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Autore: Assassin Panda    23/02/2010    0 recensioni
“Kiku... Kiku non ci vuole più bene! Ci odia! E tu continui a dire che c'è un motivo, Aniki!” “Io... continuo a credere che Kiku ci voglia ancora bene, aru!” “E allora perchè! Perchè ha fatto questo alla mia terra, perchè ha fatto questo al mio Aniki?!”
Fict a tre capitoli sulla guerra Sino-Giapponese [Cina/Giappone]
Genere: Triste, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Cina/Yao Wang, Giappone/Kiku Honda
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Rating: Arancione /N-15
Personaggi: Cina (Yao Wang), Giappone (Kiku Honda), Corea del Sud (Im Yong Soo), Taiwan, Inghilterra (Arthur Kirkland), Francia (Francis Bonnefoy), Russia (Ivan Braginski)
Pairing Cina/Giappone
Genere: Guerra, Drammatico, Angst
Avvertimenti Non per stomaci delicati
Note:
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Il fratellone piange


Cina scavalcò un cumulo di detriti in fiamme, saltando con tutta la forza rimastagli in corpo, per cercare di raggiungere il campo di battaglia dall'altra parte, brandendo un fucile senza nemmeno sapere come usarlo.

21 Novembre 1894.

Era passato poco più di un mese da quando aveva messo in salvo i suoi fratellini, ma non era riuscito ad impedire che Kiku invadesse anche la Mancuria.
E ora si ritrovava a Port Arthur, porto che ironicamente aveva il nome dell'uomo che più detestava al mondo, a tentare ancora una volta di impedire l'avanzata del fratello coi pochi mezzi che aveva.
Era ferito ovunque, non un singolo lembo di pelle era senza lividi o graffi. Non mangiava da quanto? Non lo sapeva nemmeno lui. Era certo di essere dimagrito abbastanza da non riuscire più a sollevare nemmeno le bacchette per mangiare ancora. Certo era esagerato, era sempre stato abbastanza magro di corporatura, solamente che in quel momento poteva benissimo contarsi le costole sotto la lercia tunica gialla, macchiata di sangue, fango e chissà cos'altro.

Si fermò in mezzo alla piazza devastata della città, cercando di riprendere fiato, ansimando pesantemente e riprendendosi l'aria che si era negato fino a quel momento, e fare mente locale sulla sua situazione guardandosi intorno, anche se avrebbe mille volte preferito non farlo.

C'erano rimasti pochissimi uomini a difendere Port Arthur.
Troppo pochi.
Maledisse sé stesso per essere una nazione ancora così arretrata militarmente.
Sveglia! È il diciannovesimo secolo, aru! Non siamo più nel trecento, dove vivevi in pace ed armonia. Si sgridò mentalmente dandosi un pugno in testa. Già da quando Inghilterra e gli altri europei lo avevano indecorosamente sottomesso non era riuscito a difendersi perchè non era preparato ad una guerra che andava combattuta con fucili e cannoni, non con spade e frecce.
Di certo, quando si era arreso, l'ultima cosa che si era aspettato era quella di venire attaccato dal suo fratellino più grande.

Lo aveva trovato, solo tra i bambù.
Lo aveva cresciuto, nutrito, istruito come un figlio.
Era convinto che la grande famiglia dell'Asia sarebbe rimasta unita per sempre.
E invece...
prima Hong Kong, portato via con la forza da quel bastardo occidentale di Arthur Kirkland.
Poi il popolo di Corea, proprio grazie a Giappone, era riuscito ad ottenere un indipendenza.
No Im Yong Soo dipendeva ancora troppo da lui per diventare autonomo seriamente.
Poi, lo sapeva, sarebbe anche venuto il turno di Meimei.
Come Vietnam nel 1700 era riuscita ad espandersi e diventare una nazione a sé.
Come Thailandia nel 1298 lo aveva lasciato, indipendente e fiero, quando era ancora Siam.
Come Giappone...

Lo stavano lasciando tutti.
Si sentiva così incredibilmente solo.

“Cina! L'abbiamo cercata ovunque!”
La voce affannata di un soldato interruppe i suoi pensieri. Che stava facendo? Non era quello il momento da dedicare ai sentimentalismi.
Il soldato, non sapeva se faceva parte dell'armata Cinese o di quella Mongola, ma sapeva che era stremato quanto lui, gli si avvicinò velocemente, spaventato.
“Sono qui ora. Fa rapporto, aru”
“E'... è uno sterminio, signore. L'intera città è stata rasa al suolo”

Le braccia di Yao ricaddero senza forze lungo i fianchi, lasciando cadere con un tonfo il fucile sul terreno brullo e secco, incendiato dal fuoco, mentre le parole nessun sopravvissuto gli arrivarono fioche alle orecchie come un sospiro.
Cadde sulle ginocchia, davanti a quello che probabilmente era l'unico sopravvissuto rimasto.
Non riusciva a trattenere le lacrime per la sua gente, innocenti e combattenti, tutti morti. Perchè? Per quale scopo? A che servivano e a che sarebbero servite tutte quelle morti atroci? Non aveva il coraggio di guardare meglio intorno a sè e vedere i corpi senza vita e martoriati delle vittime, tra le fiamme che li bruciavano donando loro una macabra cremazione. Gli venne da vomitare, ma si doveva dimostrare forte, ancora una volta, nonostante le lacrime.


Si ricompose, per quanto le forze e la debolezza glielo consentissero, e si resse in piedi rigido davanti al soldato, che sembrava scosso quanto lui, se non peggio.
“Come ti chiami, aru?” domandò con un fil di voce.
“Xue Xing. Vengo da Kaipeng” rispose lui, porgendogli una mano insanguinata senza due falangi.
La strinse facendo attenzione a non fargli male, Yao.
“Sai per caso dov'è ora l'Armata Giapponese, aru?”
“Dietro l'altura che circonda il paese. Probabilmente quei bastardi stanno festeggiando brindando col nostro sangue!”
Un tempo addietro avrebbe difeso Kiku, anche nel torto. Ma ora, per quanto facesse male, non più.
“Che ne dici? Vieni con me, aru?”
“Vuole patteggiare con loro, signore?” Chiese il soldato incredulo, con astio nella sua voce.
“No. Voglio solo tentare un ultima volta di far rinsavire Giappone,aru. Questa guerra non ha senso. Corea è stata resa Nazione indipendente. Ora non ha motivo di combattere, aru. Non riesco a capire...” trattenne un altro singhiozzo di isterico pianto, avviandosi a palpebre serrate verso l'accampamento giapponese, seguito da un tremante Xue che voleva essere altrove, e invece si stava gettando in pasto al nemico.




“Signor Honda”
Un soldato della ronda si intromise nella sua tenda, interrompendo un tattico discorso di uno dei migliori generali di Giappone, colui che lo aveva condotto alla vittoria fino a quel momento.
“Sì?” “C'é Cina in persona che chiede di lei. Lo faccio entrare?”
Giappone sussultò dal cuscino su cui era comodamente seduto.
Non sapeva che anche il suo onii-san fosse in mezzo alla gente, lo pensava al sicuro da Thailandia insieme a Taiwan e Corea.
Esitò, lasciando il soldato ad attendere sulla porta.
Che gli avrebbe detto? Quanto tempo era passato dall'ultima volta in cui l'aveva visto? Con che coraggio l'avrebbe guardato negli occhi?
Non lo sapeva. Era arrivato vittorioso fino a quel punto e ora che aveva l'occasione di trovarsi faccia a faccia col nemico non sapeva come comportarsi. Perchè quella Nazione, prima di essere sua nemica era stata suo fratello maggiore.
“Signore?”
“Fallo entrare. E lei può cortesemente uscire e lasciarci da soli, Arimoto-san?”
Il generale non disse nulla ed uscì dalla tenda con rigorosa austerità.

Al suo posto entrò suo fratello.
A vederlo a prima vista non lo riconobbe.
Di certo i lineamenti del viso erano quelli. I capelli sporchi erano comunque ordinati in un codino che ricadeva sulla schiena, come usava sempre tenerli. I vestiti erano sempre i soliti che indossava, tuniche colorate anche in mezzo ad una battaglia.
Eppure era così dimagrito e sciupato che sembrava un altra persona; se non fosse vissuto così tanti secoli insieme a lui probabilmente non l'avrebbe mai riconosciuto.

“Ciao, dì dì” gli sorrise.
A Kiku sembrò la cosa più assurda del mondo.
Eppure gli stava sorridendo, e lo aveva chiamato fratellino.
“C...ciao Onii-san” Balbettò incerto. Non sapeva come comportarsi, stava completamente tentennando dinnanzi alla forza d'animo senza pari della Cina, paragonabile solo alla bontà del suo cuore.
“Possiamo parlare, dì dì? O forse la guerra ti ha reso troppo megalomane, aru?”
“No. Siediti pure” rispose tornando in sé, riacquistando fermezza.
Poi notò dietro le sue spalle un soldato cinese dell'armata, ferito ad una mano e con occhi colmi di rancore. Dovette abbassare lo sguardo di fronte a tanto odio.
“Lui deve uscire” “Non voglio perdermi questa riunione di famiglia” Sibilò il soldato, ma i castani occhi di Cina, seppur segnati da occhiaie profondissime, lo fecero tremare appena e, obbediente, uscì dalla tenda lasciando i due soli.

Giappone fece il possibile per non distogliere lo sguardo da quello freddo del cinese, che sembrava rimasto senza emozioni e sentimenti, e la cosa gli fece paura.
“Perchè hai fatto questo alla mia terra e la mia gente, aru?” domandò in un soffio addolorato, e fu in quel momento che Kiku fissò un altro punto della stanza, mortificato.
“Dovevo farlo...”
“Che fine ha fatto il mio fratellino? Quello che ha compiuto questo massacro non sei tu, aru! Dimmi che ti hanno costretto, ti prego”
“Dovevo farlo, Chugoku. Se volevo veramente diventare indipendente, forte come e più di te”
“Io non ci credo, aru!” gridò Yao stringendo la stoffa dei pantaloni, cacciando indietro le lacrime.
“Che ti è successo? Chi ti ha cambiato in questo modo? Sono stati gli europei, aru?!”
L'altra nazione riprese fervore e fissò furioso gli occhi del fratello.
“Perchè pensi che non me la sappia cavare da solo?! Pensi che senza di te io debba andare a chiedere aiuto agli occidentali?!”

Cina non aveva mai visto Giappone con così tanta rabbia in corpo. Se lo ricordava sempre tranquillo e sorridente, a giocare con gli animaletti di casa e i suoi fratelli, un ottimo studioso e un bravo ragazzo, ben educato, ma mai arrabbiato. E invece in quel momento... davvero, non gli sembrava lui.
“Che considerazione hai di me, Onii-san!?”
“Non lo so. Non lo so più, aru. Non dopo che avete ucciso gente innocente”
“E' una guerra. Hai mai sentito parlare di guerre dove non ci sono state morti di contadini?”
“Parli proprio come uno di loro. Non ti ho insegnato questo, aru” Yao cominciò ad alzare i toni, stanco di quella guerra e stanco per il comportamento schifoso di Giappone.
“Non sono più un bambino. E non sono più a casa tua da ubbidire a tutto ciò che mi ordini di fare” mormorò l'altro serrando i denti. Ancora, anche in quel momento, Cina lo trattava come un bambino. “Sono Nihon, e ti ho dichiarato guerra. Non siamo più fratelli seduti a un tavolo a cercare di risolvere i problemi. Siamo nazioni rivali che stanno combattendo per i propri ideali, per delle terre e per un paese. Se la cosa non ti va bene allora ti conviene arrenderti” decretò il moro alzandosi e guardando il fratello più grande dall'alto al basso, con gli occhi fiammeggianti di ira, collera e odio. Per la prima volta fu il cinese a distogliere lo sguardo.
“Se la metti così...”
Si alzò dal cuscino dov'era seduto, ma anziché uscire a testa bassa come il giapponese aveva previsto, con un improvviso scatto fulmineo, immaginabile per uno in quelle condizioni, e afferrò una katana che Kiku aveva tenuto fino a quel momento al suo fianco.
Indietreggiò spaventato, ma anziché puntargli la lama alla gola Yao prese l'elsa ricamata finemente con fiori magenta e gliela porse.
“...Se sei una vera nazione allora per te non ci sarebbero problemi ad uccidermi ora, o no, aru?”
Giappone deglutì, sentendo il pomo d'adamo scendere e risalire la faringe facendogli quasi male, guardando lo tsuba della katana rivolto verso la sua mano.
“Che aspetti? Hai ucciso così tante persone che dovrebbe essere facile per te fare fuori anche me, aru. Non sono più tuo fratello dopotutto, almeno così mi hai detto”
Non rispose, e non afferrò nemmeno la katana, potè soltanto spostare il suo sguardo incredulo e tentennante dall'elsa agli occhi spenti del fratello, che forse desideravano davvero la morte.
E lui poteva donargliela, semplicemente.
Porre fine alla guerra, smettere di avere tutte quelle morti sulla coscienza, eliminandolo semplicemente conficcandogli la lama nel petto.
Poteva trapassargli la carotide, poteva dilaniargli lo stomaco, c'erano infiniti modi per assassinarlo.
Era così semplice, eppure quando alzava la mano per afferrare l'arma le immagini di Cina che lo accoglieva in casa come un figlio, di quando lo abbracciava e coccolava, facendolo sentire amato come nessun altro lo bloccavano.
Non poteva uccidere quello che per lui era stato più un padre che un fratello maggiore.

“Yao-nii-san. Non posso farlo”
“Perchè no, aru? Sono per caso diverso dalla gente di Port Arthur?”
Ancora una volta Kiku non rispose, e Yao abbassò l'arma, guardandolo con malinconia. Per certi versi era rimasto il ragazzino di sempre, e per questo un po' si rallegrava.
“Sappi solo che diventerai uomo quando la lama della tua katana avrà trapassato la mia carne, aru. Se è l'indipendenza da me che vuoi, allora devi dimostrarmi che la meriti. Ma non coinvolgere più gente innocente tra me e te, dì dì”
Poi, lentamente, uscì dalla tenda senza lasciargli altre spiegazioni, lasciandolo come inerte ancora spaventato e confuso.
“Al diavolo! Ho deciso di conquistare queste terre e lo farò! Gli farò vedere che grande nazione sono diventato!”
  
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