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Autore: nainai    09/03/2010    2 recensioni
Anche se le battute acide rimasero solo in sospensione tra loro, entrambi le avvertirono con la stessa ferocia e giunsero alla stessa conclusione circa l'opportunità che quell'incontro casuale non si fosse mai verificato. Ma il caso è un gioco che non scegli.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Brian Molko, Stefan Osdal, Steve Forrest, Steve Hewitt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I'm coming up for air
Attenzione: il presente scritto ha come protagonisti persone realmente esistenti e vicende di pura fantasia. Non vi è alcuna pretesa di verità o verosimiglianza. Nessun diritto legalmente tutelato s’intende leso. Nessuno scopo di lucro. Nessun intento di offesa nei confronti dei soggetti citati. Tutti i diritti riservati spettano ai loro titolari.

Partecipante al "Dodici Mesi di Fedeltà" Contest
 
Oh! come è diventato difficile fare la scrittrice! Però è sempre bello riempirsi la bocca di termini inappropriati!
Note dell’autrice in fondo alla pagina.
Con affetto.
Vostra Nai…
 
Dedicata ad Erisachan e Keiko.
Loro sanno perché.
 
 
I’m coming up for air…
 
 
Nella vetrina il suo riflesso non aveva colore. Il viso era stanco lo stesso, però, stanco e tirato come se fossero giorni che non dormiva o mangiava decentemente.
Beh, il problema non era quello. Non gli mancava il sonno, non gli mancava l’appetito e sua moglie era sempre stata brava e pronta a farlo sentire come un re quando a casa lo coccolava di ritorno da viaggi lunghi mesi.
Quello che mancava al riflesso traslucido nel vetro era ciò che stava dall’altra parte della vetrina. Sopra uno scaffale. Insieme a nove piccole scatole tutte simili tra loro...per la precisione proprio sopra il numero “4” segnato in rosso su un cartellino di cartone spesso. Non era una gran cosa, quella che gli mancava, era solo una piccola confezione quadrata, blu, con l’immagine di un’eclissi in nero ed un titolo in bianco.
 
I’m coming up for air.
 
E pensare, si disse Steve Hewitt sorridendo, che era un pezzo che non arrivavano così in alto nelle classifiche di vendita inglesi.
Mani nelle tasche, cappello calato sugli occhi, si voltò per tornare lungo la strada che aveva già percorso.
***
Brian respirava. Non era una cosa da poco e questo comportava che gli desse molto fastidio il fatto che tutti, lì intorno, fossero certi del contrario e gli rendessero l’operazione immensamente più complicata. Sì che lui ci si era messo d’impegno ad ignorarli, peraltro; seduto nel suo angolo, in aeroporto, sfogliava malamente le pagine di una rivista in francese ed ogni tanto gettava occhiate raggelanti al proprio batterista, tutto preso dall’urtante attività di richiamare quanto più possibile l’attenzione su di sé con schiamazzi e risate sguaiate. All’ennesima battuta entusiasta che scappò al ragazzino, Brian non ce la fece più. Chiuse la rivista con uno scatto e la buttò sulla sedia di fianco a sé, prontamente lasciata vuota dall’intero entourage che sapeva ben interpretare le sue espressioni e capire quando era utile rispettare la “fascia di sicurezza Molko” evitando di entrare nel suo spazio vitale senza preventivo permesso scritto.
-Portalo fuori.- ordinò il cantante in tono basso, voltandosi a Stefan che gli sedeva di lato, un paio di poltroncine più giù verso l’ingresso.- Fagli fare un giro, portalo a fare pipì nelle aiuole di fronte, compragli un osso, ma levamelo da davanti o lo ammazzo e rimando il suo cadavere a pezzi a Los Angeles.- suggerì freddamente.
Stefan gli lanciò un’occhiata da sopra l’orlo dei Ray-Ban ma non disse nulla e non si mosse, aspettando che un’illuminazione divina suggerisse al cantante che tra venti minuti massimo sarebbero stati su un volo diretto in Inghilterra e che, comunque, portare Steve in giro per l’aeroporto tra fan e giornalisti a caccia di foto non sarebbe stata una buona idea visto che era visibile come una cocorita in un pollaio. L’illuminazione divina raggiunse la mente del cantante, peraltro, perché sbuffò ma non reiterò la richiesta e si limitò ad agitarsi impaziente sulla sedia mentre Steve sbraitava – in modo alquanto volgare tra l’altro – il proprio apprezzamento per le gambe di una delle hostess che stavano passando in quel momento davanti la porta a vetri della sala di attesa VIP.
-Lo ammazzo.- ribadì Brian spiccio, posando la fronte sulla mano e massaggiandosi leggermente le tempie per contrastare il mal di testa incipiente che avvertiva.
-Brian.- lo richiamò Stefan pacato, peraltro nuovamente intento alla stessa identica occupazione che lo stava impegnando prima che l’amico cercasse la sua attenzione. E cioè studiare annoiato le funzioni del proprio cellulare.
Brian gli scoccò un’occhiataccia in tralice, accavallando le gambe ed odiando tutti i divieti di fumare che colonizzavano le pareti di quel postaccio. Stefan non lo guardò, ma avvertì il suo astio nervoso con l’empatia che ormai caratterizzava ogni loro iterazione e sollevò di nuovo gli occhi, mettendo contemporaneamente via il telefono nella tasca del giubbotto di pelle.
-Rilassati.- lo rimproverò quieto come sempre.
Il cantante sbuffò, storcendo il naso in una smorfia da ragazzina annoiata e posando il mento sul palmo aperto della mano giusto per voltargli il viso e non ricambiargli lo sguardo.
-Come diavolo abbiamo fatto a prendere un moccioso nella band?!- sbottò all’improvviso, acido e velenoso come una vipera.
Stefan sospirò, sollevandosi lentamente in piedi e sistemando la giacca.
-Porto Steve a fare un giro.- concesse dopo una rapida valutazione dei pro e dei contro delle situazioni che gli si prospettavano davanti.
Brian ghignò un sorriso soddisfatto che il bassista gli avrebbe volentieri fatto rimangiare a schiaffi, ma ebbe la decenza di non dire niente e l’altro preferì ignorarlo ed avvicinarsi al proprio batterista un istante prima che quello si mettesse ad importunare un distinto signore in giacca che gli sedeva accanto e lo fissava terrorizzato già da un po’.
Brian si rilassò. Gli bastò vedere le porte a vetri richiudersi silenziose dietro i due e buona parte del fastidio che provava – e del suo mal di testa – scomparve.
Aveva le sue ragioni per essere nervoso, del resto! Cazzo, odiava dover correre da un lato all'altro del mondo a quella maniera, odiava dover passare più tempo su un aereo che con i piedi ben saldi a terra. Odiava gli aerei! La circostanza - che Alex gli aveva già fatto notare svariate volte - che fossero un male necessario per chi svolgeva un lavoro come il suo non lo sfiorava affatto; quello era uno di quei momenti in cui gli piaceva credere che «lavori come il suo» valessero esclusivamente a dargli dei diritti e nessun onere. Fatto sta che se voleva tornare in Inghilterra gli toccava salire su un aereo. Ciò pertanto, aveva tutte le sue ragioni per essere nervoso. E non volere una cocorita starnazzante attorno!
Alex rientrò nella saletta VIP girando uno sguardo circolare e sorpreso e realizzando velocemente l'assenza di buona parte della band che aveva il compito di amministrare; si concentrò sull'ultimo componente in vista e lo fissò con la propria espressione più genuinamente interrogativa.
-Oh, saranno in bagno a scambiarsi effusioni sulla tazza di un cesso.- mentì Brian disinvoltamente ed in tono flautato.
Alex sospirò, lasciò cadere la borsa sulla poltroncina di fianco al cantante ed il giubbotto su quella accanto e scoccò una seconda occhiata scettica al proprio interlocutore.In tanti anni di rispettabile carriera come manager dei Placebo aveva sviluppato una certa familiarità con la “fascia di sicurezza Molko” e gli attacchi di bile del cantante avevano smesso da un pò di intimorirla. Sapeva leggerci attraverso con una certa facilità, per la verità.
-Che diavolo hai combinato?- chiese, cercando sui visi del resto della troupe la conferma alla propria intuizione.
Brian si accigliò.
-Li ho mangiati.- scandì velenosamente.
-Brian...- iniziò la manager con pazienza.
Ma aveva decisamente superato il livello di guardia ed il bruno scattò in piedi con un movimento secco, cacciando una mano in tasca e l'altra sulla testa. Sfilò le sigarette dal giacchetto, inforcò gli occhiali da sole e svicolò a destra della donna per raggiungere a falcate larghe e nervose l'uscita della saletta.
-Ma che diavolo...?!- si lasciò scappare Alex, mani ai fianchi e sguardo fisso alla schiena rigida dell'altro, in rapido allontanamento.
 ***
A Brian Molko le ricorrenze non piacevano. Avendo avuto una vita sufficientemente complicata per gran parte della propria esistenza - e questo al di là del facile schermo che il successo, una buona dose di ricchezza ed una discreta fama possono creare tra te e la visione di te che ne hanno gli altri - non era il genere di individuo a cui piaceva vivere nei ricordi. Anzi. Anche nella musica era uno che superava le cose e tirava avanti. Aveva tirato avanti in talmente tante di quelle situazioni, risollevandosi invariabilmente ogni volta che la gente attorno a lui lo dava per spacciato, che anche le cronache in note che redigeva e pubblicava con la band gli diventavano indifferenti non appena il momento che le aveva generate scivolava abbastanza lontano da lui. Quindi decisamente non era uno che facesse troppo caso alle ricorrenze.
A volte arrivava all'assurdo di dimenticare anche il proprio compleanno, tanto che dovevano essere Helena o Stefan o Alex a rivolgergli uno squillante “Tanti auguri!” che lo lasciava interdetto finché non si girava verso il primo calendario a disposizione e realizzava che era il 10 Dicembre, un'altra volta. Del resto, non amava troppo nemmeno invecchiare e, quindi, non era particolarmente felice neppure della sollecitudine della sua compagna o dei suoi amici nel ricordargli che era un male a cui non poteva proprio mettere rimedio.
In certi casi, si era reso conto con il tempo, era lui stesso a voler dimenticare le cose, comunque. Quando doversele ricordare era oggettivamente troppo fastidioso - di “dolori” Brian Molko si rifiutava di ammetterne nella propria vita, non dava abbastanza importanza alle cose (quelle diverse da lui, s'intende) da potersi riconoscere ferito da queste - ed allora era molto più semplice rimuoverle ed impegnare la testa con altro. C'era sempre qualcosa di più urgente e più serio che non riflettere. Riflettere era un'attività da concedersi solo quando di spazio nella mente - e nello stomaco, da qualche parte - non ce n'era più a sufficienza e si doveva per forza tirare fuori qualcosa e metterlo su carta.
Tuttavia, anche se c'erano ricorrenze che non ricordava - o perché non gli interessava o perchè non voleva interessarsene - quelle arrivavano invariabilmente ogni anno. Perfino quando, come in quel caso, non erano nemmeno così distanti nel tempo da meritare una qualche celebrazione e perfino quando - come in quel caso - aspettarsi una celebrazione proprio da lui era ridicolo e vagamente pretenzioso. Fatto sta che per l'ennesima volta i suoi amici avevano manifestato in modo abbastanza evidente che un'altra ricorrenza scomoda era arrivata invariabile.
Ricorrenza, magari, era un termine un pò ampolloso.
Però era il 14 Febbraio del 2006 quando tutto era cominciato.
Aspirò il fumo. Era già da un pò che guardava dritto davanti a sè, attraverso la lente scura degli occhiali, un mondo che era dello stesso colore della cenere. Un pò come se la sigaretta bruciando si fosse portata via anche la consistenza materiale di una realtà che non riusciva ad interessarlo. Brian Molko non voleva pensare, e mentre ostinatamente svuotava la mente, erano proprio i pensieri ad accavallarsi, l'intuizione empatica del motivo per cui Alex o Stefan quel giorno non lo assecondassero come avrebbe voluto o del perchè tra i tecnici serpeggiasse quel malumore depresso e deprimente che lo irritava dal profondo. Per certi versi la stessa intuizione si spinse ancora più in là, ma Brian la fermò molto prima che potesse decifrare la matrice esatta di quell'irritazione.
Espirò il fumo in faccia ad una vetrina in cui una ragazza bruna, magrissima e strizzata in un abitino di dimensioni da bambola scompariva in mezzo ad un profluvio rosa di pupazzi di peluche, sembrava lei stessa un giocattolo fuori misura che un padre ricco avrebbe comprato per la preziosa figlioletta annoiata di ritorno da un viaggio di affari all'estero. Brian era un esperto di regali di quel tipo, avevano colorato tutta per intero la sua infanzia lussemburghese fatta di assenze del padre e di ritorni di cui perdeva in fretta la cognizione. Forse era per quello che non soffriva poi troppo a dover partire e lasciare a casa la propria donna, se lui era sopravvissuto benissimo non dubitava che suo figlio stesso avrebbe tratto giovamento da quella distanza.
-Oh Dio, pa'!- cinguettò rapida una voce al suo fianco.
Brian trasalì in modo istintivo, quel tono squillante, incerto per l'età ancora indefinita di una preadolescente, non gli riusciva abbastanza anonimo e, se pure avrebbe preferito continuare a credere che fosse solo l'abitudine a mille ed una voci tutte simili a farglielo dire, la verità era molto più scomoda. Ed anche più assurda.
Nel sopprimere sul nascere un sorriso arrabbiato, si nascose dietro la sigaretta, tenendo il viso fisso alla vetrina e cercando mentalmente la strada più veloce per una fuga dignitosa.
-Guarda com'è bello quell'orso!- continuò la voce in modo impietoso, soprattutto perchè a questo punto arrivò anche una figurina mora, dai capelli lunghi e le gambe lunghissime, a darle un viso che aveva fin troppo di familiare.
Brian sospirò, la sua rassegnazione divenne evidente ancora prima di sentire una seconda voce, calma e bassa, rispondere in tono divertito.
-Sì, Emily, è bellissimo, ma tua madre potrebbe uccidere entrambi se ci presentassimo da lei con quell'affare in braccio.
La delusione della ragazzina era così evidente mentre schiacciava il musetto infantile al vetro che Brian se ne sentì nonostante tutto intenerito e stupidamente pensò che, forse, a due anni di distanza, alle cose si potesse mettere un punto fermo e ripartire da lì.
-Non penso che questo dovrebbe davvero fermarti, Emily.- le disse sorridendo a mezzo.
Ad essere onesti non sapeva nemmeno lui cosa avesse cercato. Forse solo di instillare nella piccola la vena polemica di una rivoluzione acerba contro l'istituzione familiare. Quasi sicuramente di ricevere una qualche reazione dall'uomo alle proprie spalle.
Ma arrivò prima quella di lei. I bambini ci mettono davvero poco a dimenticare le ricorrenze, meno dei genitori in realtà.
-Brian!- esclamò sgranando gli occhi e, nonostante tutto, Brian si trovò a riflettere che somigliavano a quelli di suo padre anche nella cenere incolore che percepiva da dietro le lenti degli occhiali da sole.
Li tolse comunque.
-Ehi, principessa.- la salutò con un sorriso decisamente più sincero, piegandosi a stringerla per poterle dare un bacio sulla guancia morbida.- Come sei cresciuta, signorina!- le concesse lusinghiero.
Lei gli si appese addosso con l'entusiasmo disinteressato della sua età, strillando la propria gioia nel dondolare attaccata alle sue spalle e Brian rise, tenendola su per la vita ed assecondandola nel suo gioco.
Poi l'altro uomo si spostò nel loro campo visivo.
-Ciao, Brian.
Lui non aveva tagliato i capelli, erano lunghi come lo erano sempre stati, la stessa aria trasandata e sciatta di sempre, lo stesso sguardo spento, come se non gli importasse davvero di nulla, le mani infilate nel cappotto enorme, nessuna espressione sul viso se non un leggero fastidio ed un'attesa di cui Brian aveva difficoltà a capire il senso. Rimise a terra Emily, staccandosi gentilmente dal suo abbraccio per raddrizzarsi di fronte all'altro; la plastica di sempre, quella della convenienza, tornò a rivestire il suo sorriso ed i suoi modi con l'efficienza impeccabile di svariati anni di allenamento.
-Ciao, Steve.- ricambiò lasciando trasparire solo una punta dell'ironia con cui avrebbe preferito rivolgerglisi.
Anche se le battute acide rimasero solo in sospensione tra loro, entrambi le avvertirono con la stessa ferocia e giunsero alla stessa conclusione circa l'opportunità che quell'incontro casuale non si fosse mai verificato.
Ma il caso è un gioco che non scegli.
***
Emily si era fatta convincere in fretta. Era bastato un orso di peluche, un bacio e mille rassicurazioni sul fatto che sarebbe andato a trovarla quanto prima. Sua madre aveva fissato il marito e Brian mentre gliela restituivano, il silenzio fin troppo denso del primo e la parlantina di circostanza del secondo ripetevano uno schema che in passato le era diventato familiare. Non ci badò, accolse la figlia e recepì le raccomandazioni del compagno con la stessa tranquillità serena che aveva imparato a sfoderare davanti alle peggiori tempeste. Non era mai stato un rapporto sereno quello all'interno dei Placebo, tra Steve e Brian, non si erano mai affrontati se non su un piano di parità, ed anche prima che tutto degenerasse quel particolare da solo bastava a creare scoppi di bufera improvvisi i cui effetti si protraevano per giorni e giorni.
Loro due si erano allontanati subito dopo. Brian aveva ricambiato il saluto a mano aperta che Emily gli rivolgeva da lontano e Steve aveva storto il naso alla scena ma si era astenuto dal commentare finché l'altro non aveva riso di lui ed aveva preteso quello stesso commento. Erano già in vista del bar, Steve si mise a sedere al bancone e Brian si arrampicò sullo sgabello di fianco al suo.
-Vorrei capire come fai a farli innamorare tutti di te.- confessò il primo con forse un po’ troppa amarezza a colorare la frase.
Brian si chiese comunque se fosse una domanda, per quanto retorica, o l'ennesima critica che doveva lasciarsi scivolare addosso. Ma in fondo non è mai un bene lasciarsi scivolare addosso le parole di qualcuno di cui ci importa ancora.
-Semplice. Mento sempre.- rispose, quindi.
Steve si lasciò scappare un sorriso che non mostrava nessuna gioia e Brian si voltò ad ordinare caffè per entrambi in un francese come sempre splendido, perfino con quell'accento che di francese aveva ben poco.
-Le hai portate a Parigi per San Valentino!- riprese il cantante in tono ammirato.- Pensa, io invece sono qui il giorno del compleanno della madre di mio figlio...
-Non sei mai stato bravo con queste cose.- gli ritorse Steve senza cattiveria.
Brian annuì.
-Helena, grazie a Dio, non lo considera importante.- commentò subito dopo.
-Helena ha imparato a non considerare importante niente di quello che non poteva aspettarsi da te.- fu la battuta decisamente meno gentile che seguì quell'affermazione.
Non fosse stato per la verità intrinseca di quelle parole, probabilmente Brian avrebbe reagito in modo ben diverso dalla risata educata che si concesse e che soffocò dietro il dorso della mano nell'appoggiarsi con i gomiti al bancone. Non si preoccupò di replicare, in ogni caso.
-E voi? come va?- si sentì chiedere.
Fu un po’ il fatto che quella domanda fosse stata “sofferta” - il tempo passato tra il silenzio di Brian e l'arrivo di due caffè neri ed odorosi era stato scandito con precisione dal brusio del televisore che aveva apparentemente catturato l'attenzione di entrambi - ed un po’ il fatto che, quando arrivò, fu decisamente priva di troppe cose e decisamente piena di tante altre...un affetto neanche troppo velato ed una curiosità che non riusciva invandente per nulla. Brian ci mise un attimo a mettere a fuoco di cosa Steve gli chiedesse.
Perchè andava alla grande. I Placebo erano in vetta alle classifiche come era successo solo in passato, all'indomani di un esordio che era stato tanto musicale quanto spettacolare, avevano riconoscimenti dai fan, dai critici, dal mondo intero. Erano ovunque in un modo in cui Steve aveva sempre sperato di esserci quando ancora suonava con loro. Quindi andava alla grande ed era anche sotto gli occhi di tutti.
Per cui non era di quello che stavano parlando.
E siccome a Brian le domande scomode non piacevano nemmeno se “dall'altra parte del microfono” c'era un...amico di sempre, si ritrovò comunque a nicchiare ed a cercare di nuovo, per la seconda volta in un'unica giornata, una via di fuga da una situazione fastidiosa e decisamente troppo impegnativa.
-Il nuovo è un gran casinista.- commentò apatico prima di avvicinare il caffé alle labbra.
Steve rise e Brian seppe di essere stato scoperto. Sorridendo nel posare la tazza, si disse che era anche normale che fosse successo e non riuscì ad arrabbiarsi come avrebbe voluto.
Il 14 Febbraio del 2006 l'album stava per uscire. Cody era nato da poco e Brian era convinto che la sua storia con Helena fosse ad un passo dal solito finale tragico a cui il copione di sempre lo aveva abituato. I suoi genitori gli ripetevano in continuazione che non sarebbe mai stato davvero in grado di tenersi stretto qualcosa, di realizzare qualcosa, e si sa che alla fine, a furia di sentirti ripetere un concetto, finisci per convincerti che sia davvero così e ti arrendi alla comodità di una routine quasi imposta che il tuo subconscio adotta in automatico. Helena, per certi versi, non aveva fatto eccezione, quando il gioco era diventato troppo impegnativo, quando il suo “sono incinta” aveva preso la consistenza urlante e scalciante di un moccioso di poche ore, Brian aveva sentito con precisione quel seccante prurito alle mani che preannunciava il bisogno immediato di nicotina e quello, mediato, di aria nuova. La differenza, se c'era stata, era passata tutta per lei, per Helena, per la sua ostinazione di donna adulta e consapevole che compie le proprie scelte solo dopo averle ben ponderate. Lo sapeva, nel farsi ingravidare, di starsi infilando da sola con la testa in un cappio, quindi aveva preventivato l'idea di restarci soffocata ed aveva valutato l'opportunità di rischiare.
Fatto sta che in quel momento Brian non poteva saperlo. Tutto ciò che lui avvertiva era il bisogno di tagliare per l'ennesima volta un legame che si era fatto eccessivamente stretto ed i cui contorni non riusciva ad afferrare appieno, ed avevano un bel dire Alex o i ragazzi che era “stupendo vederlo con Cody in braccio! Brian sembra tanto felice!”, la verità era che ogni sacrosanta volta in cui qualcuno gli chiedeva di quel marmocchio lui pensava solo “e che cazzo ne so? mica mi appartiene!”.
Non erano pensieri che gli rendessero merito - fosse stato uno che del merito se ne fregava qualcosa - e cosa ben peggiore erano pensieri - ed eventi - che si innestavano su qualcos'altro. Un qualcosa che aveva preso il via già durante la stesura di “Meds” ma che tutti loro avevano voluto rimandare a quando fossero stati più tranquilli per poter valutare bene di cosa si trattasse. Ed in realtà, come inevitabilmente deve succedere in questi casi, avevano solo rimandato lo scoppio al momento in cui avrebbe fatto più danno.
Il 14 Febbraio 2006 tutte queste cose si erano concatenate assieme in un calderone in ebollizione di tensioni, che aveva accompagnato come fuochi d'artificio pronti ad esplodere l'inizio della festa di compleanno più grandiosa che la mente di un partner annoiato ed in crisi tardo-adolescenziale potesse escogitare per rendere degna gloria alla madre di suo figlio. Brian ci aveva tenuto a ribadire centinaia di volte, nel corso delle settimane precedenti, che doveva essere un party fantastico, di quelli da lasciare tutti di stucco; ci aveva tenuto a ribadire che avrebbero dovuto esserci proprio tutti e che non si sarebbe dovuto badare a spese; ci aveva tenuto a ribadire talmente tante cose che, non fosse stato lui ed Helena non fosse stata ben conscia di come fosse lui, sarebbe stato strano che poi si fosse disinteressato del tutto di vedere come le sue disposizioni venivano eseguite e la festa prendeva forma. Anche se non poteva sapere che gli splendidi orecchini di brillanti che aveva già avuto in dono erano frutto del buon gusto di Alex - un occupatissimo Brian l'aveva praticamente costretta ad andarli a comprare per lui adducendo mille ed una scuse sul mixaggio della x canzone nuova, possibile primo singolo (e poi ne avevano scelta una completamente diversa, Steve se lo ricordava ancora) - Helena era abbastanza sveglia da accogliere l'arrivo della mattina del proprio compleanno con la disillusione tipica delle donne intelligenti e da rivolgere ad un compagno che si apprestava ad uscire per andare a lavoro la raccomandazione semi-ironica di non dimenticarsi del party da lui stesso “organizzato”. Brian le aveva scoccato un'occhiata scettica da sopra una spalla e poi aveva deciso di non cogliere ed era uscito.
Fatto sta che il vecchio detto secondo cui “il buongiorno si vede dal mattino” si era rivelato vero per l'ennesima volta.
Alla festa aveva finito per prendersi una sbronza colossale. Era bastata un'allusione di troppo da parte di qualche amico, un intervento a sproposito dei suoi genitori che chiamavano per sapere come stessero Helena ed il bambino, lo sguardo un pò troppo ansioso di suo fratello che Alex aveva lasciato s'imbucasse alla festa senza chiedergli prima se avesse voglia di vederlo. Brian aveva iniziato a bere un bicchiere dietro l'altro con la consapevolezza di stare solo cercando la scusa per allontanarsi da lì. Helena era bellissima, i brillanti di Alex la facevano risplendere come fosse lei stessa un gioiello e Cody, conteso dalle braccia di baby-sitter ed amici da qualche parte nel salone, era il più bel bambino del mondo con i vestiti azzurri da principino delle favole e quegli occhioni enormi che sorridevano sempre a tutti. Lui aveva voglia di vomitare.
-Brian.- lo aveva investito a quel punto la voce di Steve, proprio mentre cercava di uscire fuori in terrazza a fumare in pace.
Si era voltato, registrando per prima cosa l'arrivo a ruota di Stefan dietro il batterista e per seconda l'occhiata di Alex dal fondo della sala, che preannunciava chiaramente anche il suo, di arrivo, a breve.
-Dobbiamo parlare.- aveva scandito Steve ignorando il resto.
Stefan era nervoso, Brian lo aveva percepito immediatamente.
-Beh, vi spiace se andiamo fuori?
Visto il plurale nella domanda, Steve si era voltato ad incrociare gli occhi dello svedese, ma non era parso particolarmente felice che fosse lì.
-Non sperare che me ne vada.- aveva affermato Stefan rapido, a togliere al batterista qualsiasi possibilità di obiezioni sul punto.
Brian aveva ritenuto il discorso chiuso ed era uscito per primo in terrazza.
***
-Questo caffé fa schifo.- Steve rimise giù la tazza con una smorfia in accordo alla frase e si voltò a guardarlo ancora.- Come mai da queste parti?- gli chiese con un'innocenza che lasciò Brian senza fiato.
Poi ragionò sul senso della domanda - che più che altro significava “sei solo o sei qui con gli altri per un concerto?” - e recepì quello che Steve non aveva detto ad alta voce: per quanto fosse informato su di loro, no, non passava il proprio tempo a leggere in internet ogni notizia utile per sapere sempre dove/cosa/perchè stessero facendo. Sorrise.
-Abbiamo avuto un paio di show ieri e l'altro ieri. Ce la stiamo prendendo comoda per tornare a casa, ma volevo arrivare entro sera per dare ad Helena il mio regalo.- confessò pianamente.
-Cosa le hai preso?
Brian ridacchiò.
-Sono rimasto sul banale.- ammise.- Gioielli...e un profumo nuovo.- scrollò le spalle come a negare alla cosa l'importanza che avrebbe meritato. In realtà sperò di prevenire una seconda battuta che potesse fare leva sulla rassegnazione di Helena alle sue cattive abitudini.
Steve però non aveva intenzione di infierire.
-Poco tempo per pensarci, eh?- gli disse invece, con quella complicità tipica di maschi «sposati» che cercano di far felici le proprie mogli incastrando questo lavoro con quello più redditizio che dà da mangiare alle loro famiglie.
Era un concetto talmente ridicolo che scoppiarono a ridere praticamente all'unisono.
-Beh, comunque...va tutto bene.- si decise a rispondere Brian, sentendosi improvvisamente meno indisposto nei confronti di un incontro scomodo organizzato da un Caso un pò troppo «attento» alle ricorrenze.
-Ci speravo- ammise Steve con un sorriso sincero.- Ve lo meritavate, tu e Stefan.
-E tu no?- si ritrovò a chiedere Brian, inopportuno come sempre. Si morse la lingua, non avrebbe voluto.
Su quella terrazza il 14 Febbraio 2006 faceva un freddo terribile. Sotto c'era Londra, c'era un multicolorato caleidoscopio fatto di luci che si riflettevano sul Tamigi e poi nel cielo, appuntandosi come stelle ad un mantello che l'inquinamento luminoso della città rendeva scuro ed uniforme anche di notte. Non c'erano più stelle nel cielo della City, c'erano solo i riflessi aritificiali sull'acqua sporca del fiume e le anime multicolori di una città che non dormiva. Brian si era appoggiato pesantemente alla balconata in pietra, alle sue spalle Stefan si era allonato di qualche passo e Steve era rimasto a presidiare una portafinestra da cui il terzetto si aspettava a momenti l'ingresso a passo di carica di una manager sull'orlo di una crisi di nervi. Alex li fiutava i “cazzi acidi” quando erano lì ad un passo dal verificarsi, nessuno di loro sperava di averla fatta franca al suo sguardo interlocutore, non sfoggiando la peggior espressione colpevole che potesse vantare nel proprio repertorio, e tutti e tre ne sfoggiavano di altamente compromettenti quella sera.
-Dobbiamo parlarne seriamente e risolvere questa storia.- aveva esordito Steve.
-L'abbiamo già risolta!- aveva scoccato Stefan sorprendo tutti, sia per la velocità sia per la velenosità con cui lo aveva fatto- L'album esce con la EMI, ricordi?!
-Sì, ma...- aveva provato ad intromettersi Steve.
-Stronzate.- aveva commentato spiccio Brian, interrompendolo con la buona grazia di sempre. Poi si era nascosto dietro sigaretta ed accendino ed aveva circostanziato altrettanto brusco- Tanto sciogliamo comunque il contratto.
-Cazzo, Brian, è una decisione che dobbiamo prendere assieme!- lo aveva aggredito Steve a quel punto. Stefan aveva annuito e Brian se n'era accorto nell'alzare il viso verso di lui in cerca di un sostegno che sapeva già che non avrebbe trovato. Aveva sbuffato il fumo, ma solo per tirare fuori dal petto la rabbia cattiva che gli cresceva dentro.- Devi piantarla con questa convinzione che sia tu e sempre tu a sapere cosa sia meglio o semplicemente giusto fare!
-Non mi pare di essermi mai sbagliato finora,- aveva cinguettato il cantante socchiudendo gli occhi in faccia all'altro con aria innocente.- e poi visto che tanto per cambiare sarà il mio culo ad andarci di mezzo...
-Spiacente di deluderti, Brian, ma questo tuo egocentrismo del cazzo ha rotto!- aveva berciato Stefan.
Se non fossero stati giorni che quel copione si ripeteva variando esclusivamente l'argomento di conversazione, Brian ci sarebbe rimasto male: non era abituato a non vedersi spalleggiato in tutto dal proprio bassista - e migliore amico - ma era qualcosa a cui si stava sforzando di fare il callo, visto che sembrava che Stefan avesse da dirgliene per tutti i precedenti quindici anni di amicizia indiscussa. Quindi non aveva reagito. Aveva incassato il colpo ed era rimasto alla porta a sentire il resto della sfuriata, con la peggior faccia tosta che potesse mettere su e con tutta la convinzione intima che era riuscito a racimolare in mezzo all'alcool che aveva trangugiato.
-Fino a prova contraria, i Placebo sono ancora una band ed è la band a rischiare un flop di proporzioni colossali!- aveva proseguito implacabile lo svedese.
Steve aveva scosso la testa con un sorriso storto sulla faccia.
-Oh, andiamo!- era sbottato acidamente.- Non prendiamoci per il culo! Non stiamo parlando dei problemi con la EMI!
-E di che cosa staremmo parlando, Steve?- lo aveva interrotto Brian atono, disinteressato nemmeno il discorso non riguardasse affatto lui.
Era stato come infilare la testa sotto l'acqua ed ostinarsi comunque a voler respirare.
***
-Sai Brian, all'inizio non credevo che ti saresti arrabbiato così tanto con me. Ed ammetto di esserne stato anche felice, per certi versi.
Era un'affermazione abbastanza strana da riuscire a strappargli uno sguardo sorpreso. Brian si era voltato a cercare di decifrare la sua espressione, ma Steve sembrava sereno mentre osservava il fondo scuro del caffè, rigirandosi lento la tazzina tra le mani. Così a lui non era rimasto che aspettare che si spiegasse.
-All'inizio di tutto...intendo dire, quando mi avete chiesto di tornare a suonare con i Placebo...tu per i primi tempi mi rivolgevi a stento la parola se non erano occasioni “pubbliche”.
Brian sorrise.
-Sì, lo ricordo!- sbuffò divertito.- Sono sempre stato un gran cafone!- confessò poi vivacemente.
Steve gli ricambiò lo sguardo ed il sorriso ma si strinse nelle spalle.
-Era quello che pensavo, e lo dissi anche a Stefan.- continuò pianamente.- E lui mi rispose che, in realtà, eri arrabbiato con me perchè vi avevo lasciati “soli”.
Non credeva che potesse risultare come una doccia fredda. Di quella storia a lui il bassista non aveva mai detto nulla, non lo sapeva neppure che Stefan lo avesse smascherato con tanta semplicità con Steve. Cercò di sembrare disinvolto mentre annuiva, fingendosi distratto, e tornava a bere da una tazzina praticamente vuota, trovando in quei gesti la scusa per non dover fornire conferme o smentite al proprio interlocutore.
A pelle avvertì che qualcosa era variato impercettibilmente, era come trovarsi ad alzare nuovamente una barriera invisibile tra sè e l'altro e sapere che è una difesa istintiva, che non si vorrebbe nemmeno attuare.
-E' stato allora che ho cercato un modo per litigare con te.- proseguì Steve, senza notare affatto quel cambiamento.
O forse intuendolo fin troppo bene, si disse Brian posando giù la porcellana con un suono leggerissimo di tazzina e piatto. Con un sospiro pesante prese atto di come dopo quindici anni fosse impossibile per una maschera mantenere una qualche integrità agli occhi di chi l'ha osservata troppo a lungo.
-Te lo ricordi per cosa abbiamo litigato la prima volta?
Steve era realmente divertito, a Brian stesso sfuggì un sorriso al ricordo di due ragazzini già in ritardo sulla vita, Emily che era una realtà appena arrivata a sconvolgere un mondo di sogni che Steve aveva costruito su basi troppo poco solide. E Brian, i suoi egoismi di allora, le sue paure di sempre, le stesse che lo portavano a tenere lontane quelle persone su cui sentiva di non poter fondare il proprio mondo...
-Alla fine ho avuto ragione io a non darti fiducia.- si sentì mormorare.
Si aspettava qualcosa, una ripresa dei vecchi rancori magari – quelli che in due anni avrebbero dovuto essere sopiti ma che ancora si risvegliavano se qualcuno, Steve, faceva tanto da mettere il dito su una ferita rimarginata male. Di sicuro non si aspettava che lui sorridesse, pacificamente, e scrollasse le spalle.
-Possiamo vederla così, sì.- gli concesse.
Mentre lo faceva Brian capì anche che non era vero, non aveva avuto ragione allora – non gli interessava neppure averla, voleva solo tenerlo ad una “distanza di comodo” che non gli facesse sembrare troppo grande il vuoto di un nuovo abbandono – e non ce l’aveva ora, nel rinfacciargli il passato prossimo che aveva portato quel vuoto quando meno se lo aspettava.
-Steve, io…- iniziò. Ma siccome non aveva mai imparato a chiedere scusa, non fece nessuna differenza neppure quella volta e le parole morirono lì dov’erano.
Era una fortuna davvero che, come aveva detto Steve per primo, le persone attorno a lui fossero come Helena, disposte a non aspettarsi niente di più di quello che lui era in grado di dare.
La mano di Steve sulla spalla lo costrinse a voltarsi. Soprattutto perché arrivò un po’ imprevista e lo sorprese, non si erano sfiorati nemmeno per sbaglio da quando si erano reincontrati ma Brian cominciava a capire che l’altro non era disposto a concedergli nessuna distanza di comodo, non dopo che tutto, almeno per lui, era stato detto e fatto e si poteva comunque restare amici. Una cosa a cui non riusciva ad abituarsi, non a ridefinire gli spazi dell’amicizia, lui era il classico tipo da “tutto e subito” e “solo a modo mio”. Lui comunque ritirò la mano senza aggiungere niente, era solo un modo gentile di dirgli che aveva capito.
-Di sicuro avremmo dovuto capirlo allora che stavamo instaurando un pessimo rapporto.- ci scherzò su- Facci caso, da quel momento è diventato il nostro modo standard di comunicare.
-Le tue paternali?!- sbuffò Brian, accennando un mezzo sorriso sghembo.
-O i tuoi capricci da prima donna.- ritorse Steve allo stesso modo.
Brian incassò con una risatina.
-Touché!- concesse facilmente, sollevando una mano in segno di resa.
-…Brian.- si sentì chiamare in tono incerto. Sollevò ancora gli occhi, per incrociare quelli di Steve e non trovarli, impegnato com’era a scavare dentro di sé quelle parole.- Mi dispiace…di non aver trovato un modo diverso per parlare con te.- confessò.
 
I'm coming up for air...
 
Brian annuì. All’altoparlante una hostess annunciò il loro volo, si ritrovò in automatico ad alzare il viso cercando il punto da cui proveniva la voce metallica della donna; quando riabbassò gli occhi Steve era tornato a guardarlo.
-Dovete andare, eh?- intuì.
-Mh.- concesse senza neppure provare con una parola più lunga ed articolata. Armeggiò con la tasca dei pantaloni per tirare fuori il portafoglio e pagare i caffè.
-È così disastroso quello nuovo?- si sentì domandare in tono leggero.
Saltò giù dallo sgabello, tirando il giaccone sul sedere ed inforcando di nuovo gli occhiali scuri.
-No, Steve. Siamo io e Stefan a non essere più abituati a stare noi due da soli.- rispose sibillino, fingendo un’ironia che non provava affatto e nascondendola dietro uno dei propri migliori sorrisi di plastica.
Allungò il passo, puntò alla sala Vip in cui aveva lasciato gli altri e, mani in tasca, non si voltò più indietro.
Il 14 Febbraio 2006 Steve Hewitt, Brian Molko e Stefan Olsdal erano in tre su una terrazza, a Londra, e sotto di loro la City intera li ignorava proseguendo il proprio viaggio verso la vita. Il loro viaggio, invece, segnava una battuta di arresto.
Mentre i passi cadenzati e rapidi di Alex si avvicinavano al vetro della portafinestra, Steve aveva guardato Brian.
-Stiamo parlando del fatto che non siamo più una band.- aveva scandito lento e triste.
E forse proprio perché lui sapeva che era vero, gli era sembrato strano vederlo una volta di più frapporsi tra sé ed Alex, voltandosi appena sentito che la porta si apriva. Era sempre stata rassicurante la schiena di Steve, dritta e solida tra lui ed i problemi…la trovava rassicurante perfino in quel momento, la voce di Alex troppo alta e stridula, arrabbiata, Steve che le diceva qualcosa che lui non capiva e quell’idea che gli rimbombava in testa, nel silenzio di Stefan, nella sua assenza fatta di una lontananza anche fisica – seduto distante, nascosto nell’ombra di un dondolo tra i rami di una pianta, dietro il fumo di una sigaretta. L’idea della fine di qualcosa, l’idea di aver raggiunto il punto ultimo e di non avere la forza…la voglia di ricominciare da lì. In tutto questo, pensare che Steve era ancora lì a fronteggiare il momento poteva essere rassicurante. Anche se adesso avrebbe dovuto imparare a farlo da solo…
Nel tornare ad immergere il viso nell’apnea traslucida della festa, Brian Molko aveva tirato un respiro profondo.
Qualcuno aveva chiesto ad Helena – a voce alta, in tono provocatorio – come riuscisse “a tollerarlo”. Lei si era voltata, lo aveva guardato, guardato davvero, e non era servito altro, a nessuno dei due, per capire che era da quel punto che si sarebbe ripartiti. Dalla luce artificiale di due orecchini di brillanti, dal silenzio di una discussione a troppe voci e dai cocci di una vita intera da reincollare.
-Beh, lo so che non è un granché!- aveva risposto lei assecondando lo scherzo e suscitando la risata cortese della sala. Poi aveva sollevato lo champagne in un brindisi immaginario di cui lui era l’unico destinatario, anche se già non lo guardava più- Che volete che vi dica,- aveva replicato la sua voce, bellissima e sicura – non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace!
***
-Papà.- si sentì chiamare. Emily tirò fuori la testa da dietro l’orso di peluche, camminando attenta per non inciampare mentre raggiungevano il taxi fermo ad aspettarli in seconda fila.- Brian è andato via?
-Sì, avevano un po’ di fretta.- le rispose, togliendole poi l’incombenza di cercare un modo per incastrare l’orso tra sé e la portiera ed aprendole lui l’auto per farla salire.- Ma non preoccuparti,- le sorrise mentre lei si sistemava sul sedile posteriore, accanto alla madre.- appena torniamo a Londra andiamo a trovarlo.- promise.- Non immagini neppure quanto fosse arrabbiato con me per non averlo fatto finora!
 
I’m coming up for air!
 
“I’m coming up for air…”
MEM
 2010
 
Angolino del perditempo:
 
Per tutti coloro che, pazientemente, han fatto la fatica di arrivare fino a qui.
 
Credo di aver partorito – dopo svariati secoli, lo ammetto – il mio personalissimo elogio funebre a ciò che l’abbandono di Steve Hewitt è stato per i fan dei Placebo. Quelli che li conoscevano “da prima”, per intenderci.
Un po’ di chiarimenti sono dovuti.
A differenza di quel che viene fuori da questa – e da altre – mia storia e che mi è già stato contestato aspramente da un lettore offeso in un diverso contesto (me ne dispiaccio, ma ritengo anche che ognuno sia libero di scrivere ciò che vuole e ciascuno di leggere ciò che gli aggrada), non odio affatto Steve Forrest (Junior, come lo chiamo scherzosamente – a volte – o più velenosamente, altre). Ho personificato in lui una tristezza che faccio fatica ad abbandonarmi alle spalle. Questa storia, in un certo qual modo, è un punto fermo sulla strada di una “guarigione”dell’anima di cu, a chi legge non credo importi alcunché (ed a ragione).
Bando alle ciance, sono tristemente consapevole del fatto che si tratta di una delle mie classiche storielle, di quelle che – correttamente – passano sotto il silenzio di una astrusità immotivata ed inconcludenza patologica che le rende aliene per i lettori. Dunque lo confesso, le scrivo per terapia personale e le pubblico per narcisismo congenito.
Spero sia stata comunque di vostro gradimento.
Nel ringraziare dell’attenzione concessa saluto voi tutti con l’affetto di sempre.
MEM
  
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