Il
letto d’ospedale mancante
Fissò il muro.
Erano più di quaranta minuti che non distoglieva lo sguardo da quella parete.
Si chiedeva se fosse il caso da avvicinarvisi e cominciare a sbattervi la testa
contro più e più volte.
Forse non era il posto più adatto: tutti i passanti si sarebbero potuti
spaventare.
Ma in quel momento era il suo più grande desiderio: punirsi.
Perché era colpa sua.
Tutta colpa sua.
Con un enorme sforzo di volontà riuscì a distogliere lo sguardo, spostandolo
sull’entrata dell’edificio. Non ce la faceva: proprio non riusciva
ad entrarci.
Aveva sempre odiato gli ospedali.
Fin dalla prima volta che ce l’avevano portata: aveva tre anni e si era
tagliata la mano. Era una brutta ferita, che perdeva molto sangue. Si era
ritrovata di corsa al pronto soccorso, e lì le avevano chiuso la ferita: cinque
punti.
Ecco quel ricordo proprio non le piaceva: non che fosse stata troppo doloroso,
ma lei era sensibile.
Sopportava abbastanza bene la vista del sangue, ma non reggeva la vista degli
aghi: non quando entravano e uscivano dalla pelle di qualcuno!
Se era per questo non sosteneva troppo bene neppure le siringhe, ma quella
piccola paura era quasi riuscita a superarla.
In conclusione Hilary era facilmente impressionabile.
Non per questo però era una stupida femminuccia! Anzi, ci provassero a metterle
i piedi in testa, o a mancarle di rispetto, e si sarebbe trasformata in una
tigre.
In quel momento però, si sentiva più spaurita di un gattino.
Continuava a cercare dentro di sé la forza per passare attraverso quella porta
a vetri.
La forza per entrare in quel dannato ospedale e cercare lui.
Lui che era lì per colpa sua.
Lei che lo aveva quasi ammazzato.
“Abortisco”
Queste erano state le parole che Hilary aveva detto a Jason, dieci minuti prima
che lui facesse un incidente con la macchina.
Hilary si passò una mano sulla faccia, riportando la mente a poche ore prima:
era arrivata in clinica, pronta per fare quella piccola operazione. Voleva
abortire. Non poteva tenere il bambino.
Ci aveva pensato tanto, troppo. Non dormiva da giorni.
Ma non poteva tenerlo, non in quel periodo della sua vita… sarebbe stato
troppo complicato.
E poi la notizia.
Aveva intuito qualcosa già osservando l’espressione
dell’infermiera: un misto fra compassione e sorpresa. Il tutto
accompagnato da una buona razione di pietà.
-Signora… il feto. Non so come dirvelo… aveva già perso il bambino-
Hilary aveva smesso di respirare, si era lasciata andare all’indietro sul
lettino, chiudendo gli occhi.
Stava soffrendo: era come se qualcuno le avesse appena dato un pugno nello
stomaco.
Si chiedeva il perché di quella tristezza improvvisa, di quel senso di vuoto:
in fondo non era andata lì per abortire? Perché allora riusciva a stento a
trattenersi dal piangere?
Lo aveva capito poi: aveva compreso che non avrebbe abortito alla fine.
Avrebbe cambiato idea, tirandosi indietro all’ultimo momento: come faceva
sempre.
Perché quello era il suo bambino.
Un figlio che voleva!
… E che non si era accorta di volere con tutto il cuore fino a che non
aveva capito di averlo perso.
E ora era lì, fuori l’ospedale in cui era ricoverato suo marito: Jason.
Il suo Jazz. Ricoverato lì.
E Hilary sapeva che era colpa sua.
Se lo sentiva.
Se non lo avesse chiamato, dicendogli di voler abortire… lui
probabilmente non ne sarebbe rimasto sconvolto al punto da andare a sbattere
contro uno stupido guardrail!
Con passo isterico si avviò all’interno dell’ospedale, percorrendo
i corridoi in fretta: senza guardarsi intorno, evitando di posare lo sguardo
sugli altri pazienti, sulle disgrazie altrui.
Seguiva semplicemente le frecce agli angoli dei muri.
Fino ad arrivare alla camera di suo marito.
Prima di aprire la porta bussò leggermente, sentendosi subito una stupida.
Spinse la porta lo stretto necessario per passare, facendo meno rumore
possibile.
Prese posto vicino al letto in cui era steso il marito, facendosi piccola piccola sulla sedia, tirando le ginocchia al petto e
stringendole fra le braccia.
Riusciva a malapena a guardarlo: se ne stava lì, pallido, con un taglio ancora
sporco di sangue sulla fronte. Hilary sentì gli occhi inumidirsi mentre fissava
il viso dell’uomo che amava.
Era bellissimo, come lo era sempre stato.
Era il suo eroe.
Non avrebbe potuto mai fare a meno di lui.
Lo amava incondizionatamente, in tutti i suoi pregi e ancor di più nei suoi
difetti.
Amava quando la sorprendeva, preparando una cenetta romantica, o affittando un
film strappalacrime solo per farla contenta; e ancor di più amava quando la
faceva arrabbiare: come quando di mattina trovava i suoi calzini sporchi sparsi
in giro per casa, o due domeniche al mese la obbligava ad accompagnarlo allo
stadio… perché poi facevano la pace.
E Hilary adorava fare la pace con il suo Jazz: avrebbe litigato ogni giorno se
avessero continuato a fare la pace come avevano fatto fino a quel momento.
Si erano riappacificati nei luoghi più impensabili: in ascensore, in spiaggia,
sul biliardo della facoltà, nella zona surgelati di un supermercato e tanti
altri…
Non riusciva nemmeno ad immaginare come avrebbe fatto senza di lui: senza il
suo sorriso, senza il suo molare spezzato, senza le sue labbra perfette o il
naso dritto e sottile, senza gli occhi che ogni volta riuscivano a farla
arrossire come fosse la prima.
Gli stessi magnifici occhi azzurri che in quel momento si spalancarono
fissandola:
-Hilary…-
Era stato un sussurro, ma lei lo aveva sentito e a quel punto non era più
riuscita a trattenersi scoppiando in lacrime. Scossa dai singhiozzi iniziò a
parlare:
-Oh, mio Dio Jazz! Come mi hai fatta spaventare! Non hai idea… credevo di
morire! Io…-
Ma il marito non la lasciò continuare, facendole cenno di avvicinarsi.
Lei ubbidì e si ritrovò, quasi senza capire come, stesa affianco a lui: il viso
poggiato contro il suo petto. Jazz la strinse forte tra le braccia cercando di
calmare il tremore di lei.
-Hily. Sto bene. Non preoccuparti: solo un taglietto e una costola incrinata.
Assolutamente niente-
Ma lei non accennava a calmarsi e la voce dolce e pacata di lui divenne ancora
più amabile:
-Tesoro, se è per quello che mi hai detto… io capisco, non…-
-No!-
Lo aveva quasi gridato, cominciando a piangere ancora più copiosamente.
Jason la strinse di più a sé, prendendole il viso fra due dita e facendola
girare verso di lui.
La osservò impensierito: preoccupato e spaventato dalla reazione della moglie.
Le asciugò le lacrime con il pollice, sorridendole. Affascinato da come i suoi
occhi nocciola tendessero al verde sommersi dalle lacrime.
Lei sorrise con lui, ma era un sorriso tristissimo che fece stringere il cuore
a Jason.
-Che succede, piccola mia?-
-L’avevo già perso, Jazz-
Lo aveva a mala pena biascicato, con voce rotta e tremante.
-Io non volevo più Jazz… volevo tenerlo! Ma…-
Altre due lacrime si affacciarono sulle ciglia di lei, intraprendendo la
discesa lungo le sue guance.
Furono però bloccate dalle labbra di lui. Delle labbra calde, bollenti quasi,
che lasciarono al loro passaggio una scia di passione.
Continuarono il loro cammino lungo il collo di Hilary, baciando ogni spazio,
ogni centimetro.
Fino a raggiungere il lobo dell’orecchio che mordicchiò piano, prima di
sussurrare:
-Ci riproveremo-
Spostò il viso per poterla guardare meglio, e con un sorriso, fissò lo sguardo
negli occhi ancora umidi di lei:
-Ci riproveremo tante e tante volte, tesoro mio. All’infinito se vorrai-
Hilary tremò al suo fianco, ma non di paura. Sorrise di rimando, sentendo il
caldo respiro di lui sul collo. Ecco: ora si sentiva di nuovo una tigre.
Stando attenta ai suoi movimenti, con premura, per non fargli male, si spostò
sopra di lui: a cavalcioni. E fissando gli occhi blu per cui avrebbe fatto
qualunque cosa bisbigliò:
-Sbaglio, o il letto di un ospedale ci manca?-
*