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Autore: baka_the_genius_mind    19/03/2010    7 recensioni
Aoi ha sempre vissuto nel buio, al freddo e isolato dal mondo. Quando la luce per la prima volta fa capolino nel suo cuore gli sembra di morire.
Uruha ha sempre vissuto sotto ai riflettori, scaldato dall'amore e dalla famiglia. Quando questo calore manca all'improvviso gli sembra di morire.
Quale sarà il prodotto dell'unione fra Tenebre e Luce?
[Dedicata ad Aelite.]
[Terzo Capitolo: Otanjobi Omedeto, Aelite.]
[Quinto Capitolo: Auguri, Aelite. E mille volte arigato.]
Aggiunto avviso dell'autrice.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aoi, Uruha
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo Uno •

Why don't you get out of my life?




- Aoi -




Ryo era, come al solito, silenzioso come una tomba.

Non che fosse una persona particolarmente fredda e scontrosa; chi lo conosceva bene -e io potevo vantarmi di ciò- sapeva perfettamente che aveva un cuore immenso, il più grande che un essere umano potesse vantare.

Ma aveva questa insopportabile preponderanza al silenzio.

Io odiavo il silenzio.

«Dimmi perchè l'hai fatto.»

La sua voce mi colpì con la forza di uno schiaffo.

La suoneria del mio cellulare aveva cominciato a suonare nell'esatto momento in cui i passi dello sconosciuto sulla ghiaia si erano fatti così deboli da sfuggire anche al mio udito finissimo.

Quando avevo risposto, Ryo era rimasto in silenzio per una lunga manciata di minuti.

«Dimmelo, Yuu. Esigo sapere perchè l'hai fatto.»

Non avrei saputo dire quanto tempo era passato prima del suo arrivo, ma a me erano parse ore.

Il freddo aveva cominciato ad aggredirmi non appena mi aveva chiuso la chiamata in faccia, congelando tutto ciò che aveva trovato fino al midollo. La sua rabbia mi aveva mortificato a tal punto che le gambe avevano cominciato a tremarmi ed ero stato costretto a sedermi.

La sua improvvisa morsa al mio gomito e la sua voce furiosa che mi aveva intimato di muovermi avevano avuto su di me il potere di una doccia calda.

«Yuu.»

Sospirai, chiudendo gli occhi. Nel corso degli anni mi ero accorto di un impercettibile cambio di sfumatura dal buio che avvolgeva la mia vista normalmente alle tenebre in cui mi chiudevo serrando le palpebre. Un piccolissimo grado di scuro, un'infinitesimale tonalità più opprimente.

Il mio rifugio era chiudere quegli occhi ch'erano stati fin dalla nascita la mia dannazione.

Mi sembrava che niente potesse scalfirmi se li chiudevo.

«Vi ho sentiti.»

Se ebbe una qualsivoglia reazione, non fui così accorto da registrarla.

«Tu e Yutaka stavate facendo l'amore.»

L'auto inchiodò improvvisamente. Lo sentii uscire sbattendo la portiera e pochi istanti dopo mi trascinò giù dalla vettura molto rudemente. Era furioso.

Credetti che mi rifilasse anche uno schiaffo (e io, in fin dei conti, l'avrei accettato senza fiatare), ma tutto ciò che sentii furono le sue braccia, chiudersi una attorno alla mia vita e l'altra cingermi le spalle.

«Sei uno stupido, Yuu.»

Accennai un sorriso contro la sua spalla.

Non era arrabbiato con me.

Risposi al suo abbraccio, sollevato.

Puntualmente quando mi dava dello stupido era incazzato con se stesso con la forza di un vulcano in eruzione. Oramai ci avevo fatto il callo.

«Non volevo farti preoccupare, Ryo.»

«E io non volevo ferirti. Maledetto il giorno in cui ti sei innamorato di uno stronzo come me.»

Maledetto il giorno in cui ti ho fatto conoscere Yutaka.

Mi tenni i miei pensieri per me, ma fui certo che li avessi indovinati. Lo sentii sospirare e poi allontanarmi lentamente da sé.

Da quando ci eravamo lasciati, Ryo mi teneva lontano come fossi una bestia repellente.

Fin dal primo, goffo bacio che ci eravamo scambiati, nessuno dei due era stato capace di allontanarsi dall'altro per più di qualche minuto; mio fratello ci prendeva spesso in giro perchè ci sfioravamo con ogni più piccolo pretesto. E quando realmente non esisteva una scusa plausibile o non, ci toccavamo per il semplice gusto di sentire l'altro vicino.

Il fatto che lui cercasse sempre un contatto, che fosse sempre preoccupato di farmi sentire la sua presenza, mi sembrò all'epoca la cosa più gentile che qualcuno avesse mai fatto per me.

Poi ci eravamo lasciati e avevamo interrotto quel delicato ingranaggio fatto di carezze e sfioramenti.

Rettifico.

Poi io l'avevo lasciato e lui aveva semplicemente smesso di toccarmi, anche solo per passarmi un bicchiere d'acqua.

Certo, se mai avessi avuto bisogno lui sarebbe sempre stato più che pronto a tendermi una mano (avevamo condiviso troppo perchè non fosse così), ma i bei giorni in cui mi vedevo costretto a chiedergli gentilmente, e con un certo divertimento, di lasciarmi per poter andare in bagno erano finiti e di loro non rimaneva che uno splendido ma opaco ricordo.

Sentirlo nuovamente così vicino mi diede un'effimera sensazione d'appagamento.

Ma non ero assolutamente pronto a ciò che fece dopo.

Le sue labbra mi aggredirono rudemente, catturandomi in un bacio improvviso quanto desiderato.


«Sì! ...mnh, sì, Yutaka...»


Lo scostai da me bruscamente, respirando a pieni polmoni come se mi avessero tenuto la testa sott'acqua fino a quel momento. Cercò di riavvicinarsi a me, afferrandomi il gomito, tirandomi verso di lui.

Mi divincolai con la forza di una bestia in gabbia, ringhiando quasi, brancolando nel mio buio.

«Lasciami, Ryo, lasciami!» sussurrai, improvvisamente terrorizzato dalla sua presenza. Il suo corpo perse istantaneamente il suo dolce calore e diventò freddo come un pezzo di ghiaccio.

Mi afferrò entrambe le spalle con le mani, scuotendomi come una bambola di pezza.

«Perchè non vuoi uscire dalla mia vita, Yuu? Perchè

No, no, no!

Diedi un forte strattone urtando col collo del piede il primo degli scalini che portavano al nostro appartamento, terminando così la mia folle corsa a terra. Non vidi certo a cosa andavo incontro, ma mi sentii scivolare dentro un folle oblio e non feci nulla per evitarlo.

Non cercai neanche di gettare le mani avanti per proteggermi; mi lasciai cadere sulla scalinata, colpendo con violenza il fianco contro lo spigolo del gradino e graffiandomi le mani e la guancia. Avevo la testa colma di milioni di fischi e scoppi, la mente invasa da rumori indefiniti, i sensi offuscati da un leggero tremore che aveva soggiogato ogni singolo muscolo di cui disponevo. Compreso il cuore.

Perchè non vuoi uscire dalla mia vita, Yuu?

La padronanza dell'udito che mi permetteva di orientarmi in quel mondo buio mi abbandonò all'improvviso lasciandomi solo nel mio confusionario terrore. Credetti di morire.

«Yuu?»

La voce di Yutaka fu la scarica di amore che riportò ordine nel mio cervello. Il ronzio andò quietandosi, il dolore al fianco affievolendosi. In compenso, una densa cascata di lacrime bollenti mi rigò le guance, sommandosi alla pazza vergogna che mi aveva invaso quando ero inciampato.

«Yutaka...»

Quasi piansi il suo nome, pregando gli dei meschini di portarlo da me.

Sentii le sue dita fra i capelli, leggere come la prima volta che mi avevano accarezzato, quel maledetto giorno di anni e anni prima. Scivolò lentamente al mio fianco, avvolgendomi con le sua braccia. Mi abbandonai al suo calore singhiozzando.

Il suo profumo.

Quel profumo delicato e umano non l'avrei mai dimenticato.

Avevo dimenticato l'odore acre della lacca di mia madre, quello dolce delle canne di mio fratello; avevo dimenticato l'odore delle lasagne, quello dell'abbraccio di mia sorella. Avevo dimenticato l'odore dello sgabuzzino dove, da ragazzo, mi nascondevo a piangere lacrime amare dai miei orrendi occhi vuoti.

Col tempo avrei dimenticato anche il profumo di Ryo.

Ma quello di Yutaka era una guida, come una guida era la sua voce, le sue mani, la sua esistenza.

Era la mia bussola, il mio Nord, il mio Sole e la mia Luna e nulla avrebbe cambiato ciò.

Neanche il fatto che si fosse innamorato, ricambiato, dell'uomo che amavo.




«Quando ti deciderai a parlare?»

Sospirai.

Yutaka stava cercando di disinfettarmi i polsi che ero in ogni modo riuscito a sbucciarmi.

Il lungo graffio che sentivo rigarmi la guancia pulsava fastidiosamente.

Ryo era entrato in salotto silenzioso come un'ombra, aveva poggiato sul divano l'occorrente per la mia medicazione e se ne era andato senza un fiato.

Io odiavo il silenzio.

«Non c'è nulla da dire.»

«Ti adora, Yuu. Stravede per te. Voglio sapere cosa l'ha fatto infuriare a tal punto.»

Aveva senso dirgli che li avevo sentiti amarsi appassionatamente? Che Ryo era venuto a prendermi e che aveva tentato di baciarmi? Che mi aveva supplicato di uscire dalla sua vita?

«Niente.»

Il suo sospiro mi sfiorò la fronte.

Ero appoggiato di schiena al suo torace, il cuore mi batteva lento e rassicurante contro la colonna vertebrale. Se prestavo sufficiente attenzione riuscivo a cogliere il flemmatico tu-tum che scandiva la sua vita.

«Dove sei stato?» mormorò dolcemente al mio orecchio.

Dei maledetti, perchè avete creato il più acerrimo dei miei nemici così incredibilmente angelico e amabile?

Mi ero sentito dire di tutto in clinica.

Mi era stato detto che in pochi anni il disturbo si sarebbe evoluto fino a togliermi anche udito e olfatto.

Mi era stato detto di rassegnarmi (da persone che, ovviamente, vedevano ogni giorno il Sole nascere).

Mi era stato detto che la cecità da incidente era mille volte peggio e che dovevo ritenermi fortunato.


Fortunato.


Yutaka aveva solo venticinque anni quando era rimasto cieco da entrambi gli occhi.

Anche per lui, come per me, qualsiasi complesso e delicato intervento sarebbe stato inutile. I suoi nervi ottici erano fasci di fibre morte, come morta era tutta una zona del suo cervello che fino a quel maledetto giorno aveva lavorato instancabilmente per garantirgli la vista.

Mi era stato detto che coloro che rimanevano ciechi dopo aver visto le meraviglie del mondo di dividevano in due categorie.

Coloro che non ne sarebbero usciti. Coloro che avrebbero rifiutato ogni aiuto, tagliato i ponti col mondo e deciso che la vita senza vista non valeva la pena di esser vissuta. Il più alto numero di suicidi fra i malati cronici si concentrava, allora, su questa grande percentuale di persone che avrebbero, prima o poi, smesso di desiderare la vita.

Il secondo gruppo era un infimo numero di persone la cui forza interiore avrebbe potuto scuotere la Terra dalle fondamenta con un fragore tale da far sobbalzare gli dei nel cielo.

Yutaka apparteneva a quest'ultimo gruppo.

L'incidente aveva come spazzato via ogni più piccolo difetto di cui -dubitavo anche a crederci- doveva essere stato dotato anche lui.

Yutaka era perfetto.

«Da nessuna parte.»

Fece passare le mani sul mio ventre, intrecciandole l'una con l'altra.

«Yuu.» soffiò piano.

«Yutaka mi prometti una cosa?»

Cercai faticosamente di voltarmi nel suo abbraccio, prestando un'immensa attenzione al corpo che sentivo vivere sotto di me.

Neanche una settimana prima Yutaka era caduto nuovamente dalle scale. Il fianco sinistro gli era molto dolorante e cercavo di evitargli ogni più piccolo fastidio. Soprattutto perchè comprendevo come fosse stato mio l'avvilimento che doveva aver provato.

«Cosa?.»

Nascosi il volto nell'incavo del suo collo, riempendomi le narici del suo profumo.

«Non sentirti mai in colpa per me. Non ne vale la pena.»

«Dimmi tutto, Yuu. Ma non tollererò che tu ripeta una seconda volta una cosa del genere.»

Talvolta, molto spesso durante quel limbo di pensieri che confusi che rappresentava il mio riemergere dal sonno, mi ero ritrovato a chiedermi cosa sarebbe successo se non avessi mai conosciuto Yutaka.

«E tu me lo fai un favore, Yuu?»

Un sorriso sciolse la tristezza del mio volto; con le dita sfiorai il suo braccio nudo, percorsi con lenta calma il polso e il gomito, scivolando sulla sua spalla. Raggiunsi il suo viso e mi fermai a accarezzargli la guancia con l'indice.

«Qualsiasi cosa, Yutaka. Lo sai che tirerei giù il cielo per te.»

Sentii il suo sorriso, le fossette che gli solcavano dolcemente le guance solleticarmi i polpastrelli.

«Mi suoni il piano?»

Quasi piansi dalla gioia.

Scattai in piedi, cercando alla ceca le sue mani, stringendole tanto che pensai per un attimo di avergli fatto male.

«Anche il cielo per te...» mormorai rapidamente.

Dovetti proprio impormi di fare con calma per evitare qualsiasi colluttazione e quando sentii sotto alle dita il sellino ridacchiai sottovoce. Quei tasti lisci era al loro posto, fedeli al loro padrone. Li sfiorai come una madre avrebbe sfiorato il volto del suo bambino.

Poi tesi una mano fino ad incontrare la marca incisa nell'ebano. Sfiorai le lettere che componevano quel nome: giusto sotto quell'intricato intreccio di segni che Ryo mi aveva spiegato essere una a occidentale, sapevo di trovarci il do centrale.

Improvvisamente, una malvagia serie di voci mi sconvolse l'udito e ritrassi le mani dal piano come se questo scottasse.

«Perchè non vuoi uscire dalla mia vita, Yuu?»

Suonai quasi per sbaglio un'unica e desolante nota, che riconobbi all'istante come la più malinconica di tutta la scala.

«Yuu?»

«Perdonami se puoi, Yuu. Altrimenti dimenticami.»

Come se pensasse davvero che sarei stato in grado di dimenticarlo.

«Mi odio, Yuu.»

Non ci avevo mai creduto. Nessuno avrebbe mai potuto odiare un angelo come Yutaka, nemmeno lui stesso.

«Vivi, Yuu. Ti supplico, fallo per me.»

Trattenni un muto singhiozzo, lasciando che solo una lacrima (l'ennesima, stanca e vuota lacrima che avevo versato da quel maledetto giorno) scivolasse sulla mia pelle per cadere poi nel buio che mi avvolgeva.


Perchè non vuoi uscire dalla mia vita, Yuu?








- Uruha -




Takanori era seduto sull'ultimo scalino della gradinata che portava al mio attico.

Stava sgranocchiando qualcosa, molto assorto nella lettura di non so che giallo americano. Gli occhiali continuavano a scivolargli sul naso e lui se li risistemava con flemma, quasi con indifferenza.

Mi piantai davanti a lui, qualche scalino sotto quello su cui era seduto. Sospirò lentamente, rimettendo il libro e quello che riconobbi come un sacchetto di noccioline nella tracolla. Si tolse poi gli occhiali, rivelando così un paio d'occhi per il quali, fino a qualche minuto prima, avrei invertito l'ordine delle stagioni.

Non riuscivo a togliermi dalla mente quelle iridi color temporale.

Possibile che un minuto scarso d'incontro fosse riuscito a spodestare quelli che in assoluto ritenevo gli occhi più splendenti della mia esistenza?

«Ti fai desiderare, eh, Kou?.»

Un blocco di granito gelidamente vischioso mi piombò nello stomaco.

«Vieni qui.»

Si alzò con una malinconica lentezza.

L'avevo escluso dalla mia vita per l'ennesima volta e lui ne soffriva enormemente. Avrebbe voluto che gli confidassi ogni più intimo pensiero come facevo al tempo del liceo, quando io e Maiko ci eravamo appena conosciuti e lui non era ancora incappato nella sua anima gemella.

Sorridevo molto in quel periodo.

La scrittura non mi aveva ancora possessivamente rapito il cuore e ancora non l'aveva fatto neanche Maiko.

Si alzò con lentezza, e i suoi occhi grandi mi sfiorarono da lontano con la dolcezza di un bacio d'amore.

Strinsi quel piccolo corpo fra le braccia, accogliendo con gioia il famigliare solletico dei suoi capelli sul mio collo.

La prima mattina in cui mi ero svegliato senza Maiko, Takanori era lì.

Quando avevo scoperto di non essere capace di esternare il mio dolore, lui l'aveva fatto al mio posto.

Avevamo passato una notte intera abbracciati, io muto come una tomba, lo sguardo vuoto, il corpo anestetizzato, lui tremante, scosso da singhiozzi che avevano proseguito per ore prima di sfociare in un flebile lamento e poi in un sonno tormentato.

Il suo silenzio era stato il balsamo che aveva fermato l'urgente emorragia; ma se i danni permanenti non si erano manifestati immediatamente, l'avevano fatto non appena Takanori aveva messo piede fuori dal mio appartamento. Le ferite che mai sarebbero guarite avevano vanificato il suo sforzo con disprezzo ed indifferenza.

Ci aveva messo l'anima nell'intento di esorcizzare i miei ricordi, ma mi rincresce dire che aveva fallito miseramente.

«Perchè non chiami sciagurato?»

Non gli risposi, stringendolo con più forza al mio torace.

Non avrebbe avuto senso dirgli che le ultime due settimane non avevo rivolto parola ad anima viva. Non avrebbe avuto senso raccontargli la pena assoluta del mio ultimo attacco, il buio totale che mi era calato addosso come una maschera. Non avrebbe avuto senso raccontargli che avevo passato un pomeriggio intero a fissare la scatola dei tranquillanti come se contenesse la risposta ad ogni mio problema.

E forse era così...

Ma la codardia mi aveva impedito di porre fine a tutta quella sofferenza.

Non ricordavo neanche la causa scatenante di quell'opprimente strazio.

Forse qualcosa nelle parole che mi ero azzardato a scrivere dopo mesi di ispirazione zero mi aveva ricordato la sua presenza, la sua voce, i suoi occhi.

I suoi occhi che in quel momento mi parvero insignificanti se confrontati alle iridi dello sconosciuto del parco.

Quante volte avevo cercato le parole giuste per descrivere una particolare sfumatura del cielo di settembre? E quante volte avevo rinunciato, limitandomi a rappresentarlo come un banale azzurro-grigio? Quante volte ci avevo provato, mentre gli occhi di quel ragazzo avrebbero rappresentato l'essenza, la sostanza, la natura di quel colore così malinconico?

Avrei fissato quegli occhi per ore in cerca delle giuste parole per scrivere di quel tripudio di cenere e celeste e se queste fossero state troppo in alto per poter essere raggiunte da un diavolo peccatore come me, mi sarebbe comunque rimasta la gioia di aver assaporato per qualche attimo l'angelico tormento nascosto da quel pezzo di cielo autunnale.

Mi sforzai di distogliere i miei pensieri da quella creatura.

Il fatto che gli occhi fossero solamente l'apice di una serie perfetta di incastri e lineamenti meravigliosi...preferii non considerarlo nemmeno.

«Mi manchi sempre da morire quando scompari così.»

«Avevo bisogno di silenzio.»

Si scostò appena da me, il suo volto da ragazzino costretto a crescere troppo in fretta mi apparve in tutta la sua canzonatoria bellezza. Il Ruki del mio primo romanzo portava il suo volto, i suoi occhi fulgidi e brillanti, la sua voce, la sua storia e la sua forte personalità.

«Rispetto il tuo dolore, ma non essere egoista. Lo sai che vivo per lenire le tue sofferenze e che starei ore accanto a te anche in silenzio.»

Chi altri avrebbe avuto il coraggio di rinfacciarmi i miei sbagli?

Tutti oramai mi consideravano come una pericolosa pentola a pressione costantemente sull'orlo dell'esplosione; perfino mia madre aveva paura a parlare in mia presenza. Avrei potuto esigere la Luna che chiunque si sarebbe fatto in quattro per farmela trovare sul tavolo della cucina: le mie reazioni erano considerate imprevedibili come le azioni di un folle.

«Volevo rimanere solo.»

«Finchè avrò anche solo un respiro in gola non sarai mai solo. Te lo prometto.»

Quando Takanori Matsumoto apriva il suo cuore, il mondo intero si fermava ad ascoltare le poesie della sua anima.

Mi afferrò improvvisamente per il colletto del maglioncino, tirandomi all'altezza del suo volto.

«Mi hai promesso di non morire, Kouyou. Vedi di rispettare le tue promesse.»

Uccidermi per perdere così anche l'ultimo affetto che mi teneva in vita? No, grazie.

«Cosa ci fai a Kyoto?» gli domandai facendolo entrare.

«Hanno ingaggiato Shiro-chan in teatro. Siamo momentaneamente dai suoi.»

Shiroganè.

Attuale, unica e -prevedevo- eterna detentrice del cuore di Takanori.

Non esageravo quando pensavo che lui aveva votato se stesso a quella meravigliosa creatura.

Se in un primo momento il fatto che il mio migliore amico passasse con lei buona parte del tempo che solitamente passava con me mi aveva irritato alquanto, attualmente consideravo quel gingillino di donna dal cuore leonino come una sorella minore.

«Ti saluta tanto.»

«Mh.»

Avevo imparato ad amare il silenzio.

Quando si rifiuta ogni genere di contatto col mondo esterno, egli diventa la tua ombra, il tuo braccio destro e il tuo migliore amico. Potevo stare ore steso anche per terra, le orecchie e la mente vuote, per poi accorgermi di aver perso cinque ore della mia vita in quelli che a me erano sembrati cinque minuti.

«Hai preso le medicine?»

Silenzio.

«Non mi servono le medicine. Io non sono malato.»

Takanori mi guardò con quei suoi occhioni enormi. Sapevo cosa sarebbe accaduto. Avrebbe regalato al mondo una delle sue solite perle, fermando il tempo per qualche istante e riducendo ad un amorfo mucchietto di avvilimento e vergogna il mio orgoglio.

«Prima ti renderai conto che hai un grave problema, Kou, prima il tuo mondo ricomincerà a girare nel verso giusto. Fino ad allora ti posso giurare che troverò anche il più spregevole metodo per farti prendere quelle pastiglie.»

Il suo sguardo era affilato come la mala di una sciabola.

La sua rabbia era simile all'onda d'urto prodotta da una bomba all'idrogeno. Distruttiva.

Ingollai le due compresse che mi aveva passato senza emettere un fiato.

Io non ero malato.

Takanori sospirò.

Ci eravamo conosciuti al liceo; era bastato che passassi per caso davanti all'aula dove si teneva un piccolo corso di canto perchè mi accorgessi di lui; in mezzo ad una ventina di voci perfettamente in sincronia, la sua spiccava come un diamante in mezzo al carbone.

Quando ancora non era caduto in quella spirale di depressione e folli pensieri, chiedergli di cantare per me era quasi quotidiano e le poche volte in cui metteva da parte la timidezza per intonare una qualsiasi canzone, il mio cuore danzava a festa sul ritmo di quella voce portentosa.

«Kouyou?»

«Cosa?»

«Vivi, Kou, vivi.»

Abbassò lo sguardo al pavimento, improvvisamente avvilito.

«Ti prego.»




Un desiderio innocente si fece all'improvviso spazio a gomitate dentro la mia mente, mentre sorseggiavamo in silenzio i nostri tea.

Balzai in piedi come una molla e raggiunsi l'enorme vetrata del salotto con una fretta che non avrei potuto mascherare neanche con tutta la buona volontà di questo mondo: sembrava mi avessero punto con uno spillo.

L'acqua sgorgava incessantemente, scivolando vivacemente sul marmo chiaro della fontana; cercai con lo sguardo la panchina davanti la quale avevo investito quel ragazzo.

Perchè non riuscivo a togliermelo dalla testa?

Mi chiesi che effetto facesse scrivere di uno tale umano splendore, mi chiesi se mai sarei riuscito a rendere la bellezza triste e straziante di quel viso a parole, se mai sarei riuscito a rappresentare il colore di quegli occhi angelici.

I contorni delicati di quel volto meraviglioso si tramutarono immediatamente in centinaia di lettere, lettere sparse e confuse che viaggiavano dentro di me con la potenza di un tuono.

Si aggregavano per pochi attimi, formando parole la cui banalità mi colpiva come uno schiaffo, per poi disgregarsi come fumo: avrei potuto tentare di afferrarle, di sottometterle, di domarle al mio volere, di afferrarle con le dita e di piegarle in forme che avrebbero delineato l'essenza di quell'...angelo.

Angelo.

«Kouyou, ti senti bene?»

Takanori aveva delle iridi molto particolari per un giapponese. Un verde-azzurro molto scuro, che pareva quasi illuminarsi quando il proprietario di quegli occhi era preso da forti emozioni: luccicavano quando questi era felice, sfolgoravano quando l'ira se ne impossessava.

Il pianto tramutava i suoi occhi in distese di mare calmo, buio ed avvolgente.

L'antitesi di ciò che erano le iridi dello sconosciuto, fredde, chiare, delle iridi stronze e sprezzanti.

Aoi.

«Kou?»

Gli presi lentamente il volto fra le mani, portandolo a pochi millimetri dal mio.

Amavo alla follia quegli occhi, avrei portato sulla Terra la stella più luminosa del cielo solo per vederli brillare di una luce più sfavillante.

Perchè allora mi parevano così...inadeguati?

Non erano ciò che cercavo.

Ma quando non si ha nulla da cercare, ogni cosa va bene.

Lo sconosciuto non c'era più. Era scomparso e si era portato dietro il cielo d'autunno dei suoi occhi.




Quando Takanori se ne andò mi misi davanti alla macchina da scrivere.

Era una fedele compagna, un'amante che non mi avrebbe mai tradito, che tuttavia trascuravo senza pietà.

Sedetti davanti a lei, accarezzandone lentamente ogni tasto.

Me l'aveva regalata la mia nee-san, Aya. In dieci anni non ci avevo scritto mezza pagina (prediligevo i più tradizionali pennello ed inchiostro), ma ormai quel gingillino occidentale era divenuto parte di me.

Sospirai gravemente, preparando con cura il foglio. Lo feci passare nel rullo, prestando una maniacale attenzione affinché fosse perfettamente diritto. L'avevo fatto un milione di volte, per poi lanciarmi in quelli che Takanori definiva come “sfoghi alfabetici ”: premevo con lentezza ogni singolo tasto, partendo da destra, e la velocità cresceva a dismisura fino a diventare un maniacale pigiar di tasti; riempivo un intero foglio di lettere che per me non avevano alcun significato.

Quando finivo lo spazio, preso da un euforia quasi malata, ciò che il mio piccolo amico chiamava “schizofrenia linguistica”, mettevo da parte la macchina, arraffavo un qualsiasi foglio e il mio fedele inchiostro e lo riempivo esattamente come il suo predecessore.

Così nascevano e si sviluppavano i miei romanzi.

Sospirai, improvvisamente svuotato da ogni volontà.

Le dita sospese sopra la tastiera, mi chiesi cosa avessi voglia di scrivere.

Volevo scrivere di una vita; volevo scrivere di un cammino tortuoso che alla fine aveva visto la sua luce; volevo scrivere di dolore, di morte, di sofferenza; volevo scrivere di speranza, di gioia, di vita.

Aoi.

Non avevo mai imparato a padroneggiare del tutto le lettere dell'alfabeto occidentale, ma quell'unico, denso nome si stampò sulla carta quasi da solo.

Non capivo cosa mi stesse succedendo.

Mi sembrava che ogni singola frammento di anima si tendesse verso l'esterno, alla ricerca di quel colore.

Abbandonai la mia fedele amica all'improvviso e senza l'ombra di un risentimento.

Maiko mi aveva promesso che non mi avrebbe lasciato solo.

Me l'aveva promesso alla fine di quella penosa settimana che aveva sancito definitivamente la mia appartenenza a quella orrida cerchia di malati cronici che i medici chiamavano psicolabili e la gente schizofrenici.

Ma se nei primi mesi mi era stata accanto fedele e devota, perdonando con indulgenza la mia apatia, coinvolgendomi in qualsiasi attività che mi risvegliasse da quella torbida e costante indolenza, c'era stato un momento, doveva esserci stato un momento, in cui aveva deciso di non essere in grado di mantenere la sua promessa.

Mi aveva mentito. E mi aveva abbandonato.

Finchè avrò anche solo un respiro in gola non sarai mai solo. Te lo prometto.

Anche tu mentivi, Takanori?


Continua...


















Note di Mya:


2100 parole per Aoi, 2100 parole per Uruha.


Ebbene sì, ormai quasi al tramonto del Primo Capitolo mi sono decisa ad informarmi un po' sulle disgrazie che avevo deciso di affibbiare a quelle due povere anime in pena....accorgendomi così che ciò che avevo in mente di scrivere è, in poche parole, scientificamente impossibile.

Ciò ha portato all'intera -o quasi- ristesura del capitolo.

Per fortuna sono circondata da persone i cui talenti si dimostrano anche nel rimediare ai miei errori e sono quindi riuscita a dare un'aggiustata generale alla trama, che porterà come diretta conseguenza un bel po' di capitoli in più °-° (e c'è qualcuno che osa definirsi più masochista di me).

Ad ogni modo, qualche velocissima informazione.


La malattia di cui soffre Uruha si chiama depressione maggiore e tendenzialmente comporta:


  • Un persistente umore triste o irritabile,

  • Importanti variazioni nelle abitudini del dormire, dell'appetito e del movimento,

  • Difficoltà nel pensare, della concentrazione, e della memoria,

  • Lentezza dei movimenti o agitazione,

  • Mancanza di interesse o piacere nelle attività che invece prima interessavano,

  • Sensazione di colpevolezza, di inutilità, mancanza di speranze e senso di vuoto,

  • Pensieri ricorrenti di morte o di suicidio,

  • Sintomi fisici persistenti che non rispondono alle cure come mal di testa, problemi di digestione, dolori persistenti.


(http://www.consumerstar.org/resources/pdf/Resources%20in%20other%20Languages/Italian/LaDepressioneMaggiore(Italian).pdf)


Per quanto riguarda Aoi invece, la cecità dalla nascita può verificarsi semplicemente per una malformazione del nervo ottico o dell'encefalo. Non ho trovato nulla di particolarmente specifico; se avrò bisogno di altre informazioni ve le riferirò.


Sperando di aver attinto alle giuste fonti -e soprattutto di averle adoperate nella maniera più idonea-, concludo dicendo che qualora qualcosa non quadrasse mi affiderò a quella bella cosina chiamata licenza poetica e senza la quale io non avrei mai neanche cominciato a pensare di produrre una fic. Giusto per dire.

Dopotutto il mio scopo non è di scrivere un trattato scientifico, ma solo di tormentarmi l'anima e dedicare le mie parole ad Aelite, quindi...


Parlando del bannerinò lassù...non sarà sto granchè, ma io ne sono orridamente fiera.

Sono in assoluto quanto di più lontano ci sia dall'essere un esperta di grafica, infatti per mettere assieme due immagini a sfondo bianco ci ho messo come minimo un pomeriggio intero, escluse le rifiniture, ma ci ho messo del mio.

Poi la proprietaria di questa long ha gentilmente espresso il suo voto a favore e mi ha altrettanto gentilmente fatto capire che se comincio con le seghe mentali mi sbrana quindi...cercherò di limitare le lamentele ammazza-autostima.



Jo, piccola Hime innamorata, grazie mille volte sia per avermi insegnato a mettere le immagini, sia per avermi aiutato col titolo del capitolo, sia per essere sempre così...così Hime.

Grazie.


Aelite, anima mia, tutto ciò che dovresti sapere lo sai.

Vorrei poter trovare le parole giuste per ingraziarti, ma sai che io e Salvatore non ci riteniamo così in gamba.

Sappi solo che ti ringrazio, di tutto.

Grazie, Angelo.




Recensioni:


Jo: Che tu abbia definito ciò che scrivo arte e motivo di gran vanto da parte mia.

E che io ti adori semplicemente ormai lo sanno anche i muri.

Mi fa piacere che ti piaccia l'inizio, la metafora con la musica, l'ho curata particolarmente quel pezzo.

E...non ti preoccupare. Anche se la trascuro, io amo alla follia la tua nipotina, non la abbandonerei mai, per tutto l'oro di questo mondo.

Grazie.


Aelite: Se credi che riuscirò a trovare altre parole per esprimerti tutto il bene che voglio, sappi che caschi male. Non sono abbastanza fantasiosa per trovarne altre.

Ti chiedo solo una cosa, Aelite...non lasciare mai la Terra, ti prego.


Grace: *abbraccia* La tua shot arriverà...non disperare, arriverà u.u

Nel frattempo, ti ringrazio infinitamente per i complimenti.

Grazie mille.


Haha Deneb: Haha un abbraccio fortissimo. Arigatou.


Guren: Io sto ancora aspettando la shot GactkxKai...e anche la long ReitaxKai °-° ...non vorrai far aspettare la tua povera e vecchia mamma in eterno *labbro tremulo*, vero? °-°


Yoake: cuor (mi hai contagiato!)

Per me Uruha è...assurdo, povero! Ma mi risulta proprio complicato! °-°

Un abbraccio, carissima!



Perdona la...come dire, povertà dei ringraziamenti, ma vado proprio di fretta *china la testina*

Gente, vi adoro,

Arigatou.

Mya

  
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