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Autore: AkaneTachibana    19/03/2010    0 recensioni
Una rivisitazione in salsa moderna di una delle opere di Shakespeare
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”

E’ un proverbio noto a tutti, ma io preferisco avvalermi solamente della prima parte soltanto. Non sono un tipo geloso, non lo sono mai stato. Mi piace fidarmi delle persone a tal punto che le mie ragazze, non vedendo in me tracce di gelosia, arrivano a pensare che non provi niente per loro. L’animo delle donne è davvero complicato, un uomo, ed io su tutti, non riesce proprio come si possa arrivare a simili conclusioni da tali constatazioni. Non ci si può fare niente: io sono fatto così, in fondo basta non dare peso a questa cosa, basta capirlo. Sono sempre stato così e sempre lo sarò. Ora, però, che mi soggiunge una volta…

 

Quell’anno come gita scolastica avevano scelto Parigi. Grande scelta, non c’è che dire. Io e la mia ragazza frequentavamo la stessa scuola, ma in classi diversi, sicché dovetti andare non accompagnato. Non era una bella prospettiva: un viaggio nella città dell’amore senza compagna. Sei giorni, comunque, sarebbero passati in un attimo e al mio ritorno avremmo festeggiato un anno di relazione, un gran traguardo, no? Fu una gita piacevole e oltretutto un giorno girando per gli angoli meno conosciuti della città trovai un piccolo mercatino e ad una bancarella una serie di bandane. La immaginai già legata ai capelli di Lei, che li portava legati molto in basso, lasciando la massa di capelli molto voluminosa fino all’altezza delle spalle. Quelle bandane colorate avrebbero ulteriormente valorizzato quei favolosi capelli. Ne scelsi una in cui prevaleva il verde, un verde chiaro, quasi acqua marina. Il colore dei suoi occhi.

Tornato a casa non mancava altro che festeggiare quel fatidico anniversario. La portai fuori a cena, chiaramente cenetta a due al lume di candela in un locale très chic (da notare il francese che avevo imparato in quei pochi giorni). Tutto perfetto. Parlammo del più e del meno per tutta la sera, subii l’interrogatorio sulla gita, anche perché, io non mostravo alcun segno di gelosia, ma lei faceva le veci di entrambi. Finalmente arrivò il momento di consegnarle i due regali, il secondo lo avevo comprato subito dopo il mio ritorno in terra italica. Una collanina d’oro con un pendaglio a forma di cuore. Rigorosamente di oro bianco, non so perché, ma mi sembra più fine rispetto al giallo. Per la consegna dei regali avevo progetto un piano: avrei fatto finta di andare in bagno e glieli avrei fatti consegnare dal cameriere, di sicuro non avrebbe resistito fino al mio ritorno ad aprirli e così avrei potuto vedere la Sua vera reazione. Così fu. Ne rimase estasiata, o così almeno diede a vedere. Si mise subito la collanina al collo e si fermò a rimirare  l’altro regalo. Al mio ritorno mi saltò letteralmente al collo e mi ringrazio per quegli splendidi regali, come li aveva definiti Lei. Sembrava quasi aver apprezzato di più la bandana, nonostante il valore meramente economico minore. Se la legò al polso per quella sera.

Tutto filò liscio, è il caso di dirlo, per un mesetto, la nostra storia non sembrava avere pecche e Lei era sempre la stessa. Lei era sempre quella della prima volta, che mi faceva ridere, mi stimolava e tirava fuori il meglio di me. Quella che mi aveva fatto innamorare.

Poi un giorno uscendo  di palestra grondante di sudore per la frenetica attività sportiva, passai accanto al campetto di basket lì vicino. Vidi il Suo migliore amico che giocava a basket, faceva parte della squadra della scuola e non era difficile vederlo circondato da gallinelle che cercavano unicamente l’attenzione del personaggio famoso di turno. Ah, la fama! Lo vidi spiccare il volo e depositare la palla all’interno del cerchio rosso, mentre il difensore incapace di poter far qualcosa veniva inesorabilmente scaraventato a terra. Che giocata! Quando la meraviglia per la splendida azione passò notai un particolare che non avevo colto prima: indossava  una bandana molto colorata e stranamente familiare. Ci misi qualche attimo a riconoscerla: era il fazzoletto che Le avevo regalato. La rabbia montò nel mio corpo e riuscii a trattenerla a malapena quell’incandescente vulcano d’ira. Fui quasi sul punto di entrare di entrare in campo, prendere a cazzotti quel bastardo e recuperare quel dono che avevo fatto a Lei, ma preferii non fare niente. Avrei agito in un’altra maniera. Risi perfidamente fra me e me e quella cosa mi riempì di una strana gioia: la vendetta sarebbe arrivata.

Tornai a casa in autobus, continuando a rimuginare tra me su cosa fare. Il vetro accanto al posto in cui ero seduto era scritto con della cancellina e per il nervosismo mi misi a cancellare tutto, ma il risultato non fu il massimo, sicché estrassi il mio trincetto ed iniziai a grattare per togliere ogni residuo di quella sporcizia da grafomane. Non notai che tutti mi guardavano intento nelle mie azioni, proprio perché stavo rigando tutto il vetro per cancellare per pulire un vetro da una scritta. Ma finalmente sarebbe stato pulito, proprio come sarebbe stato punito quel peccato di lussuria fra poche ore.

Arrivato a casa, dovetti correre in bagno, il nervosismo a volte mi faceva quell’effetto. E poi ponderare una vendetta seduti sulla tazza del cesso dava una certa soddisfazione.

L’avrei vista quella sera, i Suoi non erano in casa e sarei andato a trovarla direttamente a casa Sua. Il sapore della rivincita si fece più intenso nelle mie narici, ne fui inebriato, mi rese ebbro. Mi cullai ancora per qualche attimo in quei dolci pensieri, quando osservando il termosifone in ghisa alla mia destra, notai una piccola sbavatura nella vernice. Avete presente quelle goccioline dure, che all’apparenza sembrano facili da staccare, ma in realtà non lo sono per niente? Provai con le unghie, scalfendola alla base, ma niente. Continuai finché non portai a compimento il mio dovere sul sanitario, ma non rinuncia all’altro compito di cui mi ero fatto carico. Scesi giù in garage, afferrai un martello ed uno scalpello e tornai in bagno. Iniziai a martellare con veemenza, dieci, venti, trenta colpi, i detriti cadevano a pezzi inondando il pavimento di polvere bianca. Poi presi il pezzo di termosifone a cui era fissata la goccia e lo tirai nel wc, facendo partire lo sciacquone. Il detrito rimase incastrato. Guardai l’ora, era tardi, dovevo prepararmi. Mandai il martello e lo scalpello a far compagnia al detrito e tirai di nuovo l’acqua.

Alle otto fui davanti casa Sua, passai la mano sul viso, nascondendo i miei pensieri come un novello illusionista, e con la solita faccia sorridente suonai il campanello. Mi aprì,  mi fece entrare e andammo nella Sua stanza. Lei si sdraiò sul letto, io mi sedei sul divanetto. Chiacchierammo un po’, poi mi avvicinai, appoggiandomi sul materasso col ginocchio e accostandomi a Lei. La baciai, una, due, tre volte e una quarta.

“Ti amo” gli dissi dolcemente e lei rispose con un semplice “Anche io”.

La baciai di nuovo, questa volta inoltrandomi nella sua bocca con la mia lingua, poi ritraendola e facendo avanzare la Sua. Strinsi con forza la bocca, serrando tra i denti la Sua lingua. Gridò, ma non si capì cosa, le parole erano strozzate dalla mancanza di libertà della lingua. Le avevo reciso la punta, la sputai a terra. La guardai, sanguinare sul chiarore di quel costoso parquet.

Il sentimento di quel pomeriggio riaffiorò più intenso. Lei, Lei, Lei.

“Tu, tu,  tu”

Mi guardò terrorizzata, gli occhi fuori dalle orbite, ma non aprì bocca. Cercava di spingersi con mani e piedi verso il muro, ma il dolore probabilmente rendeva troppo ardua quell’azione. Sembrava un pesce che si dimenava fuori dall’acqua.

“Dov’è il fazzoletto che ti ho regalato? L’hai dato a Lui?”

Il suo sguardo mutò ancora, vidi in quelle retine marittime il suo pensiero. Credeva che fossi pazzo, ma non lo ero, non lo ero sicuramente. Non ero io, il pazzo.

“Cosa?” Mi chiese in sussurro di paura. Quelle parole aumentarono la mia ira, le mani iniziarono a fremere. Strinsi i pugni, finché le unghie non mi penetrarono nella pelle, ma non sentii alcun dolore. La mia furia era al di là del dolore.

“Il fazzoletto! Dov’è?”

“Non ce l’ho”

“L’hai donato a lui? Non negare”

Abbassò lo sguardo, senza dire niente, ma cercò con più vigore di allontanarsi. Non riuscii più a trattenere i miei arti che scattarono verso di lei. Gli salii addosso, impedendole ogni movimento e mi guardai intorno. C’era un coltello sulla scrivania, feci per allungare la mano, ma ci ripensai: non volevo macchiare quello stupendo copriletto. Scelsi un metodo meno truce. Le miei mani scattarono verso il collo di Lei e si serrarono intorno ad esso.

“Tornerò ad amarti quando sarai morta”

Emise un acuto urlo, pieno di dolore e attaccamento alla vita. Cercò di ribellarsi, riuscì a divincolare una gamba e a colpirmi nelle parti basse. Il dolore mi costrinse a lasciare la presa. Lei scivolò di lato e cercò di uscire dalla porta chiusa. Non si era accorta che la avevo chiusa subito dopo essere entrato. Cercò la chiave con lo sguardo. Non c’era. Si voltò. Gli occhi di una gazzella in trappola, braccata da vicino da un leone. Lo sguardo di colei che sa che non uscirà mai con i suoi piedi da quella stanza. Le fui subito addosso, ma prima mi permisi una risata, per la sua ingenuità. La colpii in viso col dorso della mano e poi la scaraventai di nuovo sul letto. La colpii ripetute volte, questa volta non doveva ribellarsi. Non aveva il diritto di ribellarsi. Non dopo quello che aveva fatto. C’era solo un modo di espiare la propria colpa. Uno solo. La afferrai per il collo,  le mie mani si serrarono su quello splendido bianco collo che tante volte avevo baciato. Ritrovando un briciolo di coraggio cercò di urlare ancora, ma il suono Le rimase strozzato in gola. Si dimenò con le ultime forze, ma presto il corpo si accasciò sul letto, totalmente privo di vita. Quello splendido corpo si adagiò candidamente sul materasso. La liberai dalla mia presa e mi avvicinai dolcemente alle sue labbra. La baciai. La guardai in viso, con quei colpi lo avevo rovinato. Avevo rovinato quello splendore. Quella bellezza non sarebbe perdurata alla morte. Una lacrima solcò il mio viso e si depositò sul rossore ormai evanescente della sua guancia.

“Ti amo” Le dissi ancora, un’ultima volta. Non rispose. “Chi tace acconsente”

 

La ritrovarono senza  vita distesa su quel letto di morte con quello splendido copriletto  che avevo sempre amato, tanto quanto lei, o forse di più; accanto a lei, ai piedi del letto, il mio corpo, anch’esso privo di vita.

  
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