DA
TEMPO AVEVO
IN MENTE QUESTA STORIA, MA SOLO DOPO AVER STUDIATO QUALCHE CANTO DI
DANTE MI
SONO DECISA. E’ LA PRIMA STORIA ORIGINALE CHE PUBBLICO, E
SPERO TANTISSIMO CHE
POSSA PIACERVI.
RINGRAZIO
DI
CUORE LA MIA DOLCISSIMA BETA, MAKIRI,
CHE
CERCA IN OGNI MODO DI SPRONARMI A SCRIVERE E MI AIUTA A CRESCERE
STILISTICAMENTE PARLANDO. TI VOGLIO BENE! QUESTO PRIMO CAPITOLO LO
DEDICO A TE
ç___ç !!
SPERO
NATURALMENTE
NEI VOSTRI COMMENTI, PER CAPIRE SE VI PIACE O NO, SE LA TROVATE BANALE
O
ALTRO.. INSOMMA, RECENSITE! NE SAREI FELICISSIMA!
BUONA
LETTURA
CARI! CIAO!
L’Umana
Commedia
Capitolo
1
Sono
stato condannato all’inferno all’età di
appena
ventitre anni; ero incosciente di ciò che facevo, non badavo
alle conseguenze,
perché la mia immaturità mi aveva oscurato la
vista.
Da
allora sono cresciuto, perché il mio modo di
essere attuale me lo ha imposto, ma io ho accettato. Perché,
secondo me, il
primo passo verso la maturità è saper accettare
le conseguenze di una propria
azione.
Alla
fine accettai tutto, arrabbiandomi non più col
fato o con quel Dio di cui tutti parlano, ma con me stesso.
Da
quando fui condannato a servire l’inferno per
l’eternità sono passati vite intere: 600 anni
precisi quest’oggi.
Nel
giorno di San Silvestro (31 dicembre) 1410
commisi il mio ultimo peccato da umano, poiché durante
quella stessa notte
venni ucciso barbaramente dai miei amici, ubriachi come mai nessuno. Eh
già,
miei cari, venni tradito da chi era per me come un fratello, spinto a
una tale
follia dal prediletto del dio Bacco, il vino.
Mai
vidi tanta follia negli occhi di un uomo, e
quella stessa la ritrovai solamente negli ultimi gironi
dell’Inferno.
Mi
annoia però parlare di quella notte, poiché
è
passato talmente tanto tempo che non me ne curo quasi più.
Piuttosto vorrei
raccontarvi di ciò che accadde dopo che le spade mi ebbero
trafitto.
Mi
addormentai, il dolore quasi non si sentiva più;
mi risvegliai che sudavo. Dov’ero faceva caldo, un caldo
torrido che seccava
dentro.
Boccheggiai
ripetutamente in segno di voler bere,
per alleviare la bruciante aridità che aveva catturato
crudelmente la mia gola.
Sentii
delle risate, delle urla disumane che avevano
tutta l’aria di canzonarmi, per cui mi spaventai, arretrando
di qualche
centimetro.
Ero
ancora seduto quando qualcosa mi prese per i
miei lunghi capelli e me li tirò coll’intenzione
di farmi alzare. Acconsentii
al suo volere, mandandolo a quel paese. Mi arrivò un calcio
da dietro, proprio sull’osso
sacro, così mi ritrovai di nuovo a terra, con la faccia
parallela alla roccia
ruvida e innaturalmente calda. Imprecai un paio di volte, maledicendo
un paio
di Santi: mi succedeva spesso di bestemmiare se qualcosa mi turbava.
Sarebbe
stato meglio se quella volta mi fossi trattenuto: ma io cosa ne potevo
sapere?
Un
altro calcio mi colpì senza pietà sul fianco
sinistro, facendomi letteralmente girare su me stesso.
Tossii
e mi tenni il fianco con le mani, maledicendo
mentalmente lo sconosciuto aggressore.
Solo
allora mi guardai intorno, per capire in quale
dannato posto fossi finito: era spettrale.
Era
come un’alta caverna scura, di cui non si vedeva
il tetto, e nemmeno le colonne che lo avrebbero dovuto sorreggere;
tutto era
illuminato come da fioche lampade di un fuoco innaturale, che andavano
sulle
sfumature di un blu quasi azzurro, conferendo alla
mostruosità (perché quello
era, ed è tuttora) un effetto luminescente.
Mi
spaventai ancora di più appena vidi in faccia chi
mi aveva appena picchiato, e chi era seduto poco dietro
quest’essere. Il primo
era nudo e completamente rosso, tutto grinzoso e ripiegato su se
stesso. Aveva
una forte gobba attraversata da vene pulsanti, e la faccia,
quell’orrenda
faccia, era il tripudio dell’orrore: occhi
all’infuori, completamente neri, con
la cornea larga un paio di millimetri appena visibile; per naso aveva
solo due
buchi, identici a quelli che si trovavano ai lati del volto, come
orecchie; la
bocca era grandissima, spropositata con labbra livide e denti
acuminati, marci
e lunghi 10 centimetri come minimo.
Era
una bestia orrenda, e quel suo ghigno famelico
mi aveva terrorizzato; eppure rimasi lì dov’ero,
senza scappare verso un’immaginaria
via di fuga.
Girai
lo sguardo quindi verso l’altro bestione, che
vidi adagiato mollemente su uno spazio a forma quasi di letto, fatto
però
interamente da dure rocce.
Era
grosso, all’incirca due metri abbondanti, l’aria
da severo giudice conferiva ulteriore terrore a quello che
già si poteva
provare ammirando il suo corpo color vermiglio, fatto di qualcosa che
si poteva
identificare come squame, e delle grandi corna che gli incorniciavano
quel suo
gretto e astioso volto.
-
Alzati – mi ordinò lo stesso con voce grave.
Obbedii senza discutere e senza bestemmiare.
Nel
frattempo mi accorsi che oltre a noi tre c’erano
un centinaio di quei cosi uguali all’essere che mi aveva
malmenato, solo più
piccoli.
-
Sai almeno dove ti trovi? – mi chiese.
Non
avendo voce feci cenno di no con la testa.
-
Piccolo ed effimero essere. Sei all’Inferno! –.
Sbarrai
gli occhi, incredulo di una tale assurdità.
Iniziai a ridere in modo isterico. Era tutto troppo reale e nitido per
poter
essere un’illusione.
L’essere
però non gradì la mia reazione, per cui mi
frustò con qualcosa di innaturalmente bollente, che mi
ferì il volto senza
pietà.
Urlai
di dolore, e caddi all’indietro per il colpo.
Avevo delle terrificanti fitte al volto, e anche sul petto e
sull’addome;
gemevo senza controllo per quanto stava bruciando.
-
Spero che così tu possa capire come ci si comporta
in mia presenza – minacciò ancora la bestia.
-
Voglio essere clemente con te: ti spiegherò un po’
cosa sta succedendo. Prendilo come regalo di benvenuto! Allora:
naturalmente
credo che tu capisca anche da solo che non sei stato quello che si
può definire
un “angelo” quando ne avevi la
possibilità. Per questo, quando sei morto, sei
finito qui. Di norma saresti dovuto diventare come quei sudici
scarafaggi che
vedi... su, andiamo, non fare quella faccia! Non scherzo quando dico
che questi
“mostri” (che a quanto pare non apprezzi
particolarmente), erano degli umani
proprio come te. Ma sai com’è: è la
vita, e loro se la sono giocata male. Come
te. Eppure devo ammettere che sei un tipetto alquanto fortunato: si
è appena
liberato un posto come Governatore d’anime, e credo che tu
possa andare bene.
Ho notato che sei intelligente, a differenza della maggior parte della
feccia
che si trova qui, per cui ho pensato che saresti tornato utile. I
Governatori
d’anime sono coloro che voi rozzamente chiamate
“Mietitori d’anime”...
probabilmente perché ve li immaginate con la falce... Ci
siete andati quasi
vicini, ma non è così. Certo, una falce acuminata
può incutere terrore, ma una
spada è più maneggevole, non trovi? –.
Per
tutto il tempo non avevo parlato, non mi ero
nemmeno permesso di lamentarmi troppo per il dolore, perché avevo paura
di lui.
-
Comunque, –, continuò dopo una breve pausa
– ti
affido il compito di tornare tra i vivi, per traghettare le anime che
lasciano
i propri corpi, fino a me. Che ne dici? Di certo non hai scelta, sono
io che
decido – e rise di una risata che non aveva nulla di
divertente.
Mi
sentivo debole, stremato, bruciante, confuso e
terrorizzato.
-
Visto che non ti sei lamentato troppo, ti dico
anche cosa ne sarà di te: nessuno ti potrà
vedere, a parte noi e le anime che
traghetterai; ma quando ti guarderanno, vedranno solo il tuo scheletro
coperto
a tratti dalla tua carne umana. Nessuno potrà mai vedere chi
eri. E ora preparati, non vedo
l’ora di
poterti trasformare –.
Non
capivo più nulla, non riuscivo a credere
veramente a quello che stavo sentendo. Non poteva essere vero! Eppure
il dolore
della recente ferita ancora si faceva sentire...
Poi
a un tratto vidi la mostruosità alzarsi da
quello che poteva essere definito un trono, per frustare
così un paio di volte
l’aria.
Ebbi
un orribile presentimento.
-
Cominciamo – sussurrò con un ghigno.
Alzò
il braccio muscoloso e abbatté il colpo sul mio
povero corpo.
Urlai
dal dolore e tutto ormai si stava concentrando
su quelle orribili fitte che mi attraversavano. Ma non ebbi nemmeno il
tempo di
rendermi conto dove mi avesse
colpito, che subito un’altra frustata mi dilaniò
la carne.
Urlai,
mi contorsi dal dolore, cercai un appiglio
nelle vicinanze, qualcosa da poter stringere tra le mani, per farmi
sentire
“vivo”. Ma non riuscivo a muovermi, non riuscivo a
ragionare. Ero perso. Perso
in quel vortice fatto di strazio.
Mano
a mano sentivo la carne che letteralmente si
staccava dal mio corpo, liberando intorno a me un’enorme
pozza di sangue.
Ero
disperato, invocavo la morte come mai avrei
pensato di fare.
Poi
mi resi conto che io ero già morto, che nulla
avrebbe potuto darmi sollievo.
Ad
un certo punto lui smise di flagellarmi,
lanciandomi un ampio mantello nero che mi coprì in parte.
Quella
cappa scura rappresentava il mio futuro: una
buia landa desolata, fatta di terrore, disperazione e dolore.
Sarebbe
stato così per sempre, e niente e nessuno mi
avrebbe salvato, facendomi rivivere.
Almeno
così credevo fino ad oggi: 10 gennaio 2010.