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Autore: MissChatterbox    03/03/2010    3 recensioni
FanFiction scritta per il contest "Imprinting...What?" indetto da Kimly su EFP forum. E che, caso stranissimo, ha pure vinto. "Era successo all'improvviso, per il semplice gesto di aver incontrato quegli occhi: nella sua testa aveva sentito come un'esplosione. Era come se tutto il suo mondo – sua madre, sua sorella e i suoi fratelli, suo padre adottivo – fosse stato sradicato dal suo posto e si fosse fatto più in là: c'era la sua vita, il suo mondo, e poi c'era lei. Non al centro del mondo, ma un universo a sé; si era sentito marchiare a fuoco da quegli occhi che si stavano allargando dalla meraviglia sotto il suo sguardo sbalordito."
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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conc Autore: Morgain28
Titolo: Slow Me Down
Genere: Romantico
Rating: Giallo
Capitoli: 1
Avvertimenti: One-shot
NdA: Una very important ficcy, signori miei. Almeno per me!
 



                                                                  
Slow Me Down
                                                                 

[Rushing and racing
and running in circles
Moving so fast, I'm forgetting my purpose
Blur of the traffic is sending me spinning
Getting nowhere

My head and my heart are colliding, chaotic
Pace of the world
I just wish I could stop it
Try to appear like I've got it together
I'm falling apart

Save me
Somebody take my hand, and lead me
Slow me down
Don't let love pass me by
Just show me how
'Cause I'm ready to fall
Slow me down
Don't let me live a lie
Before my life flys by
I need you to slow me down.

Slow Me Down, Emmy Rossum]



Guidava da ore.  Aveva perso il conto di quanti bivi, scorciatoie, strade dimenticate da Dio, avesse imboccato sotto quella cortina di pioggia

primaverile. Non che la stagione influisse molto sulla variazione climatica della penisola di Olympia: pioggia in primavera, in estate, in

autunno, in inverno e ancora in primavera... e lei era folle a percorrere quelle strade sdrucciolevoli col suo macinino,  alla massima velocità

consentita dal motore poco potente. D'altra parte, aveva collezionato tanti altri motivi per definirsi folle, e quel viaggio non era che l'ultimo

di una lunga serie. Ma, come tutte le cose pazze, i colpi di testa della sua breve vita, non aveva potuto farne a meno: quelle strade,

percorse col solo conforto di un thermos di caffè ormai freddo e vuoto per tre quarti, l'avrebbero portata dove voleva – e allo stesso

tempo, non voleva affatto – essere. Perciò, si era messa in macchina nel bel mezzo della notte, impaziente e stanca da morire. Proprio

come lo era stata un'altra notte, qualche tempo prima, quando non aveva la cicatrice sul braccio sinistro e cellule celebrali inutilizzabili

perché non ancora in pieno stordimento amoroso.


Sedeva nell'officina, le mani sporche di grasso troppo ostinato per arrendersi persino al sapone di sua madre. Le guardò: erano grandi

e dalle unghie nere - lo svantaggio di fare il meccanico. Il suo udito affilato percepiva il rumore della pioggia; il suo olfatto, ancora più

acuto, ne sentiva l'odore. Stava diventando insopportabile, il rumore della pioggia. Perché ogni goccia che sentiva cadere, ogni effluvio di

muschio bagnato che gli arrivava al naso gli ricordavano lei. L'aveva vista per la prima volta in una  notte simile quella, sebbene la pioggia

fosse stata meno fitta, sul ciglio della strada. Stava facendo una corsa – uno dei suoi passatempi preferiti, persino da prima della

trasformazione – quando aveva notato un'auto di piccola taglia ferma sulla strada, gli sportelli aperti, la luce interna accesa. Quando era

uscito dal folto della foresta, seguendo d'istinto la sua naturale impossibilità di farsi i fatti suoi, come gli veniva spesso rimproverato, aveva

notato una figura piegata sul motore,   " Forza, bambina ", diceva una voce femminile bassa e implorante, con un forte accento del sud, "

non mi abbandonare proprio adesso. " I suoi occhi sensibili la osservarono affannarsi sul veicolo e poi rinunciare. Non aveva potuto

resistere: i guasti risvegliavano il meccanico che era in lui. " Problemi con la macchina? ", aveva gridato, ed aveva visto con un certo

divertimento la figura sussultare con violenza. I vantaggi di essere un licantropo: c'era poco che poteva sfuggirti. Comunque, si era

avvicinato a velocità umana – perché se avesse  fatto altrimenti sapeva chi sarebbe fuggito a gambe levate. La donna si era subito

spostata dietro la macchina, come a farsi scudo, piegata in modo tale che era impossibile – persino per lui -  vederle il viso sotto il

cappuccio dell'impermeabile giallo: " Una mano mi farebbe comodo. ", aveva affermato lei, circospetta, con quell'accento che sembrava

masticare le sillabe una per una. Aveva percepito la sua insicurezza – un'altra cosa da lupi: poteva sentire il suo respiro ed il battito

cardiaco accelerare - ed aveva agito di conseguenza: si era accovacciato sul cofano aperto, sfruttando il fascio di luce proveniente

dall'abitacolo per rendere il fatto che riuscisse a distinguere i pezzi del motore nel bel mezzo della notte lievemente più verosimile. " E' la

valvola di raffreddamento. E' andata. " La donna sospirò. " Pace all'anima sua. ", disse, con esasperazione.


Si era alzato e aveva guardato dove pensava si trovasse il suo viso, dato che nel frattempo si era rannicchiata ancora di più: " Da quanto

tempo non porti questa bambina dal dottore? Dovrebbero chiamare i servizi sociali, davvero. ", aveva scherzato, scuotendo la testa. " Da

circa quattro mesi. Quando si viaggia si fa quel che si può. E poi ", aveva continuato con una certa irritazione, " cosa ti fa pensare di essere

un esperto? " Lui aveva sorriso nel buio: " Non saprei, ma potrebbe avere a che fare col fatto che sono un meccanico. "  Si era pulito le

mani sui pantaloncini corti che indossava -  certo l'abbigliamento adatto all'autunno inoltrato della fredda Forks – e le aveva fatto la sua

proposta: " Questa piccola ha bisogno di una urgente sistemata. Aspetta qui, e tra dieci minuti torno col carro-attrezzi. Il riscaldamento

funziona, no? Non vorrei ritrovarti surgelata. " " Ah. D'accordo, mio buon samaritano. Ma sappi che se tenti qualcosa di strano, ti farò il

bagno con la mia scorta di spray al peperoncino. "  Il suo sorriso si era allargato: " L'unica a cui ho intenzione di fare qualcosa è questa

piccina. Puoi stare tranquilla, sono il più bravo meccanico della città ", aveva fatto una pausa ad effetto, " oltre che l'unico. " Se ne era

andato verso il bosco, gettandosi a capofitto nella vegetazione con la risata della ragazza che rimbombava nelle orecchie lupesche.


 Come promesso, dopo appena dieci minuti si era ritrovata al caldo. Avvolta completamente in una coperta di lana, sedeva da un tempo

indefinito nella cucina di una casa sconosciuta, piccola e accogliente, con mobili di legno scuro; aveva in mano una tazza di caffè fumante

che il suo “samaritano” le aveva permesso di preparare per sé e per lui, dato che casa e officina erano a circa dieci metri di distanza. "

Spero che tu non lo faccia spesso. ", aveva commentato quando quello che si era rivelato un altissimo ragazzo persino al buio le aveva

allungato le chiavi. " Sarebbe come chiedere di essere derubato. " Lui si era fatto una grassa risata: " Questa è una riserva indiana. ",

aveva osservato come non fosse stata un'ovvietà. " In una riserva indiana, gli abitanti conoscono persino il colore delle tue mutande,

figuriamoci se hai aspirazioni criminose. Oltre al fatto di essere controllato a vista.  Mi pare che l'ultimo furto ci sia stato prima che io

nascessi: una fetta di torta di mele ad opera del mio amico Quil: sua nonna stava facendo un sonnellino. " Così,  si era ritrovata a girare per

una cucina molto ingombra e molto disordinata, tipica di un maschio che viveva da solo. Le erano caduti gli occhi su delle foto, sparse qua

e là senza ordine apparente: tre ragazzi alti che ridevano a crepapelle sullo sfondo della foresta verde cupo; una donna dai capelli corti, il

viso duro aperto in un sorriso mentre guardava un uomo pallido dai capelli castani sollevare un pesce in segno di vittoria; un uomo su una

sedia a rotelle, il viso rugoso e aperto; un gruppo più ampio di ragazzi e ragazze, tra cui, notò, una a cui delle cicatrici deturpavano la metà

del viso, piegandole la bocca in un sorriso storto. Tutti avevano tratti indiani, tranne l'uomo coi capelli castani e una ragazza pallida e

bellissima, dai lunghi capelli rossi e enormi occhi castani che abbracciava uno dei ragazzi più alti. Aveva fissato le foto, incantata da quelle

scene di vita quotidiana; certo, non erano di alta qualità, ma avevano un che di intimo e familiare che la catturava. Tali elucubrazioni erano

 state interrotte dal grido del ragazzo, proveniente da qualche parte aldilà della porta di casa: " Ehi! E il mio caffè? "



L'aveva sentita avvicinarsi con circospezione; a dire la verità, aveva sentito ogni suo passo da quando aveva aperto la porta di casa. Si

sollevò dal motore, vittorioso: la macchina sarebbe tornata in vita in un tempo ragionevole, ma non aveva l'aria di poter andare avanti

ancora per molto. " Grazie. " , aveva detto la ragazza dietro le sue spalle, " Se non fosse ripartita sarebbe stato  un casino di proporzioni

non indifferenti. " Lui aveva riso come un matto " Mi chiamano “mani di fata”. E aspetta a ringraziare: non ti ho ancora fatto il conto. "

Aveva riso anche lei: " Per ora, posso pagarti con il caffè. " Lui aveva poggiato le mani sul cofano verde acqua, che si era chiuso con un

tonfo sonoro sul motore, e si era voltato a ricevere il suo ben meritato premio, ma al posto della tazza colorata che si aspettava, qualcosa di

 altrettanto vivace era entrato nel suo campo visivo: un paio di impressionanti occhi dello stesso colore celeste della macchina dominavano

un viso pallido e lentigginoso, circondato da capelli rossi che ricadevano, bagnati e pesanti, dietro le spalle. Era successo all'improvviso, per

il semplice gesto di aver incontrato quegli occhi: nella sua testa aveva sentito come un'esplosione. Era come se tutto il suo mondo – sua

madre, sua sorella e i suoi fratelli, suo padre adottivo – fosse stato sradicato dal suo posto e si fosse fatto più in là: c'era la sua vita, il suo

mondo, e poi c'era lei. Non al centro del mondo, ma un universo a sé; si era sentito marchiare a fuoco da quegli occhi che si stavano

allargando dalla meraviglia sotto il suo sguardo sbalordito. Era durato un momento – ne era certo – ma era come se l'avesse guardata per

anni. Aveva ripreso fiato – si era sentito soffocare – e tutto era tornato a posto. Come se fosse sempre stato così. Confusamente, si era

reso conto che era capitato anche a lui: l'imprinting. E quello che era ancora più ironico era che sentiva di appartenere in ogni sua parte ad

una ragazza di cui non conosceva neanche il nome. La ragazza, il suo nuovo universo, l'unica ragazza del mondo, gli aveva porto la sua tazza

di caffè. " Non... non ci siamo presentati. ",  aveva detto, ancora intontito dalla grandezza dell'esperienza; aveva improvvisamente ritenuto

di importanza estrema conoscere il suo nome. La ragazza aveva sorriso, con qualcosa di nervoso nell'espressione: " Mi chiamo Niamh –

Niamh O'Flaherty. Piacere... ? "




" Seth. ", aveva  detto come suggellando un giuramento inespresso, " Seth Clearwater. ". Di che tipo di contratto si sarebbe trattato,

l'avrebbe compreso solo più avanti. Allora aveva visto solo un ragazzo altissimo dalla pelle color cotto, il viso dai lineamenti indiani

somigliante a quello della donna della foto, e tuttavia differente: non c'era durezza, solo un sorriso aperto e, per una frazione di secondo che

le era parsa durare un'eternità, uno sguardo pieno di un sentimento che non aveva indovinato. Forse... meraviglia. Aveva dei begli occhi

scuri, aveva constatato, sentendo una curiosa sensazione alla bocca dello stomaco, la stessa che provava, aveva pensato, appena prima di

ogni test scolastico. C'era stato silenzio per qualche secondo, mentre il ragazzo – Seth – sorseggiava il suo caffè con gli occhi incollati al suo

viso; poi erano cominciate le domande: " Allora, cosa ti porta nelle sperdute lande della deserta Forks? "


E da quel momento era stata una strada in discesa. Niamh O'Flaherty si era rivelata una ragazza per nulla timida, o riservata. Forse

perché, gli aveva detto, era più facile parlare con estranei che con i conoscenti dei propri segreti più intimi. Fatto stava che lei – l'unica

donna che esisteva, ormai – gli aveva raccontato tutto. Tutto. Nonostante fosse visibilmente esausta e cerchi scuri le segnassero gli occhi

appannati dal sonno, avevano passato la notte a chiacchierare del più e del meno, e Seth aveva saputo, ascoltando ogni parola, come un

assetato nel deserto. Aveva osservato il modo in cui la sua bocca rosa pastello si arcuava all'insù anche quando era imbronciata; come

arricciava il naso sentendo alcune parole; come si attorcigliava i capelli lisci e rossi come le foglie d'autunno attorno all'indice quando si

concentrava. Tutto, ogni minimo gesto, sembrava imprimersi nella memoria non appena raggiungeva la retina. Nel frattempo, aveva

anche ascoltato il suo racconto.


Era una fotografa. Texana di origini irlandesi. A quanto pareva, era in viaggio da più di un anno su quella macchina scassata. Era partita il

giorno del diploma, scegliendo di rinunciare, senza pensarci troppo, all'opportunità del college severamente cattolico che i suoi genitori,

ferventi credenti, le avevano riservato. Così, era saltata in macchina con due valige e i soldi del suo college in borsa, ed aveva attraversato

gli Stati Uniti da sola, vivendo di vari lavoretti. Aveva fatto di tutto, gli aveva raccontato, dalla cameriera alla cantante di strada.

Qualunque cosa, pur di mangiare.


L'aveva guardata con tanto d'occhi, mentre narrava la sua favola senza potersi frenare. Forse era davvero perché non lo conosceva, aveva

pensato allora, ma ora ne sapeva di più. Seth era sembrato bersi ogni parola, interloquendo qua e là con qualche battuta, facendola ridere

di gusto. Ovviamente, Niamh aveva lasciato fuori le parti meno divertenti, come la reazione dei suoi genitori alla fuga della loro unica figlia,

il centro del loro mondo. Di sicuro, attendevano ancora invano di vederla scendere a colazione. Erano tipi del genere. Ma quello che era

stato importante, allora, era vederlo ridere. Per qualche motivo, il suono della sua risata le aveva fatto attorcigliare le viscere.


Per quanto riguardava Seth, la sua parte della storia era stata riservata al giorno seguente, seduti sotto il portico di un piccolo motel poco

distante dalla riserva che le aveva consigliato lui. Era venuta a sapere della sua infanzia perfetta nella riserva, dei suoi genitori e di sua

sorella – una vera rompipalle, aveva ammesso con una risata affettuosa – e dei suoi amici. Di suo padre, che era morto da qualche anno –

che ne sentiva la mancanza ogni giorno, che all'inizio aveva creduto di non farcela, che sua madre aveva tenuto duro per tutti loro. Che era

contento che avesse trovato un brav'uomo, che lui rispettava come una padre. Solo in seguito era venuta a sapere delle sue parti meno

divertenti.



" Quanto resterai? ", le aveva chiesto con ansia trattenuta a stento ad un certo punto, qualche tempo dopo, mentre camminavano nel folto

della foresta. Con una macchina fotografica dall'aria vetusta alla mano, Niamh immortalava qualunque cosa si muovesse nella vegetazione.

Alla sua domanda, aveva sollevato il capo dall'obbiettivo, guardandolo con occhi gravi e reticenti, come faceva ormai da un po': da quando

aveva parlato di partire per la prima volta. Seth si era accontentato di poter respirare la sua stessa aria per più di un mese, in cui l'aveva

pian piano introdotta nella sua cerchia: Niamh aveva sopportato con ironia gli sguardi inquisitori di sua madre e sua sorella, che si era

premurata di incenerirla con un'occhiata non appena aveva registrato la sua presenza – occhiata alla quale Niamh aveva replicato con un

sorriso storto dei suoi, un'arma pericolosa – e quelli curiosi e consapevoli dei suoi fratelli, che l'avevano squadrata come delle massaie dal

macellaio di fronte al tacchino da scegliere per il Ringraziamento. Avevano capito subito che aveva avuto l'imprinting – non aveva neanche

 avuto bisogno di trasformarsi: aveva incrociato Sam ed Emily, allora ormai larga quanto alta per il bambino in arrivo, a fare spese mentre

lasciava il motel di Niamh; non c'era stato bisogno di parole. Gli avevano fatto le loro congratulazioni e si erano riservati il diritto di

conoscerla. E così era stato: l'aveva portata ad uno dei loro “raduni”. Avevano ascoltato vecchie leggende attorno al fuoco, bevendo birra e

rimpinzandosi di patatine, come quando avevano sedici anni. E ricordato chi non c'era più. Quando il nome di suo padre era stato

pronunciato, aveva sentito la mano di Niamh scivolare nella sua, fredda e asciutta. Si era voltato a guardarla e se ne era innamorato

un'altra volta. Perché lo aveva capito: ormai era del tutto suo. Ed aveva la sensazione che lo sarebbe stato anche se fosse stato un normale

meccanico di vent'anni e mezzo, e non uno all'occorrenza provvisto di zanne e artigli. Aveva persino telefonato a loro per informarli.

Edward era stato al settimo cielo per lui. Il suo improbabile amico sapeva cosa volesse dire trovare la propria metà, e sapeva comprendere

la sorpresa, l'esaltazione, la paura profonda. Seth stava vivendo qualcosa di simile. Per Edward era stata Bella, sua moglie e madre di sua

figlia;  Seth  sentiva chiaramente di aver trovato la sua, di metà, qualcosa che gli era sempre sembrato del tutto improbabile. Almeno, in

quelle circostanze: erano passati anni dalla trasformazione. Eppure, era accaduto anche a lui: era stata lei a trovarlo, proprio come era

accaduto ad Edward. Con la differenza che, nel suo caso, quella metà pareva ignorare la sua esistenza. Non come amico – certo che no –

ma come uomo. Stranamente, la cosa non gli dava fastidio: per lei poteva essere tutto. Il suo confidente, il suo amico fraterno, il suo

amante; persino uno sconosciuto. Quello che importava era che lei fosse felice.



Niamh aveva continuato a scrutarlo per un momento che le era parso eterno. L'aveva guardato, e aveva visto il pericolo. Perché gli occhi

di Seth erano pieni di quella luce che vi scorgeva spesso, quando pensava di non essere osservato. Sofferenza e timore. E lei non voleva

farlo soffrire. Aveva trovato strano, sul momento, pensare che avrebbe preferito morire piuttosto che lasciare qualcuno che conosceva

neanche da due mesi, sentire che se lo avesse fatto si sarebbe spaccata in due; e quello era pericoloso. Quei sentimenti impazziti violavano

una delle poche regole che si era imposta nel suo lungo viaggio: non affezionarsi a nessuno. Ma non aveva potuto evitare di farlo con colui

che in un battito di ciglia era diventato il suo confidente più intimo, con cui poteva  parlare come a se stessa. Col tempo, gli aveva rivelato

ogni cosa di sé, senza eccezioni ; non aveva tralasciato neanche le parti meno divertenti: gli aveva detto di quando aveva rivelato ai suoi la

sua vera aspirazione nella vita: non voleva essere un avvocato in carriera, o un medico. Voleva essere una fotografa. Cosa che non aveva

fatto loro molto piacere sapere. Gli aveva detto delle occhiate incredule; degli sguardi delusi rivolti alla loro unica bambina, il centro del

loro mondo, quella per cui avevano lavorato duramente per anni ed erano ingrigiti e sbiaditi,  che li aveva traditi in quel modo. E lui

aveva contraccambiato: le aveva detto di suo padre, di quanto fosse stata dura dopo. Che senza la sua famiglia e i suoi fratelli non ce

l'avrebbe fatta.

Seduti nel salotto dell'appartamentino che aveva affittato, avevano visto l'autunno scorrere veloce, le foglie degli alberi, dello stesso

colore dei suoi capelli che danzavano nel vento aldilà della finestra. Veloce, troppo veloce, si era ritrovata a pensare. Stava cominciando ad

accorgersi che non poteva più fare a meno della sua compagnia. Era come una magia: il mondo, la vita attorno a lei erano ancora le stesse:

il verde della foresta, la sfumatura indefinibile delle nuvole, il sole pallido; ma bastava che Seth entrasse nel panorama per rendere tutto

più vivace, più colorato: il giallo sbiadito della stanza pareva brillante, il rosso delle sue guance più acceso. Era potente, potente e pericoloso

come una droga. Un rischio che, le ululava la parte razionale della sua mente, non poteva permettersi. Oltre che terribilmente spaventoso.

Si stava accorgendo di non potergli stare lontano per più di un minimo lasso di tempo. Non era una questione di volontà: non riusciva

fisicamente a fare a meno di lui. Per questo, per quanto ci avesse provato, non era riuscita a dire basta: aveva continuato a rimandare e

rimandare. Fino ad una mattina di pochi giorni prima. Seth sedeva sul pavimento della stanza, circondato da una marea di foto. Le aveva

prese in mano e commentate una per una, con una meticolosità che l'aveva stupita. Non doveva essere così strano, in un meccanico, aveva

riflettuto poi - ma allora lo aveva scrutato mentre le soppesava con meraviglia. Erano testimonianze cartacee della sua vita prima di

Forks: scorci di città che aveva visitato, luoghi che aveva visto, persone che aveva conosciuto, tutte datate e catalogate con cura. Aveva


rimarcato la vicinanza tra una data e l'altra in quelle di città diverse. Niamh aveva sorriso a disagio: non aveva avuto un buon

presentimento sulla piega che la conversazione era stata in procinto di prendere. Aveva avuto ragione: " E' raro che io resti nello stesso

posto per più di qualche mese. Al massimo una stagione. " Gli occhi di Seth erano diventati enormi, al riflesso dello specchio. Enormi e

pieni di panico. " Così poco? "  " Già. Così è più facile per tutti. " Seth aveva abbassato il viso, silenzioso. " Io non voglio che tu te ne vada. ",

aveva detto, così piano che aveva fatto fatica a sentire. " Così presto. ", aveva aggiunto in fretta, la faccia arrossata sotto la pelle scura. I

suoi occhi neri, così sinceri e puri, l'avevano osservata come un cucciolo che guarda il padrone che lo sta abbandonando. E Niamh aveva

capito. Aveva compreso che non poteva permettere che quell'affetto reciproco e improvviso crescesse più di quanto non avesse già fatto.

Se non voleva distruggere entrambi. Così, aveva stabilito la data: " Per l'inverno. Resterò per tutto l'inverno. "



L'inverno. Tre mesi. Tre mesi non erano abbastanza, aveva pensato nel panico. Una vita intera non sarebbe stata abbastanza. Nonostante

ciò, aveva sorriso. O meglio, si era sforzato di farlo, anche se temeva che la sua espressione fosse somigliata di più a una smorfia. Quella

che il suo viso prendeva ogni volta che si toccava l'argomento “primavera”. Non aveva mai detestato particolarmente quella stagione, così

come non aveva mai amato l'inverno – neppure allora, quando non ne sentiva più la morsa – eppure, si ritrovava a desiderare che il

mondo congelasse nel pallore del periodo più freddo dell'anno per l'eternità. Particolarmente pallida a Forks, la città più piovosa e scialba

dello Stato di Washington. Ma ormai la sua mente funzionava in modo diverso: i suoi desideri erano del tutto secondari rispetto a quelli di

Niamh, e Niamh, lo aveva capito, aveva bisogno dei colori brillanti del mondo esterno, non dei verdi cupi della riserva. Tutto di lei lo

testimoniava: i suoi abiti, le sue foto, persino il suo aspetto erano vivaci. Niamh non era per Forks. Non era per lui, che aveva rifiutato di

allontanarsi dalla famiglia, ora che aveva un ruolo di responsabilità in assenza di Jacob e Leah, di partire come invece aveva fatto sua

sorella. Aveva sempre pensato che non l'avrebbe voluto mai: per quanto semplice, Forks era stata la sua unica casa, ed aveva amato le sue

tradizioni. Le amava ancora. Ma non poteva cambiare che Niamh fosse l'unica che volesse, e allo stesso tempo, l'unica che ad ogni passo

avanti, ne faceva due indietro, decisa a non avere legami; e quanto forte doveva essere la sua volontà per opporsi all'inesorabilità

dell'imprinting. La ricerca della ragione per cui vi riuscisse non l'aveva fatto dormire la notte, tanto che aveva finito per fare l'impensabile:

aveva superato la timidezza e ne aveva parlato con Emily, la ragazza che era sempre stata come una seconda sorella maggiore per lui,

quella con cui poteva parlare di quelle cose senza sentirsi ritardato o una femminuccia, o tutte e due – Leah era allergica a tutto ciò che

aveva a che fare con l'imprinting. Anche a buon diritto, secondo il suo modesto parere. Emily aveva sorriso comprensiva: " Si sta

opponendo, allora? " Seth aveva annuito, abbattuto. Quel giorno aveva tentato di parlarle, di dirle che non poteva più resistere

nell'incertezza. Le aveva passato le mani sul viso – il contatto più intimo che avessero mai avuto – ed era stato come l'esplosione di una

bomba nucleare sotto la pelle. Esaltante come quando si trasformava. Meglio. Ma lei aveva voltato il viso, le guance in fiamme, gli occhi

ostinatamente altrove. Perché? Perché capitava solo a lui? Tutti gli altri avevano avuto il loro lieto fine. C'era forse qualcosa di sbagliato in

lui? "Ma no, Seth. Non hai nulla che non funzioni. Non ci riuscirà ancora per molto. Lo so per esperienza: è così bello e perfetto che finirà

per cedere. " Seth aveva fissato la faccia deturpata di Emily. " Tu credi? ", aveva chiesto ansioso. " Non  potrà farne a meno, a prescindere

da cosa dovrà sacrificare. ", aveva risposto lei, e Seth aveva creduto di sentire una traccia di tristezza nella voce dolce.


 
Per qualche ragione, la cosa che Niamh ricordava meglio dopo Seth era il viso di Emily. Aldilà delle cicatrici, comunque indimenticabili,

c'era qualcosa in lei che non poteva lasciarsi alle spalle. Era qualcosa che veniva da dentro di lei, una sorta di consapevolezza, che l'aveva

impressionata molto. Emily, col suo temperamento tranquillo e allo stesso tempo attivo nonostante la gravidanza avanzata, così diversa da

 lei, era quella con cui aveva legato di più. Quando non era con Seth – ogni volta che lui spariva per le sue misteriose uscite – si accampava

da Emily, che, forse per la sua indole materna, non sembrava mai essere sola: c'era sempre una delle ragazze, la timida Kim, la vulcanica

Rachel, la piccola Claire, la sospettosa Sue che tanto somigliava a sua figlia Leah. Ricordava che una sera, quando i ragazzi erano fuori

chissà dove nella tormenta a fare chissà che cosa, si erano sedute tutte nel suo salotto accogliente, con delle birre in mano – eccezion fatta

per la padrona di casa, sia ben chiaro – a parlare del più e del meno mentre Claire dormiva nella stanza accanto. Non sapeva come, ma

ogni argomento finiva per cadere sui ragazzi. Niamh aveva notato una cosa che allora non aveva avuto senso: la comunanza di sentimenti

che tutte loro parevano provare per quegli assenti giustificati. Era stato come fare parte di una sorellanza non ufficiale, come se tutte in

qualche modo sapessero. Cosa, non ne aveva idea. La conversazione era leggera e frizzante, ed in breve era riuscita a scolarsi due o tre

bottiglie di birra senza neanche accorgersene, lei che ne reggeva a malapena un sorso; fatto stava che, ad un certo punto della serata, si

era ritrovata in piedi sul tavolo di cucina, una bottiglia in mano a mo' di microfono, che cantava a squarciagola, memore dei suoi giorni di

gloria in un pub di New York:  “New York, I love you  but you're bringing me down”, mezzo cantava e mezzo singhiozzava, “ Like a rat in

a cage, pulling minimum wage, New York, I love you  but you're bringing me down”. Era andata avanti per un  po', tra gli applausi brilli

delle sue compagne, certa col senno di poi, di essere somigliata ad un gatto ubriaco. Poi, il vuoto. La mattina dopo l'aveva sorpresa

allungata sul letto di Seth, con una coperta addosso,  un'emicrania da far paura e neanche un ricordo della fine della serata.



Quando glielo aveva chiesto, Seth aveva riempito il vuoto come aveva potuto: le aveva detto di averla trovata barcollante e nel bel mezzo

di una canzone ridicola in piedi sul tavolo di Emily; le aveva detto di averla raccolta, nonostante le sue vive proteste, e di averla portata a

casa sua, più vicina dell'appartamento di Niamh; le aveva detto di averla scaricata sul letto – aggiungendo che pesava troppo, per i suoi

gusti, e che avrebbe fatto meglio a mettersi a dieta – e di aver dormito sul divano come un sasso. Era stanco, le aveva detto. E Niamh si

era accontentata di quella spiegazione. Eppure, c'era tanto che non le aveva detto: ad esempio, aveva volutamente tralasciato il particolare

che quella sera era stata una delle più belle della sua vita. Quello che le aveva raccontato era vero, in tutta la sua ridicolezza: il branco

aveva sentito il suo piccolo concerto da lontano. Quando avevano fatto il loro ingresso in casa di Sam erano passati del tutto inosservati,

dato che l'attenzione delle ragazze era totalmente concentrata su Niamh, che incitavano con un tifo da stadio; era stata  Niamh a notarli e ,

tra una strofa e l'altra, aveva fatto un elegante inchino, suscitando l'ilarità di Paul. " Sarà il caso che tu la faccia scendere. ", gli aveva

consigliato Emily, l'unica donna adulta sobria della casa, con tatto. E lì erano iniziati i problemi: al momento di scendere dal tavolo, la

ragazza era così traballante che Seth si era domandato come aveva fatto a salire in primo luogo. Si era trovato in imbarazzo come mai

prima, lui che l'imbarazzo lo conosceva solo di nome: mentre cercava un modo conveniente di farla scendere senza toccare punti strategici

– cosa che senza il suo permesso non avrebbe mai fatto – Niamh aveva riso per tutto il tempo.  Alla fine aveva avuto successo. Con un

ultimo “ciaaaooo” da parte di Niamh, era riuscito ad imboccare la via di casa. " Vuoi che ti porti all'appartamento? ", aveva domandato, con

 poche speranze di ricevere una risposta coerente. " Noo, sono troppo ubriaca. ", aveva affermato lei, allegra. Seth aveva sollevato un

sopracciglio: " Ma si può sapere quanto hai bevuto? " Niamh ci aveva pensato un po' su: " Mah. Due o tre sorsi... da due o tre bottiglie. "

Seth aveva sospirato. Infine, non senza un certo sforzo, erano approdati a casa sua. I suoi tentativi di aprire la porta erano stati

accompagnati dalle risatine irrequiete della sua bella. " Non cercherai di approfittare di me, no? ", aveva chiesto ad un certo punto Niamh

con falsa preoccupazione. Si era guadagnata uno sguardo severo: " Tu ci scherzi, ma sei fortunata: cosa sarebbe successo se fossi stato

qualcun altro? " Negli occhi chiari di lei era apparso un barlume di consapevolezza: gli era sembrata quasi sobria. " So che sono fortunata

ad averti. Grazie, Seth. Di tutto. ", gli aveva detto seria, appoggiando la testa sul suo petto. " Sei così caldo... non c'è nessuno più caldo di te.

" Seth aveva sentito il sangue bollire sotto la pelle. Quella notte l'aveva passata sdraiato accanto a lei, guardandola dormire, un braccio

attorno alle sue spalle esili. Non voleva sentisse freddo; se l'avesse lasciato fare, non l'avrebbe sentito mai più.     


Emily aveva avuto ragione. Ogni giorno di quell'inverno che scivolava via andava peggio. Ogni ora, ogni minuto, ogni secondo. Bastava che

Seth fosse nella stanza per farla sentire disgustosamente felice. O disgustosamente triste, ogniqualvolta vedeva un'ombra nei suoi occhi.

Occhi che, ormai aveva capito, potevano strappare segreti alle anime più oscure. E in poco tempo, Seth era arrivato a conoscerla più di

chiunque altro. Quello che era più sorprendente era che a lei era capitato lo stesso: sapeva tutto. Tutto: che quando era caduto, a cinque

anni, aveva rischiato di tagliarsi la lingua; che quando era perplesso sollevava il sopracciglio sinistro – solo quello; che suo padre faceva la

miglior frittura della riserva; che era felice che sua madre avesse scelto il migliore amico di suo padre per rifarsi una vita; che la persona

che ammirava di più era Jacob Black, il ragazzo della foto in cucina; che avrebbe dato la vita per i suoi amici; che voleva bene a sua sorella

nonostante fosse, a suo dire, la più grande rompipalle sulla faccia del creato. Sapeva tutto questo, e non aveva avuto bisogno di chiederlo.

Eppure, lo aveva sentito, c'era un pezzo mancante nel puzzle verde muschio della vita di Seth Clearwater. Non aveva capito cosa, non

subito – e mai avrebbe potuto lontanamente immaginare la realtà. Ma, come tutte le cose, la verità non rimaneva mai sepolta al lungo:

tendeva a saltare fuori ai momenti meno opportuni. Per la precisione, nel suo caso, si era trattato di un'apparentemente innocua gita nei

boschi attorno alla riserva. Niamh ricordava di aver camminato per ore: i suoi poveri piedi gridavano di dolore, la sua schiena era a pezzi.

Però aveva fatto delle foto spettacolari. Persino Seth, che di solito osservava la sua macchina come fosse un congegno alieno, si era

improvvisato fotografo: l'aveva fatta mettere in posa e aveva premuto il tasto  “scatta” una quantità imprecisata di trilioni di volte. Chissà

se le aveva finito il rullino, si chiedeva, seduta su una pietra mentre stiracchiava le dita intirizzite. Sola. Si sentiva sempre tanto sola

quando Seth non c'era, anche se era a pochi passi da lei, come in quel momento: era andato a prendere legna per il fuoco. Sarebbero

rimasti lì ancora per un po'. Ancora per un po', aveva pensato tristemente, prima di partire per il suo lungo viaggio. L'inverno era agli

sgoccioli: presto sarebbe stato il momento di andare. Però non voleva pensarci, non allora: quel giorno era tutto per loro. Lo schiocco secco

di una ramo l'aveva distratta: quando aveva alzato gli occhi da terra ci aveva messo qualche attimo a registrare la presenza dell'enorme

bestione che grugniva piano con gli occhi fissi su di lei. Avrebbe ricordato quella sensazione per sempre: il sangue che defluiva dal viso, il

panico che scorreva gelido giù per la spina dorsale. Non aveva mosso un muscolo mentre l'orso, apparentemente svegliatosi in anticipo dal

letargo, avanzava verso di lei, con un brontolio basso. Aveva provato disperatamente a ricordare come doveva comportarsi, ma il suo

cervello  era  sconvenientemente privo di nozioni al riguardo. Cerca di mantenere la calma, si era detta, scivolando giù dalla pietra,

cominciando a indietreggiare. Non fare movimenti bruschi. Già. Aveva appena formulato quel pensiero che era finita su un residuo di erba

innevata, cadendo immediatamente per terra con un urlo strozzato. L'orso era parso non gradire: Niamh l'aveva visto muoversi verso di

lei, ondeggiando, sempre più vicino, tanto vicino da sentirne il fiato; l'aveva visto sollevare la zampa enorme su di lei; aveva sentito la

carne del braccio che si lacerava senza rumore. Il dolore era stato devastante: un gemito di sofferenza le era uscito dalle labbra. Un gemito

che si era mescolato ad uno più lungo, animalesco, non suo: il verso di un animale.

Il verso di un lupo enorme, aveva riconosciuto stordita, mentre sentiva colare via da sé il sangue, lo sentiva scivolare sulla pelle,

impregnare la stoffa. L'enorme lupo color sabbia, spuntato chissà da dove nella boscaglia si era lanciato contro l'orso, di cui eguagliava la

mole, con un ringhio rabbioso. Niamh li aveva guardati lottare, stranamente distaccata: sentiva tanto, tanto freddo. Quando aveva avuto

una visione più chiara delle cose, l'orso non c'era più: c'era solo il lupo enorme che la guardava, ed i suoi occhi avevano espresso un panico

e  una paura quasi umani. Quel lupo l'aveva guardata con gli occhi di Seth. Forse stava delirando per il dolore, ma aveva visto chiaramente

 il miracolo che si era compiuto di fronte ai suoi occhi: il lupo che si contorceva, il pelo che si ritirava nella pelle, il collo che rimpiccioliva; gli

artigli divenivano dita umane, olivastre e sporche di grasso. Solo gli occhi erano rimasti gli stessi, neri, neri e lucenti di lacrime. " Niamh!

Niamh, ti prego! " E poi era diventato tutto buio.



Seth si passò una mano tra i capelli corti: non avrebbe mai potuto dimenticare le ore passate seduto nella sala d'aspetto. Da lupo aveva

chiamato Sam ed il suo branco, più per conforto che per altro: erano venuti subito, con Emily alle calcagna. Non avrebbe saputo descrivere

 come si sentiva: era come se ad essere ferito fosse stato lui; avrebbe voluto che fosse così. Tutto era meglio che veder soffrire lei. Tutto.

Né avrebbe potuto esprimere a parole la sensazione di calore che aveva provato quando aveva saputo che sarebbe stata bene. Era entrato

subito nella piccola stanza asettica e si era sentito morire dentro alla vista del bendaggio che le fasciava il braccio. La cicatrice sarebbe

rimasta per sempre, aveva detto il dottore. Il suo viso era ancora pallido per la perdita di sangue: le avevano fatto delle trasfusioni ed il

suo odore ne risentiva. L'aveva vegliata per ore; poi, quando aveva visto che si stava svegliando, le ciglia chiare che tremavano sulle

guance esangui, era uscito dalla stanza.



Non l'aveva trovato con lei, al suo risveglio. Al suo posto, dove l'aveva visto nei vaghi attimi di lucidità, sedeva Emily, lo sguardo

preoccupato fisso su di lei. " Non dovresti stancarti tanto, sai? ", aveva biascicato, ancora intontita dai sedativi. Per la prima volta aveva

visto la rabbia nei suoi occhi gentili: " E tu non dovresti farmi prendere questi colpi. " Con uno sforzo sovrumano, Niamh si era guardata 

intorno: " Seth? " Lo  sguardo di Emily si era rattristato: " E' stato qui fino a poco tempo fa. " Niamh aveva sentito il cocente schiaffo della

delusione: " Oh. " Erano rimaste in silenzio a lungo: Emily non le aveva chiesto nulla. Si era limitata a guardarla con i suoi occhi penetranti

e consapevoli. Il cervello di Niamh stava lentamente processando i suoi ricordi dell'accaduto: l'orso, la ferita e... il lupo. Il lupo enorme...

Seth era il lupo. Aveva sentito gli occhi farsi enormi, mentre cercava di scattare a sedere, provocandosi un dolore lancinante al braccio nel

processo. Tra le braccia di Emily che l'aveva afferrata, si era ritrovata le guance bagnate di lacrime: " Emily ", aveva sussurrato piano

incredula, " io... io credo di essere diventata  pazza, sai? " " Pazza? ", aveva incalzato lei gentilmente. Così, Niamh aveva vuotato il sacco:

per sentirsi dire che non poteva essere vero o per avere risposte, non lo sapeva. Ma Emily non l'aveva rassicurata, né l'aveva giudicata

fuori di senno. " Così l'hai visto. ", si era limitata a dire. " Co...? Vuoi dire che era... vero? " La ragazza più grande aveva annuito solenne. E

le aveva raccontato tutto. Tutto. Ogni cosa che ancora non sapeva sul conto di Seth: la verità nelle antiche leggende, i vampiri e i

licantropi, guerre, lotte che le erano parse più una favola che la realtà. E poi le aveva detto dell'imprinting. " Imprinting... cosa?! Mi... mi

stai dicendo che, a causa di una legge non meglio identificata, io sono obbligata ad adorare la terra su cui cammina e viceversa? ", le aveva

chiesto con tanto d'occhi: Tutto quello che provava... tutto quell'affetto, quell'amore, quel bisogno bruciante, lo sentiva solo a causa di una

mitica leggenda miracolosamente diventata realtà? Non... non c'era nulla di vero, era solo una costrizione?  Emily aveva corrugato la

fronte: " Non sei costretta. Tu puoi provare a negarlo. Forse che questi sentimenti ti sono sgraditi? Sa il cielo quanto avrei voluto che lo

fossero, quando si è trattato di Sam e di me. Questo mio amore, che ancora mi da felicità senza limiti, ha quasi distrutto una delle persone

che amavo di più, sai? " aveva detto amara. No, aveva pensato Niamh. Non le erano sgraditi, come avrebbero potuto? Seth era la cosa più

bella che le fosse mai capitata, stare con lui era facile come respirare. Però, non aveva potuto evitare di percepire il sapore amaro di un

legame per cui lei non aveva possibilità di scelta. Legami, legami legami: allora le era parso di trovarsi in una gabbia. La più bella

immaginabile, vero, ma pur sempre una gabbia. E lei, lo sapeva per esperienza, non era brava a gestire le gabbie: era un uccello

viaggiatore, e distruggeva il cuore di coloro che lasciava per la sua sete di libertà. No, si era detta, sdraiata su quel letto d'ospedale. Le

gabbie non facevano per lei. E adesso non doveva più pensare solo a se stessa.




Glielo aveva detto sulla spiaggia della riserva, appena era uscita dall'ospedale. Seth aveva mangiato con gli occhi la sua immagine: sapeva

che l'addio era vicino. Tutto di lei glielo diceva: lo sguardo sofferente, la bocca piegata all'ingiù, il viso cereo. La macchina parcheggiata,

carica di bagagli " Stai partendo. ", aveva osservato. Non era una domanda. " Sì. ", si era limitata a dire. " E' per quello che sono? " Niamh

ci aveva pensato un momento: " No. ", aveva decretato infine. " No. E' perché tutto questo è... decisamente troppo grande per me.

Guardami: sono qui, di fronte ad un meccanico che si trasforma in un lupo enorme e non faccio una piega. A condizioni normali, sarei già in

viaggio da molto. ", aveva tentato di scherzare. Il suo sorriso era curiosamente simile ad una smorfia di dolore. " Ti sembrerà ipocrita e

crudele da parte mia, ma credimi se ti dico che lo faccio per noi. Fammi parlare. " Aveva teso una mano tra di loro. " Io ti conosco, Seth. Ti

conosco meglio di quanto conosca me stessa, e so che tu non potresti mai venire via con me. Tu... ami la tua vita, ed io non ti chiedo di

lasciarla. Non posso. " " Io lo farei. Lo farei, per te! ", aveva esclamato accorato.  Il suo labbro inferiore aveva tremato pericolosamente: "

Lo so. E so che te ne pentiresti per il resto della vita. Mi odieresti. Io non posso restare e tu non puoi partire: non c'è soluzione. "



L'aveva baciato. Aveva voluto solo un ultimo ricordo da custodire, per il resto della vita. E lo avrebbe fatto: non avrebbe mai potuto

dimenticare, né descrivere il senso di completezza, di unione perfetta che aveva percepito. Per la prima volta da quando era saltata in

macchina, due anni prima, abbandonando la sua casa, aveva pianto fino a prosciugarsi. Se ne era andata, e se ne era pentita ogni secondo,

minuto, ora, giorno di quel mese di lontananza. Aveva visto il vuoto, come se il braccio sinistro fosse staccato dal corpo invece che ferito.

Aveva sentito la disperazione mentre pregava con ogni fibra del suo essere che Seth non stesse allo stesso modo, pur senza troppa

speranza.  Una sera, aveva preso in mano il telefono dell'hotel. Per la prima volta dopo due anni, aveva composto il numero di casa:

"Pronto? ", aveva chiesto incerta la voce di sua madre, così come la ricordava. " Ho una domanda per te, mamma. " Il silenzio si era

protratto a lungo dall'altro lato della cornetta : " Dimmi. " " Cosa fanno gli uccelli migratori alla fine dell'inverno? " " Tesoro mio, ma è

ovvio: tornano al loro nido. ", le aveva risposto con un singhiozzo nella voce. Già. Gli uccelli tornavano al nido. E lei, lo vedeva alla luce dei

fari del suo macinino scassato, era appena arrivata al suo.



Quante volte ancora avrebbe creduto di sentire il motore della macchina di Niamh, si chiese Seth sull'orlo della disperazione? Aveva fatto

come gli aveva detto: non l'aveva cercata. Se era quello che voleva lo avrebbe avuto, a costo di morire. Ma allora perché, perché non

poteva almeno dimenticare? Era sempre a pezzi, ogni giorno era uguale all'altro. Cliente, dopo cliente, dopo cliente: anche a quell'ora tarda

ne stava arrivando uno, a giudicare dai passi che sentiva. La porta si aprì con il solito cigolio: un odore umano invase l'aria. Il suo odore.

Seth non voleva voltarsi: sentiva che se lo avesse fatto, tutto sarebbe scomparso. Eppure, il desiderio era troppo irrefrenabile. E la trovò lì,

la sua Niamh, i capelli raccolti in una treccia sfatta, il viso stanco, gli occhi cerchiati da occhiaie scure. La donna dei suoi sogni era lì, di

fronte ai suoi occhi e l'unica cosa che gli uscì dalla bocca fu un incerto : " Problemi  con la macchina? " Niamh - o il suo ologramma: non era

del tutto sicuro – sorrise . " Una mano mi farebbe comodo. " Si avvicinò a lei, senza osare toccarla. Non poteva essere reale. " Sei...? " "

Una povera stupida, già. ", disse, poggiandogli la testa sul petto. " Sono così irresistibile? ", le domandò, ora che sapeva di non essere del

tutto partito di testa. " Ovvio. Il tuo charme è quello che più apprezzo di te. " " Perché sei tornata? ", incalzò, seriamente stavolta. Niamh

rispose col suo famigerato sorriso storto: " Sai cosa fanno gli uccelli migratori alla fine dell'inverno? " Seth scosse la testa, confuso: che

c'entravano gli uccelli? " Tornano al nido. In effetti, ho finalmente capito che la libertà non conta niente, se non hai un nido dove tornare. E

mi dispiace per te, ma sembra che tu sia il mio.", concluse, " Se c'è ancora spazio per me. " Seth l'abbracciò strettamente, come se potesse

scivolare via di nuovo: " Non è che abbia molta scelta ", mormorò tra i suoi capelli, " la qual cosa non mi dispiace affatto. "









Fin

   
 
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