: a nessuno fa piacere essere morso al di fuori di contesti piuttosto intimi.
“Non raccogliere provocazioni, Ron”.
Lo ammonì riprendendo a fissare il calderone, ma potevo notare perfettamente quanto fosse attenta a captare anche il minimo segnale. Draco alle mie spalle non aveva mosso dito, ma aveva quasi smesso di respirare, e io continuavo a pormi una serie di domande tutte sbagliate di tanto in tanto, alle quali non avrei voluto dare risposta. Iniziavo ad infastidirmi.
“Con il guinzaglio?”.
Domandò di rimando, assottigliando la voce e guardando di sbieco Piton per garantirsi che non sentisse o non guardasse in quella direzione. Ma era molto preso ad umiliare Paciock e mortificare Potter al momento. Non potei impedirmi di serrare le labbra però, al sentire quella domanda. Ricordavo distintamente i tempi in cui la mia bellezza e il mio volto erano associati a quelli di un carlino. Eppure chissà come tutti avevano piacere a finire nella mia cuccia. Persino Weasley, che in quel momento rinvangava quella parte del mio passato ormai messa da parte, poco prima aveva desiderato che quella stanza fosse vuota e potermi fare sua, in qualche modo che di certo avrebbe scoperto per la prima volta in quel preciso momento. Vigliacco e ipocrita. Immagino che dovesse ringraziare il cielo perché la sua astuta e intelligente mezzosangue non sapesse ancora leggere nel pensiero. Nott scrollò le spalle.
“Se ti piace il sadomaso”.
Alzai un sopracciglio, divertita all’idea. Weasley? A stento sapeva da dove iniziava il corpo di una ragazza, e dove finiva, avrebbe usato delle manette unicamente per legare le proprie mani e invocare il perdono divino per aver ammesso che il corpo di un’altra lo entusiasmava molto di più del cervello della Granger. E in ogni caso, il sadomaso non piaceva a me, i discorsi stavano a zero.
In quel momento Piton dovette avvertire una nota di ilarità che vagava per l’aula, e una zona a bassa tensione nel punto in cui ci trovavamo noi, perché ci raggiunse a grandi passi, fulminando con lo sguardo tutti i presenti, escluse me e Millicent che non avevamo sollevato la testa dal nostro calderone. Ma doveva aver sentito tutto e fin dall’inizio: quando tornò alla cattedra a sistemare alcuni fogli, incontrò i miei occhi e mi rivolse un odioso mezzo sorriso divertito e anche un po’ sorpreso.
Due minuti più tardi, il calderone di Nott iniziava a fumare, e un denso vapore gli appannava la vista e rendeva difficoltosa la sua respirazione, costringendolo a tossire violentemente. Accanto a lui, Daphne Greengrass cercava di diradare il vapore, chiaramente infastidita dall’odore agre che di certo avrebbe contaminato il suo profumo al gelsomino.
“Che succede laggiù? Nott, Greengrass?”.
Due secondi più tardi, Draco aveva posato la bacchetta sul ripiano del tavolo di appoggio, e fissava il miscuglio denso nel suo calderone. Blaise nascondeva un sorriso divertito e Millicent sorrideva estasiata a quella vista. Io preferii non voltarmi, altrimenti sarebbe sorta un’ennesima sciocca domanda nella mia mente. “Ora non ruberà più le mie sigarette”.
Aggiunse Blaise rilassato, alzando davanti al volto due boccette e alternando la salita e la discesa tra una e l’altra. Mi ero girata a guardarlo, cercando di capire se fosse vero quello che aveva detto. Era per le sigarette, che il calderone di Nott era quasi scoppiato? Draco fissava le boccette e Blaise alternativamente, apparentemente tranquillo, scotendo la testa contrariato.
“Che stai facendo?”.
Gli chiese con tono rassegnato di chi sa già che la risposta non sarà indice di salute mentale. Blaise assottigliò gli occhi e scrutò ancora una volta le due ampolline che aveva per le mani.
“Non so: verde o blu?”.
Domandò in tono serio e calcolatore, mentre valutava bene il colore di entrambi i contenuti. Draco non rispose, scosse ancora la testa e perse lo sguardo nella sua pozione, raccogliendone un po’ in una boccetta, mentre alle sue spalle Daphne cercava di tirarsi fuori dai guai ululando la sua innocenza.
“Verde”.
Suggerii in tono altrettanto serio, voltandomi. Guardai d’improvviso Millicent, assorta nella contemplazione del volto dietro le ampolle. Le indicai i due vetri, chiedendole un parere. Arrossì violentemente e non esitò un istante nel rispondere, verde, come me. Era scontato, banale e patetico, ma non lo dissi ad alta voce, benché traducendo l’espressione scostante sul mio viso, si comprendesse quanto fosse asfissiante la presenza di Millicent in alcuni momenti particolari della mia vita. Sapevo che l’istinto di Blaise era quello di usare quella blu per il semplice gusto di mortificare Millicent, ma si fidava più della mia bravura in pozioni, e di prendere un brutto voto non ne voleva sapere. Un padre ubriaco e deluso della rendita di suo figlio vicino alle vacanze di Natale, era molto pericoloso. Ebbe tutta la mia comprensione nel non voler rischiare.
Poggiò sul ripiano la boccetta con il liquido blu e alzando in aria quella verde, proclamò:
“E verde sia!”.
“Signor Zabini non siamo alla Tavola Rotonda, la pregherei di non fare il buffone”.
Lo riprese Piton con una voce che sembrava provenire dall’oltretomba, quando invece era soltanto alle nostre spalle, ancora alle prese con Nott e Daphne, che a quanto pareva dall’espressione di Nott gli aveva appena tirato un forte calcio negli stinchi, colpevole di averla messa nei guai e di non saperla tirare fuori. Blaise abbozzò un sorriso.
“E di non farsi suggerire dalla signorina Parkinson. È evidente che avrebbe scelto il blu”.
Aggiunse duro, ma con lo stesso sguardo di chi vede un serpente strisciare ed esprime a voce alta quanto sia ovvio che non voli, con un certo disprezzo nella voce, aggiungerei io. Blaise chinò il capo di lato in una dolce resa, ma aveva sempre modo di giustificarsi.
“Solo perché si intona al colore dei miei occhi”.
Alzai gli occhi al soffitto con uno sbuffo.

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Disclaimer: Tutti i personaggi, o quasi, citati in questa storia appartengono a J.K.Rowling. Non scrivo a scopo di lucro.

Specificazioni :
Questa storia è nata dal pensiero che la vita non è facile per nessuno, e se si sente spesso lamentarsi Potter, è altamente probabile che si lamentino a ragione, anche gli altri . E visto che ormai io sembro avere un totale rifiuto per i personaggi principali di qualsiasi storia, mi sono avventurata nei sotterranei Slytherin .
Ho scelto come narratrice Pansy perchè ho anche deciso di renderla nell'altra visione, quella che ho io. Nessuna cagnetta al braccio di Malfoy, o almeno non ora che si può definire quasi adulta. E' un personaggio molto duro, scontroso e severo con sè stessa e con la vita.
L'aver paragonato Blaise a un gatto deriva dal semplice fatto che io amo i gatti... e amo anche Blaise. ^^. E da sempre ho immaginato Millicent Bullstrode come la perfetta innamorata, ovviamente MAI ricambiata.
Ci saranno altri due capitoli, non di più credo, più corti di questo.
Nel prossimo capitolo vedremo cosa succederà alla riunione serale tra Capiscuola, e cosa si deciderà in merito al ballo, non senza conseguenze.
Spero che possa essere di vostro gradimento, e in ogni caso... una recensione non dispiace mai. ^^'.

  
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