Autrice:
Silvar Tales
(sul sito) ;
Deidaradanna93 (sul forum)
Fandom
scelto: Naruto
Personaggi
principali: Deidara
; Sasori ;
Kakuzu
Genere:
Dark ;
drammatico ; horror
Rating:
giallo
Avvertimenti:
AU ; one-shot
; shonen-ai
Introduzione:
Deidara,
bimbo fragile e solo, possessore di nulla e aggrappato solamente a un
amico, a 1un orso di pezza e a un segreto; incapace di resistere al
fascino dei tortuosi meandri di una villa incantata, devastata da una
maledizione che rimane immutata nei secoli. Un'ingenuità
infantile
che perdura nella sua essenza, il vivere la verità tanto
desiderata,
il poi dimenticarla. Oblio, sogno e dura realtà si
susseguono tanto
velocemente tanto da dare alla testa, e l'innocente non si
accorgerà
mai di essere il prescelto.
Note
dell'autrice:
Flash
back: testo
in corsivo allineato
a destra ;
Voce di un narratore esterno (?): testo
in corsivo “tra
virgolette” centrato ;
Citazioni esterne: testo
in corsivo in grassetto “tra
virgolette” centrato.
Nel
racconto vengono citate alcune frasi di Thriller di Michael Jackson e
la composizione classica de Il Lago dei Cigni di Ciaikovskij.
Prompt
scelti:
Citazione:
nel sogno sei autore e non sai come finirà. (Cesare Pavese)
Parole:
luce ; neve ; litania ; urlo ; ombra ; terrore.
~ ♠ ~
“Esisteva
una regola inviolabile:
dopo lo
spettacolo di luci cremisi,
instancabile
testimone che ripeteva come una ninna nanna
le urla di
quel giorno,
nessuno ci
avrebbe messo piede.
Ma i muri
e i drappeggi che li adornavano
erano
curiosi di vedere chi sarebbe stato il prossimo
ad osare
tanto”.
Carillon
~ ♠ ~ La Villa Misteriosa ~ ♠ ~
Era attratto ogni volta da quelle finestre che riflettevano la luce del vespro, da quelle sue torri vertiginose, dai suoi cancelli maestosi e arrugginiti e dalle fontane ormai infestate dalle piante rampicanti che sorgevano fra il verde incolto del giardino.
Desiderava esplorare quella villa abbandonata, che ai suoi occhi pareva più che altro un reame fantastico e distaccato dal tempo, in ogni suo meandro.
Il loro angusto paesello era poco lontano da quel luogo fiabesco, eppure era enormemente diverso.
Deidara aveva un amico; si chiamava Sasori e lo superava di un paio d'anni.
Erano amici da sempre, molto probabilmente gli altri li avrebbero definiti d'infanzia.
Quante volte Sasori gli aveva ripetuto di non tornare in quel posto, quante volte lo aveva ammonito o spaventato con strane storie.
Eppure il più piccolo non lo vedeva affatto come un luogo malvagio, piuttosto era un giardino delle fate, un angolo di pianeta dimenticato e remoto, rimasto scolpito nel tempo.
Forse era quella strana luce soffusa e calda che inebriava ogni cosa a renderlo affascinante e mistico: una sorta di mondo a parte.
Si
fece spazio tra i rovi
e le piante urticanti, deciso a raggiungere la villa da un percorso
alternativo.
Gli piaceva scoprire nuovi
sentieri, i quali poi tracciava con segni riconoscibili solo da lui,
per questo poi li chiamava segreti.
Quando raggiunse quella
fortificazione immensa, entrò scavalcando il muretto dov'era
più
basso.
Per fortuna la
pesante porta che dava accesso agli ambienti interni era scardinata,
altrimenti non sarebbe mai riuscito ad entrare.
Quel giorno si era deciso
di salire sulla torre più alta, quella che si riusciva a
scorgere se
ci si arrampicava sulla fontana posta al centro del loro villaggio;
cercò quindi di ignorare la sua insistente
curiosità di esplorare
le camerate al piano terra e si avventurò deciso su per la
rampa di
scale che portava ai piani superiori.
*
Era
sera inoltrata ormai, e il piccolo Deidara non si era ancora
presentato al paese.
In
realtà nessuno ci avrebbe fatto realmente caso anche se
fosse
mancato per una notte o due. Nessuno sapeva che fine avessero fatto i
suoi familiari o i suoi genitori, era cresciuto, per così
dire, come
il bimbo di tutti.
Viveva
rifugiandosi nelle case dei suoi compaesani, anzi in verità
si
accontentava di dormire presso qualsiasi persona che fosse disposta
ad accoglierlo e, quando il bisogno incalzava, non faceva differenza
se quel qualcuno che gli apriva la porta fosse mosso da
generosità o
da bramosia.
Molto
spesso Deidara dovette pagare per un letto e una ciotola di riso,
però sfortunatamente non possedeva soldi, ma qualcos'altro
da
scambiare.
Probabilmente
era per questo che il bambino era malvisto nel paese, ed era per
questo che i genitori di Sasori non avevano acconsentito a spartire i
loro affetti e la loro calda atmosfera con quella povera anima.
Per
fortuna, però, esisteva una persona che davanti a tutti
questi
pregiudizi alzava le spalle.
*
“Ho
visto... tutto il mondo! Tutto il mondo Sasori...”
Raccontò
Deidara il giorno dopo al suo amico del cuore.
Si
trovavano entrambi a sedere su un vecchio pozzo di pietra,
raggiungibile solo tramite un ripido sentiero che attraversava il
bosco.
Sasori
ascoltava il racconto dell'amico senza darci troppo peso, senza
contare che era arrabbiato con lui per avergli ancora disubbidito.
“Fai
sempre di testa tua Deidara, ti disinteressi di quello che ti dicono
gli amici... guarda che se scopro che l'hai fatto un'altra
volta...!”
“Che
mi dici di te? Perché non mi vuoi dire dove vai tutte le
mattine?”
Interrompere
i discorsi era da sempre stata una sua brutta abitudine.
Sasori
rimase interdetto alla domanda che gli era stata posta, come se
l'altro avesse appena riportato alla luce una questione che lui
avrebbe preferito tenere nascosta.
“Che
t'importa?” Disse soltanto, cercando di sviare su un altro
argomento.
Una
cosa era certa: al piccolo dai capelli biondi non facevano
assolutamente paura le minacce di Sasori, non sarebbero di certo
state quelle ad impedirgli di fare nuovamente visita alla sua villa
misteriosa.
*
“Non
sapete... quante cose ho da dirvi...” mormorò
piano il bimbo,
quasi temesse di sentire l'eco della propria voce.
Sfiorò
con un dito i drappeggi malconci che incorniciavano le finestre, poi
si sedette a gambe incrociate sul pavimento.
Aveva
gli occhi lucidi e infiammati della luce del tramonto, colmi di
meraviglia davanti a quei vecchi stracci appesi e a quei vetri
scheggiati.
“Tutto
qui è così bello, mentre il mondo fuori
è orrendo... che strano
che una cosa brutta diventi tanto bella solo guardandola da un punto
diverso...”
Lui
l'aveva sempre intuito, era quella la sua vera casa.
Lì
aveva una camera con dei giocattoli, anche se questi erano
così
malridotti e arretrati che di certo erano appartenuti all'epoca
scorsa.
Messi
in fila uno di fianco all'altro su una mensola scheggiata stavano
diversi orsacchiotti di pezza. Probabilmente quando erano stati
regalati al bambino proprietario della stanza avevano ognuno un
colore differente, ora irriconoscibile dallo strato di polvere che vi
albergava sopra.
Deidara
li aveva osservati con cura, uno per uno.
Aveva
colto la loro malinconia e la loro solitudine solo guardando quei due
bottoni cuciti sopra alla bocca, ma fu quando arrivò con lo
sguardo
all'ultimo pupazzo che venne pervaso da una strana sensazione.
Era
terribilmente familiare, era come se loro due fossero stati amici da
sempre.
Lo
prese in mano e soffiò via la polvere.
Aveva
deciso: l'avrebbe chiamato Snow. Snow perchè
era l'unica parola che sapeva scrivere.
Per
lui era stato necessario impararla, proprio perché non
appena
iniziava l'autunno qualsiasi cosa che lo circondava si ricopriva di
morbida neve, e ogni notte continuava a crescere strato su strato,
perseverando con una costanza maniacale fino a metà
primavera.
Era
neve che uccideva, quando nessuno gli apriva la porta, quando nessuno
offriva una fiamma calda davanti alla quale scaldarsi le mani.
Snow
era vestito di
aristocratica
stoffa turchese, adornato di due superbi bottoncini avorio e decorato
con un elegante fiocco allacciato al polso sinistro, ed
era
stato immediatamente arruolato come suo compagno d'esplorazione.
“Scusi
signore...” disse il bimbo dai capelli dorati accovacciato
davanti
al camino, nel tentativo di richiamare l'attenzione dell'uomo che
l'aveva accolto.
“Dimmi”.
Il
piccolo ci pensò su un momento.
Aveva
imparato ad essere cauto nel dire ciò che voleva dire, aveva
imparato a reprimere quella naturalezza nel parlare tipica della sua
età.
“Lei
sa scrivere?”
L'interpellato
lo guardò sorpreso, stupito del fatto che un giovane
vagabondo come
lui desiderasse qualcosa che andasse oltre i bisogni primari utili
alla propria sopravvivenza.
“Sì,
un po'...” rispose spiazzato “desideri che ti
insegni?”
A
quell'affermazione gli occhi del biondino si accesero di evidente
entusiasmo.
L'uomo
allora, divertito dal suo comportamento, andò a raccattare
da chissà
dove dei fogli di carta e un pennino. “Ti mostro come si
fa”
disse, dopo aver impregnato lo strumento d'inchiostro.
“Osserva bene,
queste sono le lettere...” Continuò cominciando a
tracciare su un
foglio a righe i primi grafemi dell'alfabeto.
Il
bambino guardò turbato quei segni, come se fosse deluso da
quello
che l'uomo gli stava mostrando.
“No,
quelle non mi interessano... Io voglio sapere come si scrivono le
parole!” Ribatté fissando gli occhi verdi
dell'altro con una
determinazione anormale per i suoi sette anni.
“Però le
parole si compongono con le lettere, come pretendi di scriverle
altrimenti?”
Ma
il bimbo rimaneva cocciuto sulla sua posizione, finché a un
certo
punto l'uomo si arrese.
“Va
bene... Che parola vuoi che ti scriva?”
Il
biondino ci rifletté sopra, felice di essere stato
accontentato.
“Dunque,
vediamo...”
Come
un magnete la finestra attirò il suo sguardo, al di
là di quei
vetri cadeva placida e silenziosa la neve, quell'assidua
preoccupazione che avrebbe poi dovuto affrontare la mattina dopo.
“Neve. Mi
faccia vedere come scrive Neve.”
L'altro lo guardò
perplesso, poi si decise a calmare la curiosità del suo
piccolo
ospite, tracciando sul foglio la parola Neve in stampatello.
Dopotutto, era
cresciuto come un semplice cacciatore silvano e quello era l'unico
carattere che era riuscito ad apprendere.
Il
bimbo aveva osservato con attenzione lo scorrere incerto della mano
su quel pezzo di carta, aveva contemplato stupefatto l'elegante forma
dei segni delinearsi sotto la pressione della penna. Eccola
lì, la
sua nemica, intrappolata in pochi millilitri di inchiostro.
“Ora
prova tu” disse l'uomo incitando il bimbo ad imitarlo.
Dopo
qualche tentativo, il piccolo riuscì finalmente a scrivere:
Neve.
“Sei
molto bravo”, asserì l'altro, guardando negli
occhi il biondino.
Quest'ultimo capì
dalle palpebre e dall'espressione che trasmettevano le sue iridi
smeraldo che il cacciatore gli stava sorridendo, cosa impossibile da
capire altrimenti a causa della fascia che gli ricopriva gran parte
del viso.
Era
un uomo pieno di generosità, diverso da tutti gli altri.
Non
aveva chiesto nulla in cambio dell'ospitalità che gli aveva
offerto,
e molto probabilmente l'avrebbe tenuto per sempre nella sua modesta
capanna fatta di assi di legno e sassi di fiume, se non fosse
accaduto l'imprevisto.
Era
bastato un attimo di oscurità, un buio dove non splendeva
nemmeno la
più piccola scintilla di razionalità, una
freccia, estratta
febbrilmente dalla faretra ed affondata nella carne del proprio
petto.
Suicidio, così
la gente del villaggio aveva additato quel gesto.
Il
bimbo non conosceva il significato di quella parola, ma sapeva che
forse avrebbe imparato a scrivere perfino quella se il suo maestro
non l'avrebbe lasciato.
Si
trovò nuovamente solo, lasciato in balia della cortesia
altrui.
Non
avrebbe mai creduto che un sorriso bastasse a nascondere dolori
atroci e piaghe incurabili.
“Oh,
si è fatto tardi”
~ il tempo è scaduto ~
Con
la testa ancora colma di domande e quesiti irrisolti, si mise in
cammino diretto alla camera del bambino al terzo piano, come ogni
volta, per riporre Snow al proprio posto, per restituirlo al suo
mondo.
Le
pareti e la carta da parati che le rivestivano non erano più
insanguinate della luce del tramonto, ormai il riverbero cremisi del
vespro era svanito da ogni angolo.
L'atmosfera,
privata di quel sangue vitale, era impregnata della più
magica e
pericolosa delle sensazioni: una bestia, pronta a sferrare l'attacco
non appena avrebbe potuto avvantaggiarsi delle tenebre in cui
mimetizzare il suo lucente oblio nero.
Ricordi
che si mescolavano a realtà, spirali di immagini di storie
vissute
ed emozioni presenti, la vita del giorno che passa, l'epoca che
è
già passata.
Esisteva
qualcosa, quando le lancette indicavano quella determinata ora, che
permetteva a tutto questo di rivivere. Ma era proibito prendersi tale
lusso, era l'azzardo più illecito che si potesse commettere
a questo
mondo.
Deidara
era cosciente di questa austera sentenza, anzi in vita sua non era
mai stato così devoto a qualcos'altro che non fossero quelle
incisioni scavate nella pietra, a pochi centimetri dallo stipite
della soglia principale.
Quel
giorno, impresso in un tempo sempre indefinito, trovatosi davanti a
quelle poche sillabe, piegò la testa, sotto la pressione di
inconsistenti dita che aveva sentito come rivoli d'acqua gelida fra i
capelli.
Si
inginocchiò raccogliendo il suo corpicino gracile su se
stesso, lo
fece in segno di sottomissione a quell'unica regola che aleggiava
sulla sua vita trasparente.
“Antico attore della Tragedia remota, lo sarai di un dramma rinnovato se entro queste mura, oserai inseguire la luna”
La
più superba delle anime sarebbe diventata la più
meschina,
oltraggiando la sovranità di un tale principio.
Per
questo Deidara non avrebbe mai trovato riposo fra le aride coperte
della camera di Snow.
*
Quella
sera si era dovuto accontentare di una soffitta come rifugio e un po'
di lana come giaciglio. Colei che l'aveva accolto era una giovane
donna sulla ventina, aveva il viso dolce di un angelo e le guance
rosee di una bambola.
La
ragazza, commossa e forse lusingata, aveva dato al suo inatteso
ospite tutto ciò che possedeva di buono e di commestibile,
sacrificando per lui quel poco che aveva per sé.
Gli
aveva offerto perfino un po' di marmellata di fragole, l'unico
vasetto che conservava per l'inverno, ma prontamente Deidara aveva
scosso la testa e respinto il cucchiaio, affermando capriccioso che
non aveva mai gradito mangiare quelle gelatine esageratamente dolci.
Riflettendo
in seguito sul suo gesto, rammentò di non aver mai
assaggiato
nessuna prelibatezza di quel genere.
Forse
perché non vi era bisogno, forse perché certe
cose si sapevano e
basta.
*
Una
pallida ciocca di luna s'insinuò attraverso gli scuri
socchiusi
della piccola finestra, infiltrandosi come un cereo animaletto
strisciante nella soffitta, per poi morire sulla parete di legno.
Rapido,
come se portasse con sé un acchiappa-sogni invisibile, il
serpentello catturò l'attenzione del bimbo seduto sulla sua
branda,
impossibilitato, come spesso gli accadeva, a prendere sonno.
“Quali
notizie mi porti?” Chiese disarmato Deidara, come se si
sforzasse
di credere ancora alle favole. “Oppure... vuoi giocare con
me?”
Aggiunse un istante dopo con voce trepidante, quasi speranzosa.
Il
serpentello, come ogni rara notte in cui veniva a fargli visita,
stette indifferente alle sua parole, non si curò nemmeno di
brillare
un poco più intensamente per fargli capire che lo stava
ascoltando.
Era un pessimo ospite, ma il piccolo biondo sapeva che mai si faceva
portavoce di brutte notizie. “Che mi dici, luccichino? Anche
tu sei
stato rifiutato dall'universo a cui appartenevi? Perfino la luna ti
ha ripudiato?”
Quasi
non fece in tempo a terminare quell'insensato monologo che accadde
una cosa a cui mai aveva assistito: una folata di vento, e il
serpentello cambiò di posizione, come se volesse strisciare
fuori
dal davanzale della finestra, luogo dal quale era entrato.
“N-no!”
esclamò Deidara, avventandosi sull'apertura poco distante,
cercando
di afferrare quell'inconsistente nastro di luce, sporgendosi
addirittura dal davanzale pur di intrappolare tra le dita il suo
recente visitatore.
Spalancò
in un gesto frenetico e involontario le ante di legno: il vento era
veloce e prepotente e coinvolgeva i suoi bei capelli in sfrenate
capriole, facendoli danzare davanti al viso e agli occhi,
procurandogli un fastidio enorme.
Il
frastuono emesso in quei pochi minuti era raccapricciante: molti
infissi sbattevano in lontananza, chiudendosi di scatto.
Gli
alberi ululavano impazziti.
Quando
finalmente il vento si decise a quietarsi, il piccolo si
azzardò a
sbirciare attraverso la fessura creata dalle due ante, rimanendo
ipnotizzato dalla luce del satellite notturno sospeso sopra le
sue
sagome maestose, illuminandole, tracciandone con un pennello dorato i
profili, i riflessi dei vetri, impastando poi sfumature blu notte per
dare forma ai volumi, agli spazi, all'imponenza della sua
costruzione: la falce lattiginosa aveva disegnato l'immagine della
sua tentazione peggiore.
“Il
castello dei sogni è costruito in aria e può
crollare da un momento
all'altro.
Il
castello dei sogni ha stanze affacciate sul mondo del passato,
bellissime e degne di un re, ma non esiste nessuna porta o nessun
corridoio che permetta di raggiungerle.
Il
castello dei sogni è attraente, falsario, appagatore di
desideri e
regista delle peggiori paure mai messe in scena e, infine, il
castello dei sogni racchiude uno squarcio di verità al suo
interno,
un'occhiata di cristallo dopo un percorso tortuoso, intriso di colori
sciolti uno nell'altro.”
Deidara,
sangue appartenente a una realtà tante volte bramata, fu
imprigionato nel vortice dell'oblio, e gli fu permesso di percorrere
quegli instabili e inesistenti corridoi.
Camminava
di passo sempre più veloce man mano che si avvicinava a
quella
suadente porta; teneva la chiave che l'apriva legata alla cintura
tramite un segmento di corda intrecciata.
Trovatosi
prima del previsto di fronte a quella matronale barriera di legno
intarsiato, inserì lo strumento nell'apposita toppa,
girandolo poi
in senso orario con fin troppa facilità dato lo strato
abbondante di
ruggine, riuscendo infine a sbloccare la serratura, eludendo
l'autorità di un tale ostacolo solo attraverso una fragile
bacchetta
di ferro.
Sbirciò
nell'atrio attraverso l'esigua fessura che gli era concessa, riflesso
del gesto che aveva compiuto poco prima nel pieno delle sue
facoltà
razionali.
Sognava,
consapevole della dimensione fittizia in cui stava vivendo.
Quel
raggio di luna aveva chiesto al suo subconscio di farlo diventare,
anche se solo per poco, spettatore del suo passato.
Spettatore
di un sogno di cui era protagonista e autore, e di cui non sapeva la
fine, anche se lui stesso l'aveva scritta.
Oltre
la breccia, parole rievocarono il suo destino compiutosi nella
trascorsa esistenza, parole decantate in tempi mitici riecheggiarono
nei cunicoli incontaminati della sua memoria.
“Ogni
cosa sta per compiersi” disse un uomo al di là del
passaggio,
vestito di nobili stoffe.
“Ma
perché? Perché? Non c'è modo di
evitare che ciò avvenga? Quale
mostro ci ha portato a questo supplizio? Cosa hanno fatto gli stessi
bambini di questa casata maledetta, quale terribile delitto hanno
commesso per rinunciare alle loro spensierate allegrie così
presto?
Ritieni forse giusto che anche le loro anime innocenti vengano
condannate a questa tragedia?”
Una
dama, dal viso sfregiato dal pianto, si era abbandonata sulle
ginocchia ai piedi del galante.
“Non
sono certo io che ho stabilito questo. Voi siete nata sotto questa
stirpe, e voi ne pagherete le conseguenze, come hanno fatto gli avi
che hanno camminato entro questi corridoi prima di noi”
brutale
decreto.
“Per
quanti anni ancora dobbiamo sopportare questo martirio? Per quanti
anni ancora le creature morte della notte che aleggiano nell'essenza
di queste mura dovranno falcidiare le generazioni future?”
L'uomo
guardò con severità la giovane inchinata
supplichevolmente al suo
cospetto, soppesando quelle parole tanto aspre quanto testimoni di
cruda realtà.
“Voi
stessa camminerete evanescente dopo l'ecatombe, ripercorrerete questi
corridoi esanime e informe e la vostra degenerata coscienza non
avrà
altro obiettivo al di fuori della reminiscenza del passato, i vostri
occhi dolorosi guarderanno instancabilmente al tempo gioioso e
radioso che fu, finché dovrete inchinarvi davanti al vostro
stesso
sangue, davanti all'erede del nostro orgoglioso lignaggio, quando
egli comparirà al cospetto della vostra anima deteriorata.
Quella
notte riesumeremo gli antichi sfarzi, e la sala da ballo si
illuminerà nuovamente dei diamanti che adornano i vestiti
delle
principesse e delle ballerine, e qualsiasi mortale che oserà
fare da
spettatore alle danze diventerà partecipe della nostra
eterna
eclissi, affinché non osi proferire parola e taccia su tutto
ciò
che ci riguarda.”
Il
bimbo nascosto dietro alla porta deglutì: quelle persone
vivevano
nella sua fantasia, ma parlavano esattamente come lui. Anche Deidara
utilizzava un linguaggio che sembrava appartenere ad un tempo remoto,
e lui stesso non si capacitava di come e dove l'avesse appreso. Per
questa sua caratteristica spesso molti lo guardavano con sospetto, o
la maggior parte delle volte lo schernivano. Per questo il bimbo si
era dato da fare per parlare la lingua comune di cui facevano uso i
suoi coetanei, nel tentativo di acquistare un poco della loro
considerazione.
La
giovane nel frattempo fece un gesto inaspettato: si alzò in
piedi e
volse lo sguardo repentino fuori dalla porta semiaperta.
“Deidara!”
Il piccolo biondo si girò di scatto all'indietro, col cuore
in gola,
e vide alle sue spalle un bimbo, apparentemente sui cinque anni.
Aveva corti capelli d'oro e iridi celesti, medesimo colore della
creatura inanimata che teneva stretta possessivamente al braccio
sinistro; infine, aveva tutta l'aria di uno che era appena stato
sorpreso ad origliare.
L'elegante
dama uscì a grandi passi dalla camerata, cercando di
asciugarsi
velocemente le lacrime con una manica del vestito. Si diresse con
sguardo severo dal piccolo, prendendolo poi in braccio e stringendolo
al petto, forse per rassicurare più se stessa che lui.
“Tuo
figlio è fortunato ad essere nato di sangue regio”
l'estraneo
spettatore silente fissò l'aristocratico mentre pronunciava
queste
ultime parole.
“Ma...Mamma?”
Il castello dei sogni è costruito in aria e può crollare da un momento all'altro.
Com'è
fulmineo l'attimo che separa il sogno dal risveglio.
~
“Svegliati
Deidara”
Era
arrivato il momento di gettare nel baratro ogni immagine, ogni
fotogramma sostanza degli artificiali momenti appena vissuti.
“Deidara?”
“Hmm...
Sasori...”
Un
caldo groviglio di coperte e un fastidio martellante alla spina
dorsale, causato dalla perenne posizione scomoda in cui il piccolo
dai capelli d'oro aveva dormito.
La
mano fredda dell'amico gli sfiorò con un lieve tocco la
guancia,
riportandolo definitivamente alla realtà.
Il
suo viso levigato e la sua folta chioma rosso acceso fecero capolino
da dietro la montagna di lenzuola.
Deidara
notò che ne erano state aggiunte altre mentre era
addormentato.
“Ma
quanto dormi? È tardi” lo rimproverò il
ragazzino più grande
spalancando le ante dell'unica finestra presente, le quali si erano
chiuse a causa del vento forte della nottata.
I
raggi del sole ormai già alto fecero irruzione con violenza
nella
soffitta polverosa, pungendo prepotenti le chiare iridi ancora
vulnerabili del biondino.
Quest'ultimo
chiuse gli occhi, rimasto abbagliato dalla luce troppo forte e
improvvisa.
“È
quasi mezzogiorno! Andiamo in riva al fiume a catturare le rane, ho
anche portato da mangiare!” L'idea della raccolta delle rane
non
entusiasmava molto Deidara, ma doveva ammettere che il suo stomaco
protestava già da tempo.
“Allora
perchè non sei venuto prima? Si può sapere cosa
fai di tanto
improrogabile tutte le mattine?”
Gli
occhi di Sasori s'infiammarono a quella domanda che l'amico sapeva
già non avere risposta. “Ripeto: non sono affari
tuoi. Andiamo”
concluse sbrigativo, scomparendo dalla botola della scala a
chiocciola.
*
La
giornata era trascorsa in fretta, apparentemente normale, quasi
noiosa, senza imprevisti o senza qualcosa che facesse divertire
troppo.
Semplice,
come semplice era la compagnia di Sasori.
Avevano
ideato un gioco: vinceva chi sarebbe riuscito ad acciuffare un numero
maggiore di anfibi.
Sembrava
un simpatico espediente, fin quando il più piccolo non
riuscì a
intrappolare tra le dita una di quelle creature saltellanti.
“Bravo
Dei! Ora liberala” gli ordinò il maggiore.
“Perché?
Non posso... tenerla?”
In
tutta risposta Sasori lanciò un sassolino ai suoi piedi,
colorato
diversamente da quelli comuni che formavano la sponda del fiume.
“Questo
simboleggia la tua rana, siamo uno a zero. Su ora rimettila in
acqua”
.
Deidara
allora si trattenne dal contraddire un'altra volta l'unico amico che
aveva e, con rammarico, appoggiò delicatamente l'animaletto
sul
limo vischioso di un'insenatura che veniva continuamente lambita da
lievi onde.
Restituì
quello che doveva restituire.
“Poi
come credevi di darle una casa se neanche tu sai dove andare?”
Il
bimbo biondo voltò la testa dall'altra parte per nascondere
a Sasori
gli occhi traboccanti di lacrime.
“Si
sarebbe dovuta accontentare di una gabbietta, però credevo
di darle
un amico...” avrebbe tanto desiderato un giorno possedere
qualcosa
di più degli eleganti vestiti che teneva indosso, senza
prendere
sempre a prestito ogni cosa.
Quella
sera Deidara si addormentò sperando in un domani migliore.
Alla
fine, aveva vinto Sasori.
*
Mentre
percorreva quel sentiero che saettava tra i tronchi bruni dei faggi,
sotto una nevicata rossa e oro di foglie morte, pensava a quelle
decine, centinaia di volte in cui si era ritrovato a ricalcare l'orma
di quei medesimi passi.
Era
piuttosto tardi, la luce che accarezzava le cime più alte
era già
sfumata nel rossastro. Questa volta Deidara aveva resistito
più a
lungo al richiamo che, come un eco, alla stessa ora di tutti i giorni
arrivava alle sue orecchie: un'antica voce tentatrice.
Mura
vecchie e scrostate impilate una sull'altra, ammasso di mattoni
arroccati in vertiginose torri, intervallati da variopinti pezzi di
vetro, sormontati da superbe cime di tegole grigie, infilzate da
arrugginiti segnavento che faticavano a svolgere il loro ordinario
lavoro; stanze labirintiche che si intrecciavano e si confondevano
tra loro, si somigliavano tanto da far impazzire: l'insieme di questa
armonia complice necessitava del suo padrone, così come
Deidara
necessitava di correre per quei vuoti corridoi e far tesoro ogni
giorno di una scoperta nuova quanto palesemente ovvia.
Questa
volta il bimbo si era addentrato in quelle intricate viscere talmente
a fondo da giungere in un lato inesplorato, il limite estremo del
castello, opposto alla porta principale.
La
parte di quella casa signorile era formata da archi di pietra
continui che davano su un palco sporgente nel vuoto: in scena ora
c'era il tramonto più bello, non più coperto da
vari ostacoli, ma
sfoggiato nella sua magnifica visione d'insieme.
Deidara
oltrepassò rapito gli innumerevoli drappi opachi che
ricoprivano le
arcate, i quali volteggiavano sospinti dal vento gelido, proveniente
dall'esterno.
Il
paesaggio che gli si parò davanti era simile a quello che
aveva
potuto ammirare dalla cima del torrione più alto: una luce
brillante
come cento, di un rosso più vivo del fuoco.
Subito,
però, qualcos'altro attirò l'attenzione del
piccolo, una figura
estranea, sdraiata su uno dei corrosi muretti di pietra che
adornavano la balconata.
“Ma...
chi...?” Una volta superato lo spavento iniziale, Deidara si
avvicinò alla panca, curioso di sapere chi altri oltre a lui
osasse
disprezzare le dicerie intimidatorie che aleggiavano su quel posto.
Forse... un forestiero, che non poteva essere a conoscenza delle
varie leggende locali? Oppure un qualche essere umano, senza timore
di alcuna cosa al mondo.
Quando
fu abbastanza vicino, il bimbo biondo si ritrovò sorpreso
nel
scoprire di conoscere quei lineamenti efebici, quei morbidi capelli
rubino che incorniciavano il viso dai tratti ancora infantili, i
vestiti, gli stessi che aveva indossato il giorno prima.
Stava
dormendo.
Mille
pensieri invasero all'istante la mente confusa di Deidara.
Cosa
ci faceva Sasori lì? Forse era venuto a cercarlo, sapendo
che si
recava alla villa ogni tramonto?
“Sasori?”
Lo chiamò incerto.
Il
ragazzino, quasi come fosse già da prima sul punto di
svegliarsi,
aprì gli occhi sbattendo più volte le palpebre.
La prima cosa che
capì, dalla luce insanguinata che allagava le pareti del
balcone, fu
di aver dormito troppo.
“Deidara?”
In
un attimo i suoi grandi occhi castani, ancora lucidi dal sonno,
catturarono le iridi celesti dell'amico. Quest'ultimo lo
guardò
interrogativo, aspettando che si svegliasse completamente prima di
porgli qualsiasi domanda.
Sasori
allora si alzò faticosamente a sedere, rimanendo per un
attimo ad
ammirare quell'idillio paradisiaco in cui si era destato.
“Dormito
bene?” Chiese scherzoso il biondino, con un sorriso enorme.
L'altro
sorrise a sua volta, quasi impossibilitato a reprimere quel gesto,
così consono alla situazione che si era andata a creare.
Chiuse
un attimo gli occhi, solo per assaporare a pieno il vento selvaggio e
puro fra i capelli, quand'ecco che inaspettatamente sentì il
profumo
di quelli di Deidara, il suo corpo minuto che gli si era stretto e le
sue labbra, timorose e tremanti, che andavano ad incastrarsi
accarezzando la sua bocca, permettendo alle punte delle due lingue di
sfiorarsi.
L'abbozzo
di un bacio da adulti.
“Deidara...”
sussurrò Sasori, alquanto scosso dal suo gesto.
L'altro
in tutta risposta sorrise, cercando in quel modo di giustificarsi.
“Scusa...
è solo che sono contento. Non credevo che anche tu venissi
qui”,
disse tutto d'un fiato, arrossendo violentemente.
Sasori
non l'aveva mai visto così timido.
Il
ragazzino dai capelli rossi allora prese un profondo respiro, come se
si dovesse preparare a una confessione compromettente.
“Sì,
la verità è che non volevo tu tornassi in questo
posto perché era
lo stesso in cui amavo recarmi sempre, e ne sono geloso. Ho perfino
dovuto cambiare abitudini quando ho scoperto che anche tu venivi qui
al tramonto, evidentemente non ci siamo mai incontrati, dato che la
villa è sterminata”. Deidara ascoltò
sorpreso.
Non
avrebbe mai pensato che Sasori si distinguesse così tanto
dalla
massa dei loro compaesani. “Ma cosa venivi a fare
qua?”
Il
più grande sorrise, complice.
“Lo
stesso che venivi a fare tu, no?”
L'amico
ci rifletté un attimo.
“Non
volevo che ci andassi perchè questo è un luogo
dove mi piace
riflettere, sognare, immaginarmi storie e passare intere giornate in
compagnia di me stesso”.
Il
biondino non capiva, non erano affatto lì per un obiettivo
comune
allora, anzi, erano uno l'opposto dell'altro.
Se
lui ogni giorno si recava alla sua villa misteriosa era proprio per
trovare una compagnia, un segno d'intesa e non di vendetta, un
rifugio accogliente e non una trappola perversa.
In
quanto ad immaginarsi storie, non c'era assolutamente nulla da
immaginare.
Era
già stato tutto scritto, era già tutto accaduto;
la vera impresa
stava nello scoprire cosa.
“Senti,
che ne dici se diventa il nostro segreto?” Disse poi Deidara.
Erano
molto diversi, loro due.
Cresciuti
in ambienti completamente diversi, governatori di mentalità
differenti, ma condividevano lo stesso Castello dei sogni -
anche
se, al suo interno, giocavano differentemente l'uno dall'altro -.
“Ci
sto!” Affermò Sasori, ancora spiazzato dal bacio,
ma felice di
aver trovato un accordo soddisfacente per entrambi.
In
fin dei conti non ci aveva dato troppo peso, Deidara era da sempre
stato un tipo strano, e a lui piaceva così.
Improvvisamente
il sorriso svanì dalle labbra del più piccolo,
per lasciare spazio
a un'espressione torva e confusa.
“Che
c'è?” Chiese il ragazzino dai capelli rossi, non
capendo il
comportamento dell'altro.
Deidara
in tutta risposta lo zittì alzando l'indice davanti alla
propria
bocca, poi attraversò nuovamente i tendaggi per rientrare
dalla
balconata e Sasori lo seguì, continuando a non capire.
Dopo
qualche attimo di silenzio, il maggiore si azzardò ad aprire
bocca.
“Deidara...?”
“La
senti anche tu?”
“Cosa
dovrei sentire, esattamente?”
“Sst...
ascolta!”
Proprio
in quel momento il più grande avvertì una melodia
molto flebile
provenire da un lontano punto indefinito, praticamente impossibile da
percepire.
“Che
cos'è?” Chiese turbato Deidara.
“Sembra
un carillon. Proviamo a seguire il suono, forse riusciamo a capire da
dove viene”.
Il
bimbo biondo seguì l'amico lungo la stretta rampa di scale,
la quale
collegava quell'angolo sconosciuto del castello al corpo principale
dell'intera costruzione.
Entrambi
si riscoprirono ugualmente esperti nel muoversi attraverso quella
foresta di corridoi, nell'utilizzare al momento giusto gli adeguati
passaggi segreti, non facendosi intimorire dalla somiglianza di
alcune zone che parevano fatte apposta per disorientare occasionali
avventurieri. Così raggiunsero ben presto un pianerottolo,
dove si
udiva chiaramente la dolce melodia provenire da una delle stanze
adiacenti.
“Ci
siamo” disse trionfante Sasori, attraversando la soglia di
quella
che apparentemente sembrava una lussuosa cameretta.
“M-ma...
questa...”
Deidara
si accorse immediatamente che il luogo che avevano appena raggiunto
dopo tanto girovagare non era nient'altro che la stanza di Snow.
La
statuetta di un'elegante danzatrice ruotava meccanicamente su se
stessa all'interno di un portagioie, appoggiato sopra un elaborato
tavolino. Dal vano interno della preziosa scatola, un languido suono
metallico intonava le note de Il Lago dei Cigni:
uno struggente e inquietante lamento.
“Che
buffo...” asserì Sasori avvicinandosi ingenuamente
al carillon per
osservarlo da vicino.
“Come
avrà fatto a partire?” Si domandò il
ragazzino, guardando curioso
la chiavetta dorata sul retro del portagioie che ruotava in senso
antiorario.
Il
biondino alzò le spalle.
“Non
so... forse un topo?”
“Ma
dai!” Rise l'altro, divertito dalle assurde affermazioni del
più
piccolo.
“Che
strana musica...” Fu proprio in quel momento che Deidara
rimase con
lo sguardo atterrito davanti all'enorme finestra singola che donava
luce a tutta la stanza: gli unici colori che animavano il cielo, nel
quale compariva a macchia qualche bianca stella, erano quelli
glaciali del Crepuscolo.
~ il tempo è scaduto ~
“Sasori...”
“Deidara
guarda questo quadro...” esclamò Sasori,
accennando al dipinto
appeso sopra il letto a baldacchino che ritraeva una nobile dama con
in braccio il figlioletto.
“Sembri
quasi tu. Chissà chi è in
realtà”.
Per
riuscire a leggere la targa incisa nel legno della cornice Sasori
salì carponi sul materasso, soffocando l'aria viziata di una
nuvola
di polvere.
“Heir's
room...
La stanza
dell'erede...”
“Sasori,
dobbiamo andarcene di qui, e alla svelta!”
Il
ragazzino guardò sorpreso l'amico, quest'ultimo animato
tutto d'un
tratto dal terrore.
“Che
ti prende?”
“Tu
seguimi e basta” concluse risoluto il bimbo biondo, prendendo
l'altro per un braccio e precipitandosi nel corridoio.
Instancabile,
il carillon continuava ad urlare il suo lamento.
*
“Deidara
si può sapere che ti succede? È la quarta volta
che torniamo nello
stesso posto, lascia fare a me se vuoi uscire di qua!”
Aveva
sbagliato ancora, e ancora e ancora. Eppure aveva camminato avanti e
indietro dalla camera all'uscita tante volte quante era stato in quel
luogo; possibile che bastasse una leggera penombra per cambiare
così
tanto gli ambienti dal ricordo che aveva di essi?
Tutto
appariva così diverso quando era animato dalla calda luce
penetrante
del vespro.
“Deidara
ti prego, lascia che sia io a trovare la strada per uscire,
altrimenti fra poco queste stanze saranno così buie con non
sapremmo
neanche dove mettere i piedi!”
Sasori
non capiva mai quand'era il momento di tacere.
Non
capiva neanche la pericolosità della situazione in cui si
trovavano:
stavano infrangendo la regola più austera che potesse
esistere al
mondo.
“Va
bene, se proprio sei convinto di sapere la strada vai tu, ma
sbrigati!”
Acconsentì
infine Deidara, constatando che in fondo l'amico aveva non meno
esperienza.
Appena
gli fu data via libera, Sasori cominciò a percorrere di
passo
spedito il corridoio in senso opposto, finché non ne
imboccò un
altro una volta arrivato al termine del precedente.
Quest'ultima
anticamera era lunga e stretta, e dava su varie stanze che Deidara
non aveva mai visitato.
Il
suo compagno di viaggio si infilò oltre la terza porta sulla
destra
e accelerò ulteriormente il passo, avendo notato il
repentino
avanzare dell'oscurità.
“A-aspetta
Sasori...” Deidara raggiunse l'amico con il fiato corto:
cominciava
a distinguere male il suo profilo, che appariva come l'indistinta
sagoma di un'ombra.
“Prendi
la mia mano” il bimbo l'afferrò di buon grado,
sentendo il
coraggio alzarsi di una tacca a quel tocco rassicurante.
Corridoi
e stanze che parevano infiniti si susseguivano uno dopo l'altro in
una corsa senza fine, in una corsa contro il tempo.
La
notte avanzava ad ogni loro passo che rimbombava entro quelle spoglie
camere, ognuna simile alla precedente; finché entrambi
udirono, una
volta messo a tacere il respiro che continuamente reclamava ossigeno,
una melodia familiare: le medesime note struggenti cantavano Il
Lago dei Cigni.
Erano
giunti in un vicolo cieco adiacente (a quanto pareva) alla camera
dell'erede.
“Co-come
fa la molla di quel carillon ad essere ancora carica?” Chiese
impaurito Sasori al vuoto. “Non lo so... dobbiamo
assolutamente
trovare l'atrio” rispose Deidara, lasciandosi cadere esausto
con la
schiena appoggiata al muro; il maggiore lo imitò, cercando
di fare
appello a tutte le sue capacità razionali per una raccolta
di idee.
“Sei
stanco?”
Il
piccolo biondo annuì, ma in realtà era troppo
nervoso per sentire
sonno.
Restarono
per un po' senza parlare, oppressi dall'inquietudine che gettava su
di loro quell'insensato lamento, lamento che non trovava risposta se
non l'eco rimandato dalle pareti, lamento che penetrava fin sotto gli
strati più occulti del loro subconscio, lamento che
continuava a
replicarsi insopportabilmente, come una litania.
I
minuti passavano, accompagnati da quell'assurda polifonia.
“Sasori,
è tardi. Troviamo un'altra strada”.
Poco
dopo tentarono un percorso mai provato prima che serpeggiava monotono
per inesplorate rampe di scale, le quali arrampicavano sconosciute
torri.
Una
volta che si convinsero di aver sbagliato completamente strada, si
diressero nuovamente verso il basso, rimanendo poi intrappolati a
metà, incapaci di trovare un percorso alternativo. In quel
piano,
infatti, tutti i corridoi esistenti convergevano in un'enorme sala,
probabilmente la più estesa di tutta la villa.
Entrarono,
timorosi anche solo di sentire l'eco dei loro passi, o ancora, di
udire nuovamente quella musica malinconica diventata ormai oggetto di
sconcerto.
Non
appena furono all'interno Deidara trattenne a stento un grido, senza
accorgersi di avere di fronte l'immagine di se stesso.
“Sst,
calmati Deidara. Sono... solo degli specchi”
“S-solo
degli specchi?” Ribatté tremante il più
piccolo.
“Ma
certo.. non eri mai stato qui?” Disse Sasori e, a scopo di
tranquillizzarlo, avvicinò un dito alla liscia superficie di
cristallo che replicò fedelmente il suo movimento; e nel
mentre che
faceva questo, lo sguardo del ragazzino dai capelli cremisi si
congelò, intriso all'istante della più sublime
nota di terrore.
“Cosa
sono quelle?”
L'imponente
schiera di fragili lenti mostrava folle intere di figure evanescenti
compiere una sorta di danza: giocavano sulla levigata tavola
rivelatrice ammassandosi l'una sull'altra, sovrapponendosi per
fondersi in
un'unica entità,
gonfiandosi per poi sdoppiarsi nuovamente.
I
due ragazzini si voltarono indietro all'unisono, col cuore in gola;
ma non videro alcuna testimonianza della presenza effettiva di quelle
ombre.
“O
è... lo specchio che... è bugiardo...”
“Sasori,
ma dove siamo?”
Chiese
flebile Deidara, ora timoroso anche solo di guardare in faccia
l'amico.
“Nella
sala da ballo, non ne vedrai mai di più sfarzose nella tua
vita”
~ e ora, possiamo dare il via alle danze ~
“È
quasi mezzanotte, è qualcosa di malvagio, si aggira nel buio.
Sotto
la luce della luna vedi una sagoma che quasi ti blocca il cuore.
Tenti
di gridare, ma il terrore ti prende il suono prima che tu lo emetta.
Inizi
a immobilizzarti mentre i tuoi occhi sembrano l'immagine
dell'orrore”
Corsero,
corsero lontano da quella maledetta stanza.
Non
seppero se ciò che avevano intravisto fosse stato frutto
della loro
immaginazione o fosse causato dalla suggestione che subivano in quel
momento, ma cominciavano a perdere le speranze e l'entusiasmo
necessari per trovare la tanto agognata uscita.
Stavano
percorrendo un corridoio al piano terra dove incredibilmente erano
riusciti ad arrivare, quasi per caso.
Il
maggiore si trascinava dietro le orme del piccolo biondo, ormai in
preda alla disperazione. Dubitava di lui, dubitava che fossero mai
riusciti a risolvere quel tremendo rompicapo.
La
ragione cominciava a venir meno, il panico
avrebbe
ben presto preso
il sopravvento da un istante all'altro.
Deidara
giurò silenziosamente a se stesso di riconoscere le tende
che
decoravano i vetri delle finestre, le guardò restando in
silenzio,
senza osare proferire parola davanti al loro altezzoso portamento;
poi si fermò, e il suo gesto venne immediatamente imitato da
Sasori.
Un
altro melodioso suono, ma questa volta non era il carillon.
Le
campane del paesello, del loro insignificante quanto bramato povero
villaggio.
Mezzanotte.
~ il tempo è scaduto ~
“Perché
è un thriller, una notte di suspense.
E
nessuno ti salverà dalla bestia che sta per colpire;
Sai
che è un thriller, una notte di suspense.
Combatti
per la tua vita circondato da un assassino, stanotte è
thriller”
“Sai
Sasori... quando vorrai stare da solo, fai come se io non ci fossi,
tanto rimangono queste tende a farmi compagnia” “si
può sapere
cosa stai farneticando?” Non avrebbe mai immaginato che quel
bimbo
potesse essere ingenuo a tal punto. Il biondo sorrise,
sfigurò le
sue labbra in un gesto innaturale, impossibile, blasfemo.
Non
avrebbe mai spazzato via la notte con quel ghigno, anzi, era del
tutto folle solo pensare di sorridere.
Non
si rendeva conto di come andasse affrontata la situazione che stavano
vivendo.
Tutto
questo, fa impazzire.
“Ad esempio,
quella” Deidara indicò il drappeggio
più vicino alla sua destra,
alzando un braccio con naturalezza, smarrendo Sasori più di
quanto
non fosse già perso in quell'enigma.
“La
guardo, le parlo e mi risponde. Mi racconta tante cose”
“cosa?”
Una
folata di vento simile a quella che due notti prima aveva risvegliato
l'intero arroccamento montano attraversò i corridoi, fece
sbattere
le porte delle camere da letto; un anormale ululato chiamò
le
ballerine a festa, spettatrici, spettatori, le creature della notte:
il ricevimento in onore dell'erede.
Gli
enormi tendaggi si mossero quasi fossero animati di vita propria:
voci, sussurri, echi di discorsi pronunciati in un tempo remoto,
obliato nella reminiscenza del loro più prezioso mortale.
Sasori
fu spinto all'indietro, un gelo letale gli avvolse le membra, acqua
morta scivolò tra i suoi capelli, il sudore che gli copriva
la
schiena cessò il suo invisibile tremolio scolpendosi in
indissolubili gocce di ghiaccio.
“De...Deidara!”
Tentò l'insormontabile impresa di afferrare il suo unico
appiglio.
Con
una calma inaccettabile
Deidara
rispose al suo nome, si voltò fluente verso l'amico:
il suo
viso era trasparente, al posto dei suoi begli occhi azzurri c'erano
due fessure vuote e nere, il dipinto di un'espressione indecifrabile
e assente.
“Dei...?”
Mormorò terrorizzato, mentre sentiva le immense tende dei
corridoi
al suo fianco soffocarlo, sommergerlo e cancellare la sua essenza,
lentamente.
“Le
creature della notte chiamano;
E
i morti iniziano a camminare nelle loro maschere.
Non
c'è via di fuga dalle fauci dell'alieno questa volta:
Sono
spalancate.
Questa
è la fine della tua vita”
~
Da
quel giorno di Sasori non si seppe più nulla. Deidara una
volta
tornato a casa fu interrogato più volte dai genitori
dell'amico, ma
non seppe dare informazioni.
“Sasori?
È qua di fianco a me...” rispondeva ogni volta,
fortemente
convinto di quello che diceva.
Gli
adulti ormai non lo prendevano
più
sul serio e lo lasciavano immerso nel suo mondo.
Ma
ogni giorno la villa lo richiamava, e il bimbo tornava a far visita a
quei meandri maestosi.
Solo
in quei luoghi non aveva accanto la costante presenza di Sasori, ma
per tutto il resto del tempo giocava e scherzava con lui,
normalmente.
Lui
e soltanto lui sapeva come mettere piede in quella villa, e non
capiva perchè i suoi compaesani avessero paura ad entrarci.
Ma,
meglio così.
E
appena calava la notte, la sua figura trasparente continuava a
mormorare con le tende che adornavano quel corridoio.
“Lui, il fantasma di un bambino non conscio di esserlo.”
~ Fine
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ♠
Giudizio di Fabi_Fabi (contest Era un Sogno indetto sul forum di Efp)
Dodicesima
Classificata - Deidaradanna93 – Carillon – Premio
ambientazione
-
Grammatica
e sintassi: 9.4/10
Stile: 9.5/10
Originalità:
15/15
Caratterizzazione
dei personaggi: 15/15
Sviluppo della trama: 9/10
Gradimento
personale: 9/10
Utilizzo dei prompt: 8.8/10
Totale:
75.7
Dal
punto di vista grammaticale la storia è buona, soprattutto
considerata la lunghezza della stessa, ti elenco qualche piccolo
errore: 'una bestia, pronta a sferrare l'attacco non appena avrebbe
potuto avvantaggiarsi', qui sarebbe stato corretto 'avesse'; 'un
colore differente, ora irriconoscibile dallo strato di polvere', in
questo caso la frase andrebbe un pochino modificata, potevi scrivere
'reso irriconoscibile', o 'a causa dello strato di polvere. 'Vinceva
chi sarebbe riuscito ad acciuffare [... ]', 'avrebbe vinto chi fosse
riuscito', per quanto riguarda lo stile invece, devo dire che l'ho
apprezzato, ma le frasi spesso sono molto lunghe, piene di
subordinate, e la cosa le fa risultare, solo raramente però,
pesanti, il lessico è vario e molto ricercato, le
descrizioni creano
atmosfera, danno un tocco di magia in più al racconto.
Quindi nel
complesso lo stile è buono, a volte secondo me è
soltanto un po'
troppo impreziosito, arricchito di aggettivi e di particolari non
necessari che distraggono un po' dalla lettura. Indubbiamente la
storia è ben scritta, non prenderla come una critica
negativa, se
guardi il punteggio puoi capire che ho apprezzato lo stile, trovo
solo che in alcune parti sarebbe stato meglio che tu ti concentrassi
sull'immediatezza della trama e non sui particolari, un po' per
variare anche il ritmo che indubbiamente è molto importante
in una
storia che vuole tenere il lettore sospeso.
Sei
stata bravissima a contestualizzare l'AU, hai creato una villa che si
riesce quasi a 'vedere' leggendo la storia, hai curato l'ambiente e
le descrizioni in modo eccellente. Anche la trama è ben
gestita,
complessa al punto giusto, non priva di colpi di scena, come ad
esempio quello del finale, che mi è piaciuto moltissimo.
C'è
una scelta che hai fatto che non ho apprezzato o comunque che non ho
compreso fino in fondo, sono pignola e me ne rendo conto, ma
è una
cosa che mi ha lasciato dei dubbi ai quali non riesco a rispondere:
perché hai chiamato il pupazzo 'snow' e non neve? Il nome
aveva
senso appunto perché Deidara aveva imparato a scrivere
soltanto
quella parola e trovo che la tua scelta di tradurre il nome del
pupazzo faccia un po' perdere il significato di quella parola. Sempre
a proposito della trama,credo che avresti fatto meglio ad evitare il
riferimento al modo che Deidara aveva di pagare chi lo ospitava. L'ho
trovata una parte molto triste, in fin dei conti è un
bambino e un
argomento del genere non è da liquidare in poche righe,
secondo me.
Hai
caratterizzato bene i personaggi, anche quelli di contorno come ad
esempio il cacciatore e le donne del villaggio. Anche i protagonisti
hanno il giusto spessore, ma posso dire che il lavoro migliore l'hai
fatto proprio con la villa, che diventa un protagonista della tua
storia, contribuendo a creare quel senso di thriller che cercavi. Il
narratore esterno io l'ho identificato con la villa stessa,
è solo
un'interpretazione, ma trovo che questo renda l'idea di quello che
intendo nel dire che è esse stessa protagonista della
storia, non
solo luogo.
I
prompt sono inseriti, la citazione invece non è riportata
fedelmente.
I
versi della canzone sono perfetti per la tua storia, immagino che
siano stati il tuo punto di partenza, ti hanno permesso di sviluppare
una storia molto originale, densa di eventi e di colpi di scena.
Il
tema del sogno è parte della storia, la parte del sogno vero
e
proprio mette Deidara di fronte al suo passato, dando al lettore
un'idea di quello che può essere stato.
Giudizio di Watashiwa (contest World Het Pairing: The Great Songfic indetto sul forum di efp)
Prima Classificata e vincitrice
del Premio Emozioni - CARILLON-
LA VILLA MISTERIOSA
Una
song-fic davvero fantastica, in ogni aspetto. Quasi perfetta, oserei
dire. Una storia che tratta di uno shonen-ai pairing e di una
trattazione esemplare del comportamento. Narrazione fantastica,
descrizioni fine e complesse ma che esaltano un sacco e canzone per me
azzeccata. Stilisticamente parlando, è bella per la sua
lunghezza che riesce ad approfondire e rendere tanto, in ogni singolo
aspetto. Considerazioni ottime e che lasciano il segno e lascia spazio
ad un'acuta immaginazione e acuta drammaticità, complimenti,
davvero.
LA VILLA
Impaginazione:
5/5
Narrazione:
5/5
Descrizioni:
5/5
Sensazioni:
4.7/5
Originalità:
5/5
Grammatica:
4.8/5
Considerazioni
personali: 9.7/10
Stile:
9.8/10
Tot = 49/50
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ♠
Questa è la prima fan fiction che ho scritto per quello che doveva essere il mio primo contest (su Michael Jackson, ecco spiegato l'inserimento della canzone, Thriller), che sfortunatamente è stato annullato per mancanza di partecipanti. Fino ad ora sono rimasta con la voglia di far partecipare questa storia, su cui devo dire ho sprecato un sacco di energie, ad un contest, e questo mi ispirava davvero tanto, anche perché potevo riuscire ad adattare il racconto ai prompt, alla frase e al tema: il sogno. Ringrazio infinitamente la giudice per il suo lavoro accurato, per la sua disponibilità e per aver naturalmente organizzato questo bellissimo contest. Il giudizio, a mio parere, rispecchia perfettamente questa mia storia, nelle sue mancanze e nei suoi aspetti positivi. Perché sì, ero cosciente delle pecche di questa mia vecchia storiella, devo dire che io stessa ho storto un po' il naso rileggendola. Ora, devo dire, ho cambiato decisamente stile XD
Ringrazio ancora la giudice, Fabi, per questo giudizio esauriente e preciso, in cui riconosco pienamente questa fic, che ora posso definitivamente dichiarare compiuta.