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Autore: uchihagirl    16/03/2010    3 recensioni
La vita di Cook era sempre stata una corsa a perdifiato.
CookCentric, implica CookEffy e massicci spoiler della quarta serie, fino alla puntata 4x03. Fanfiction partecipante all'iniziativa "2010: A Year Together" indetta dal Fanfiction Contest.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Elizabeth Stonem, Freddie Mclair, James Cook, JJ Jones
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Questa fan fiction è zeppa di spoiler della quarta serie, fino alla puntata dedicata a Cook: la lettura è consigliata a chi ha già visto la 4x03, perché risulta più comprensibile e, ovviamente, non spoilera nulla xD.




Runner – 16 Marzo.





“No. Io non sono migliore di tuo padre. Tu lo sei: non scappi dalle persone che hanno bisogno di te.”
 JJ a Cook, 3x10 Finale





La vita di Cook era sempre stata una corsa a perdifiato.

Aveva corso sin da bambino, guardando tra gli spalti in cerca di lei, rincorrendo una palla bianca e nera: “Jimmy”, come lo chiamava sua madre, non si stancava mai di combattere, non aveva paura di buttarsi, non temeva le ferite. E se anche cadeva, si rialzava dalla polvere con un cipiglio agguerrito e riprendeva a giocare con più grinta di prima, incitato anche da qualche sporadico “Vai, Jimmy!” - musica per le sue orecchie.
“Jimmy” aveva un bel suono. Lo stesso del complimento di Ruth, concesso con un sorriso, per il goal segnato; era solo una frase di circostanza, buttata lì tra un sorriso e un occhiolino all’allenatore della squadra junior, ma a Jimmy non era mai importato più di tanto: era bello, il suo complimento.
E anche quel soprannome era bello, tanto che, per la finale di campionato, lo aveva voluto sulla maglietta: così, se faccio goal, lo posso dedicare a mamma. La partita cominciava alle tre, gli spalti erano gremiti di gente alle due e mezzo; alle quattro meno un quarto lei non era ancora lì. A pochi minuti dalla fine, James aveva scorto una testa rossa tra la folla e ingranato il turbo, mettendo in rete la vittoria e indicandosi con i pollici la schiena: è per te, ma'. E quando l’aveva trovata negli spogliatoi, con le mani nelle mutande dell’allenatore e troppo alcol in corpo per ricordarsi di qualsiasi cosa, Jimmy si era tolto la maglia e l’aveva lanciata lontano, sul ciglio della strada, per poi cominciare a correre, con le sue gambe fatte per rincorrere le nuvole: da quel momento in poi, si sarebbe chiamato Cook.

Aveva corso quell’ultima epica notte di sfacelo in cui sua madre lo aveva sbattuto fuori di casa, maledicendo il giorno in cui aveva partorito quell’ingrato coglione, figlio degno di suo padre. Lui se n’era andato ridendo, troppo inebriato dal senso di libertà, dato dalle numerose pasticche che gli fottevano la testa, per riuscire a distinguere le urla disperate di Paddy da quelle rabbiose e annaffiate di Ruth.
Si era svegliato il giorno seguente, nel capanno di Freddie, un senso di vuoto nel petto, lì, dove fino al giorno prima stavano, rassicuranti, le risa ammirate di Pads. Non aveva più una casa, aveva perso definitivamente sua madre e abbandonato suo fratello: non gli rimanevano altri che Fred, JJ e le buste di MDMA nella tasca dei pantaloni – anticipazione del suo glorioso futuro. Si era rialzato, si era asciugato le lacrime e aveva ricominciato a correre, non riuscendo più a fermarsi.
JJ e Freddie lo avevano accompagnato per un bel pezzo, da quel giorno, impedendogli di finire fuori strada, di rovinare nella scarpata: erano le sue balaustre, il suo unico punto di riferimento per non cadere del tutto.
Poi però, mentre lui rideva, urlava di più, tratteneva lacrime e riempiva la testa di tutto tranne che di pensieri, era arrivata Effy; per lei, se ne erano andate le – poche - certezze che Cook aveva: i suoi due amici - Brothers for life, vero, Freddie? -, e se stesso. Si era rispecchiato in lei più che in nessun altro, credendo di aver trovato qualcuno con cui correre. Ma benché si capissero bene e sembrassero molto simili – entrambi sempre in viaggio, irrequieti, con il cuore pesante e il sorriso leggero -, le scelte opposte che compivano li rendevano diversi: Cook sceglieva di rischiare, Effy di indietreggiare.
Perché lui non aspettava altro che riuscire a fermarsi, finalmente, e mettere radici; desiderava solo sdraiarsi e guardare le nuvole passare, senza più inquietudini, senza essere obbligato a rincorrerle, avendo già trovato il suo posto nel mondo. Effy era spaventata a morte dall’idea di sedersi e trovare la felicità tanto anelata; temeva che, una volta raggiunta, questa l’avrebbe delusa e ferita, costringendola a riprendere il suo vagare con una gamba rotta: avrebbe fatto più male e la serenità, prima della caduta, l’avrebbe resa soltanto più debole.
Cook rincorreva le nuvole, cercando di colmare il vuoto nel petto, a cui non si rassegnava; avendo imparato a convivere senza la serenità e temendo il dolore che perderla avrebbe causato, Effy fuggiva dalle nuvole.
Questo però Cook l’aveva capito soltanto nel momento in cui aveva notato la tristezza nei suoi occhi chiari, sul sedile di quella macchina rubata, come risposta alla sua frase – tutto sommato – fiduciosa: “Siamo sempre io e te, saremmo sempre io e te.” Lui stava correndo verso qualcosa, pieno di speranza: andava verso un mondo che li avrebbe trattati meglio e che avrebbero affrontato insieme. Al contrario, Effy stava scappando dai suoi sentimenti e lui non avrebbe mai potuto fare nulla per convincerla a sedersi accanto a sé: la decisione era solo sua. Ed Effy aveva scelto Freddie, quella sera.
Il fatto che Cook conoscesse già i sentimenti della ragazza non lo aveva affatto protetto dalla fitta al cuore che lei, con un lieve movimento del capo e uno sguardo, era riuscita a infliggergli. Quello sguardo azzurro ormai lontano dal suo viso aveva decretato la sentenza; così, sputando insulti e lacrime, se ne era andato da quella stanza, con una bottiglia di vodka in mano, ed era andato a cercare rifugio da un altro Cook, solo quanto lui. Purtroppo, anche sapere già che suo padre era un egoista coglione non era stato d’aiuto: avrebbe preferito sentire il dolore del fumogeno che gli bruciava la guancia piuttosto che quelle parole: “Non me ne frega un cazzo,figliolo, non ti ho mai voluto davvero.” Facevano un fottutissimo male e rimanevano indelebili sotto la pelle – “Cook”, recitava la scritta sulla sua mano destra -; con Effy e Freddie persi l’uno negli occhi dell’altra e JJ al timone della barca rubata di suo padre, a Cook non era rimasto altro che riprendere la sua corsa, di nuovo.
Quel giorno sul fiume qualcosa era cambiato dentro di lui e, prendendo Eff come esempio, aveva cominciato a scappare per non sentire più tutto quel dolore del cazzo; aveva rubato macchine, fumato, bevuto, vomitato, ingoiato pasticche colorate dello zio Keith, pianto; aveva sputato con amarezza, scopato con rabbia e riso con incoscienza: aveva corso sempre più velocemente, con lo sguardo pieno di lacrime rivolto verso il cielo, in una muta preghiera. Il solito vecchio Cook, con un tatuaggio in più e altre, nuove, brucianti cicatrici, che tanto aveva fatto, di cui nulla era rimasto.
Ma dalla notte di Shanky tutto aveva preso una piega inaspettata: la prigione prima, sua madre dopo. Lei, Ruth, non era cambiata per nulla: la solita sexy, ingombrante, alcolizzata, non-madre artista dai capelli rossi che gli aveva sbattuto la porta in faccia con in mano una bottiglia di Pinot Grigio. Paddy invece era cresciuto molto, a suon di “Ace of Spades” e di gemiti osceni al piano superiore, quel piccolo nano dai piedi puzzolenti e il sorriso ingombrante, e aveva preso quasi tutto da lui: l’aria furbetta, le orecchie, il modo in cui gridava “Fanculo alla mamma!”. Usavano lo stesso tono e lo stesso sguardo: rabbia, contro quella macchina.
Fu solo allora, vedendo il suo fratellino fottersi il cuore dal dolore, e gridare, e maledire sua madre, che Cook capì che, forse, era il caso di fermarsi. Gliel’aveva già detto Freddie – qualsiasi cosa tu stia facendo, puoi smetterla, amico –, poco prima, ma solo allora sentì davvero il bisogno di farlo; non per sé, per Pads. Perché mentre Cook era impegnato a correre e a cercare, a straziarsi per Effy, a buttar giù pasticche, lontano da quella casa, lui era rimasto con Ruth e aveva passato ogni sera a vederla divisa tra bottiglia e lenzuola - com’era successo a James prima di lui. Avevano la stessa storia, loro due: nessun altro capiva. Ma non era necessario che la storia di Pads finisse come quella di Cook, ridottosi a picchiare a sangue il primo sconosciuto che passava sotto il suo pugno perché tutti si facevano solo i cazzi loro, trattandolo di merda. Non era necessario che seguisse il suo esempio, ma l’avrebbe fatto; James lo sapeva e, benché lo ferisse ancora una volta, decise di far crollare a Paddy il suo mito. Decise di fermarsi – sotto un albero, su una coperta, con Naomi affianco – e di chiedere scusa. A Shanky, a Sophia, a Freddie.
La prigione era un buon posto dove dare una svolta alla propria vita, dove smettere di scappare: quando sarebbe uscito – pensava dalla sua cella senza finestre e senza foto di Eff – avrebbe ricominciato a rincorrere le nuvole, con le sue gambe fatte apposta, andando alla ricerca, ancora una volta, di un'occasione.









Un semplice tributo al mio personaggio preferito di tutto Skins, il mitico Cookie; credo che su lui e Freds arriverà presto un’altra fan fiction: stay tuned, gente!
Grazie a chi leggerà e eventualmente commenterà. Un abbraccio a Kaho, fantastica beta <3
Elena

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Fanfiction partecipante all’iniziativa “2010: a year together” indetta dal Fanfiction Contest – prompt scelto: aveva gambe fatte per rincorrere le nuvole.
   
 
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