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Autore: Lady Snape    01/03/2010    5 recensioni
Uno dei personaggi più toccanti della serie, a mio parere. Ricardo Espadas, il portiere dei Miracoli, è ancora un bambino che affronta una triste realtà. E' arrabbiato, molto arrabbiato. Un personale ritratto di un momento della sua infanzia, ispirato dalle pagine di Takahashi.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In attesa di un miracolo

 

 

I colpi piovevano da tutte le parti. Non sapeva più come fare a bloccare quella grandinata sulla sua testa, contro il suo stomaco, le costole e gli stinchi. Si rannicchiò disperato per proteggere almeno la sua pancia: non ne poteva più di subire in quella parte del suo corpo, il dolore di era fatto insopportabile. I balordi che li avevano attaccati si divertirono ancora un po’, poi gli sputarono addosso.

< La prossima volta vi ammazziamo! > urlò uno di loro, mentre ridendo con i suoi compagni, andava via.

Questa volta non avevano meritato nessuna punizione. Non avevano fatto niente di male, se non passare davanti a quel negozio di abbigliamento sportivo. Non si erano fermati a guardare. Ormai avevano perso quell’abitudine. Ora un pallone lo avevano, un pallone che dei bambini ricchi non volevano più e poco importava se era ancora nuovo. Espadas davvero non capiva cosa passava per la mente di certa gente, ma di sicuro non sapevano cosa significasse riuscire a mettere a fatica qualcosa sotto i denti ogni giorno, dividere in infinite parti quel poco che si riusciva a guadagnare. Aveva rubato a volte, quando la fame si era fatta pesante e al mercato il fruttivendolo guardava da un’altra parte. Non si era sentito in colpa, pensava semplicemente di aver preso qualcosa che gli spettava di diritto, in quanto essere umano e in quanto affamato.

Si alzò a fatica e vomitò. Non riuscì più a trattenersi. I suoi succhi gastrici si riversarono sul terreno di quel cortile sgangherato, dando quasi una nota di colore a tutto quel grigio e marrone. Sputò e si sollevò per vedere come stessero i suoi compagni. Malridotti. Doloranti. Sanguinanti. Sospirò, poi si sentì in dovere di risollevarli.

< Forza! In piedi! > intimò. Non sapeva perché si era eletto il capobanda di quel gruppo, ma, da che ne aveva memoria, si era sempre comportato così. Garcia fu il primo ad alzarsi. Il suo allenarsi come lottatore gli aveva insegnato a incassare, ma avere dodici anni lo portava ancora a subire la sassaiola di quei ragazzi più grandi, adulti, che avevano deciso di ergersi al di sopra della legge. Insieme fecero alzare anche gli altri. Dovevano andare via da lì: non erano sicuri che le botte fossero finite e per evitare di prenderle ancora era meglio filarsela. Si aiutarono l’uno con l’altro, si tirarono su. Espadas ebbe all’improvviso la sensazione di essere osservato; sentì bruciargli la nuca, trafitta dallo sguardo di qualcuno. Quando si voltò vide solo un lembo di stoffa azzurra sparire dietro un muretto. Non aveva la forza di inseguire la persona a cui apparteneva. In quel momento aveva Lopez appoggiato alle sue spalle. Meglio tornare, si disse.

                Suor Anna appena li vide conciati in quel modo non fece altro che alzare gli occhi al cielo. Era ormai anziana e non sapeva più come impedire a quel gruppo di ragazzini di cacciarsi nei guai. Non erano cattivi, questo lo sapeva bene, avevano solo molta sfortuna. La suora gestiva un orfanotrofio che ospitava alcuni di loro in quanto orfani, altri perché le famiglie erano troppo impegnate a cercare un modo per guadagnare qualche soldo per occuparsene; faceva il possibile, ma a nessuno importava di quei figli di nessuno lasciati lì, perché le bocche da sfamare in esubero erano solo un problema. Ogni tanto ricevevano donazioni, ma non erano mai sufficienti. Li portò tutti in infermeria.

< Ricardo ti ho detto mille volte di non accettare provocazioni. > disse dolcemente al ragazzino, mentre medicava Suarez.

Espadas sbuffò. Era stufo di ripetere sempre le stesse cose, le stesse giustificazioni.

< Non ho fatto niente! Nessuno di noi ha fatto niente! > era arrabbiato: con sé stesso, con la sua povertà e con lo spadroneggiare di chi non era migliore di lui.

Suor Anna sapeva che quei ragazzini erano innocenti, ma non poteva fare molto di più. Espadas era l’unico a dover essere ancora medicato: non faceva altro che farsi male, in un modo o nell’altro, ma, come al solito rifiutò che gli si mettessero bende. Aveva sbirciato nella scatola del pronto soccorso e, vista la carenza di garze, aveva detto di stare bene così. Suor Anna accettò l’offerta, anche perché cercare di convincerlo era perdere tempo.  Cocciuto come pochi, Ricardo Espadas era un ragazzino forte, ma covava dentro di sé un rancore nero che temeva lo avrebbe portato alla rovina. Peggio di così? Sì, peggio di così si poteva sempre finire: la sua rabbia poteva portarlo a diventare un criminale e ad uccidere la speranza che albergava in quel piccolo cuore.

                Quella sera riuscirono a mangiare qualcosa di sostanzioso dopo tanto. Un supermercato del centro aveva portato, un po’ sottobanco, una serie di prodotti scaduti da qualche giorno, prodotti ormai invendibili, ma che per loro andavano bene.

< Che schifo di vita! > disse Ricardo dopo aver finito la sua porzione. Scostò via il piatto con violenza, stando però attento a non farlo finire per terra: gli mancava di recare danni all’orfanotrofio. Suarez lo guardò, poi, non riuscendo a sostenere lo sguardo di quegli occhi verdi carichi di odio, tornò a fissare il piatto.

< Possiamo farci poco. > disse, quasi rassegnato.

< Sì che possiamo! Io non mi arrendo così! > Espadas era in piedi, mani sul tavolo e lo sguardo di tutti puntato addosso. Una trentina di bambini tristi lo guardarono quasi intimoriti dalla sua irruenza. Le suore che stavano cenando su un tavolo a parte lo fissarono anch’esse e qualcuna di loro sussurrò “E’ sempre lui, Espadas”. Era sempre lui a ribellarsi a quello strano vittimismo che attanagliava tutti. Non si dava per vinto. Non voleva soccombere a quella situazione. Stufo uscì dalla mensa, incurante dei richiami di Suor Anna.

                Ricardo camminò per una buona mezzora prima di fermarsi. Era arrivato in una zona tranquilla, ricca di negozi e di attrazioni. Si sedette in un vicolo abbastanza nascosto ad osservare la gente che passava. Li vedeva nei loro vestiti nuovi, mentre si deliziavano con un gelato. Lui non l’aveva mai assaggiato un gelato. Sapeva che era dolce, ma la sua esperienza finiva lì. Vide dei ragazzini della sua età rincorrere un pallone. Due lacrimoni scesero dai suoi occhi smeraldini. Si preoccupò di asciugarli subito. Non s’era mai visto un uomo piangere, si disse. Non doveva essere debole. Lui sarebbe diventato qualcuno un giorno e avrebbe riscattato sé stesso, i suoi compagni e magari quell’orfanotrofio che lo aveva accolto quando nessuno lo voleva. Era arrivato lì che era già grandicello. Ricordava vagamente di aver avuto una famiglia, ricordava a malapena il volto di sua madre. Sapeva solo che era stato lasciato lì perché nessuno poteva occuparsi di lui. Condivideva la stessa sorte con Suarez e Alvez, mentre gli altri compagni del sestetto avevano una famiglia che ogni tanto veniva a prenderli per passare qualche giorno insieme. Suarez voleva sapere perché suo padre lo aveva abbandonato; a lui, invece, non importava ritrovare i suoi genitori: se lo avevano lasciato lì in un modo o nell’altro non avevano bisogno di lui. Nonostante questa decisone, ripensò con leggera amarezza alle coppie di stranieri che andavano a vedere gli orfanelli per poterne adottare uno. Si era reso conto che cercavano solo i neonati o qualcuno ancora molto piccolo. I bambini più grandi non avevano speranze. Lo sentì dire anche da qualche suora che, un po’ dispiaciuta da questa pratica comune, si preoccupava per loro. Non ricordò di aver mai sperato di essere adottato, ma sapeva che i suoi amici ancora sognavano una mamma e un papà. Ricardo Espadas aveva dodici anni e tanta rabbia dentro.

Annoiato da quella folla di gente che passeggiava felice e serena per le vie della città, Espadas decise di tornare all’orfanotrofio, se non altro per non far preoccupare qualcuno. Un leggero venticello fece sollevare qualche cartaccia. La strada era deserta. I suoi passi lenti lo portarono verso un quartiere residenziale. Ricardo guardò le case, tutte bianche, con un giardinetto sul davanti e pensò che un giorno anche lui sarebbe vissuto in un posto così. Vide una lattina abbandonata sul ciglio della strada e non potette resistere all’impulso di prenderla a calci. Con colpi precisi la fece rotolare per il marciapiede, dribblò gli alberi e le aiuole; infine, con un calcio preciso, centrò il bidone di alluminio all’angolo della strada. Ecco come avrebbe riscattato sé stesso: sarebbe diventato un calciatore di successo. All’improvviso avvertì nuovamente la stessa sensazione del pomeriggio. Si sentì osservato; questa volta individuò la provenienza dello sguardo molto prima che questo riuscisse a sparire. Dietro un cancello di una delle villette, una bambina con un abitino azzurro lo guardava con un sorriso stampato sul volto. I suoi capelli castani erano stretti in una treccia e i suoi occhi neri e ridenti lo osservavano incuriositi. Ricardo si fermò ad osservarla, incapace di parlare: sembrava una strana bambola, sembrava essere finta.

< Sei davvero bravo. > disse la bambina. Aveva una voce molto sottile e dolce. Ricardo le si avvicinò.

< Farò il calciatore da grande, ovvio che sono bravo. > rispose al complimento con una fierezza che non pensava di possedere. La bambina lo osservò ammirata.

< Anche mio fratello gioca a calcio qualche volta, ma non è bravo come te. Come ti chiami? >

< Ricardo Espadas. Tu? >

< Io sono Elena Campostellas. > rispose la bambina dal vestito azzurro, quasi si trovasse davanti a un insegnante e si stesse presentando ufficialmente.

Espadas si congedò: si stava facendo tardi, però, disse a quella bambina, che si sarebbero sicuramente rivisti.

 

 

 

Piccola Nota.

Questa fanfiction era in un cassetto da anni ormai. Tentavo di scriverne un seguito, un prosieguo dell'incontro con Elena, ma non ci sono mai riuscita. Nulla vieta che non possa farlo in seguito, ma credo che l'impossibilità a continuarla sia stato il profondo senso di disagio che provo leggendola, consapevole di aver scritto qualcosa di estremamente malinconico. Poi chissà, arriverà l'ispirazione.

 

Lady Snape

   
 
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