DAWN
CAPITOLO 2
L’ago s’infilo sottopelle e ne uscì rapidamente,
un’unica goccia di sangue smeraldino lambì la pelle arrossata
dell’avambraccio.
Il dottore strappò un lembo di tessuto dalla manica
della camicia, pulendo con cura e attenzione il punto leso, non si scambiarono
né parole né sguardi, le mani del medico operarono con prontezza e sicurezza,
senza il minimo tremito.
Qualche attimo dopo e una stretta fasciatura cingeva
il braccio sottile dell’ex ufficiale.
Con aria soddisfatta, il medico fece un passo
indietro, asciugandosi i palmi delle mani madidi di sudore sulla stoffa dei
pantaloni scuri: “Ecco fatto, per un po’ dovrebbe bastare.” borbottò,
poggiandosi contro lo Sparviero con le braccia incrociate sul petto, “ma è solo
un rimedio temporaneo, fino alla nostra partenza dovrebbe restare a letto.”
sbuffò, riponendo l’iposiringa nel taschino della
giacca.
L’alieno guardò con curiosità il bendaggio candido:
“Dottore, la ringrazio per il suo interessamento, ma sto benissimo, non c’è
bisogno di tutto questo…” provò a dire, ma la reazione furibonda e inaspettata
del medico lo colse del tutto impreparato.
Leonard lo afferrò per un polso, quasi torcendoglielo,
per poi farlo sbattere con la schiena contro la carlinga della nave, i suoi
occhi sembravano mandare lampi di rabbia: “Bene, bene… Dite tutti che state bene
e invece siete ridotti peggio di un relitto! Ma quando imparerete a dare ascolto
a qualcuno che ne sa più di voi?? Quando imparerete tu e Jim a darmi retta una
buona volta?? Non stai bene! E se lo dico, lo so! Due settimane, due maledette
settimane col tuo katra che mi galleggiava nel cervello mi hanno insegnato molte
cose di te! Quello che ti è accaduto è stato un vero e proprio miracolo, eri
morto! Morto!” calcò con rabbia e
frustrazione sull’ultima parola, “sono stato io a controfirmare il rapporto di
Christine dopo le opportune analisi! Eri morto, le radiazioni ti avevano ucciso.
Ero accanto a Jim quando Hikaru e Pavel ti hanno messo nella capsula, ero lì
mentre la lanciavano fuori dall’Enterprise, l’ho vista sparire nell’atmosfera di
Genesi…” la sua voce si dissolse in un debole
sussurro.
Bones mollò la presa, lasciandosi cadere a terra, sul
terreno polveroso.
“E ciononostante, sei ancora vivo… e ti ostini a dire
che stai bene…!” farfugliò, scuotendo la testa sconsolato, “Al diavolo i
precetti vulcaniani! Sei un mezzo umano, non potrai negarlo per sempre!” sbottò,
alzando lo sguardo velato di lacrime, “non c’è nulla di sbagliato nell’ammettere
le proprie debolezze e le proprie sofferenze.” concluse, sedendosi
faticosamente.
Il vento si alzò, soffiando caldo su di
loro.
Spock lo fissò severamente: “Dottore, credo che lei la
stia prendendo un po’ troppo male.” disse con tono posato, tendendogli una mano
per rialzarsi; il medico la guardò per qualche istante, poi la colpi col dorso
della propria, quasi con disgusto, “Non riesci a ingannarmi, né a fingere una
sicurezza che non hai più. Potrai imbrogliare Jim e gli altri quanto vuoi, ma
questo giochetto non ti riesce con me, non ti è mai riuscito.” disse, facendo
per alzarsi da solo.
All’improvviso, si ritrovò coi piedi che spenzolavano
a qualche centimetro da terra, i suoi profondi occhi azzurri si ritrovarono
immersi in quella distesa nera come l’ebano che era lo sguardo del
Vulcaniano.
Il respiro gli si mozzò in gola, sentiva distintamente
la stoffa della camicia strapparsi sul colletto, sentiva la pelle sfregarsi
contro il tessuto ruvido, la sentiva
bruciare.
Tentò debolmente di divincolarsi, ma quegli occhi
sembravano tenerlo soggiogato, come i cobra seguono incantati i loro
ammaestratori; all’improvviso, quella strana possessione s’interruppe con
dolorosa violenza e il CMO si ritrovò inginocchiato a terra, col fiato mozzo, i
pugni stretti ad afferrare la sabbia fredda, che sfuggiva alle sue mani come il
fumo.
La schiena e tutto il suo corpo tremavano, aveva
freddo, percepiva attorno a sé un gelo che gli penetrava sin nelle ossa,
strappandogli quella parvenza di calore che a stento era riuscito a
conservare.
Si sentì in un attimo fragile e indifeso come non
mai.
Socchiuse gli occhi, lasciandosi andare alla debolezza
che lo assaliva a ondate continue.
Ma qualcuno lo sorresse, impedendogli di scivolare
nell’incoscienza, una presa ferma ma gentile sulle sue spalle fermò la sua lenta
e inesorabile caduta verso il terreno sabbioso; una mano fresca gli sfiorò la
fronte, facendolo rabbrividire ulteriormente, ma era diverso dal freddo che
aveva provato poco prima, era quasi un
sollievo.
Aprì lentamente un occhio, trovandosi davanti il viso
dello scienziato.
Istintivamente, cercò di muoversi, ma sembrava quasi
che il suo corpo si stesse rifiutando palesemente di assecondare gli ordini del
cervello; imprecando a mezza voce, si puntellò col gomito a terra,
.
“Le chiedo scusa dottore, non volevo… è stato un atto
puramente istintivo.” mormorò il Vulcan, “Istintivo…?” sussurrò il medico con
tono stupito, “Si… non ho ancora un totale controllo del mio corpo e della mia
mente, non era mia intenzione nuocerle in questo modo. Ma dovrebbe già
cominciare a riprendere sensibilità agli arti.” concluse Spock, aiutandolo ad
alzarsi.
Il CMO sentì le gambe, innaturalmente rigide,
scricchiolare sotto il suo peso, un dolore improvviso al ginocchio lo sbilanciò
a tal punto che quasi si ritrovò in terra, ma riuscì ad aggrapparsi al braccio
dell’alieno, seppur con fatica: “Beh, grazie tante… Mi sento come se mi fosse
caduta addosso una delle gondole di curvatura dell’Enterprise.” disse con voce
strozzata e roca, mentre Spock lo poggiava con la schiena contro lo scafo
metallico, gelido per il contatto con il freddo vento
notturno.
“Io credo… sia meglio ritornare dagli altri.” osservò
critico il compagno, allontanandosi tra le ombre della notte; Bones lo guardò
con espressione a metà tra lo sconvolto e il seccato, una miriade di emozioni
contrastanti e di parole si agitavano dentro di lui, ma erano troppe per dare
voce a tutte.
“Non riuscirai in eterno a evitare di rispondere alle
mie domande…” borbottò arrabbiato,
seguendolo.
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Un leggero e ritmico bussare accarezzò l’orecchio del
giovane tenente Saavik, che si rizzò di scatto sul letto, svegliata da quel
rumore così inaspettato nel cuore della
notte.
Tese l’udito, riconoscendo con stupore la voce della
madre che parlava a bassa voce con qualcuno, qualcuno che, però, non riusciva a
riconoscere.
Sfregandosi stancamente gli occhi, scese dal giaciglio
e afferrò la vestaglia accanto al comodino, poggiata sulla sedia;
drappeggiandosela addosso, aprì la porta e uscì nel corridoio debolmente
illuminato; a piedi nudi, in silenzio totale, la giovane donna percorse l’andito
e raggiunse le scale che portavano al piano inferiore; lì, la luce era un poco
più intensa, sufficiente a ferirle gli occhi, abituati alla penombra della sua
stanza e del sonno.
Si sporse leggermente dal corrimano, notando una
figura femminile e aggraziata sulla porta, un semplice mantello grigio a
proteggerla dal vento e dalla polvere, il viso solcato da rughe e da una buona
dose di stanchezza.
La riconobbe, non senza un certo stupore, e come
avrebbe potuto non riconoscerla?
“Lady Amanda,” disse, sentì la propria voce risuonare
ancora impastata di sonno, “è successo qualcosa?” chiese, scendendo le scale; la
sposa dell’ambasciatore alzò improvvisa la testa, sorridendo nel notarla in cima
alle scale, un sorriso dolce e gentile; si avvicinò a lei, afferrandole entrambe
le mani e stringendole piano nelle proprie: “Mi spiace di averti disturbato, so
che stavi riposando, ma ho bisogno di
parlarti.”.
Saavik si voltò di scatto verso la madre, ma la donna
era già scomparsa, sparita tra le ombre della
notte.
Con un sospiro, la donna annuì: “Venga, spostiamoci in
cucina. Lì fa più caldo.” concluse, non senza provare qualcosa che, se fosse
stata umana, non avrebbe esitato a definire
imbarazzo.
L’ambiente in cui entrarono era piccolo ma
accogliente, pulito e intiepidito dalla presenza di una sorta di termosifone
posto in un angolo della stanza; l’ufficiale fece sedere Lady Grayson a capo
della tavolata in legno grezzo al centro del tinello prima di spostarsi davanti
ai fornelli.
Ella armeggiò per qualche minuto con l’acqua e un
bollitore in metallo, prima di poggiare sul piano ligneo un vassoio con tazze e
una ciotola di maiolica decorata, ricolma di erbe essiccate; una teiera seguì
subito dopo, fumante d’acqua bollente.
La preparazione del tè si svolse nel silenzio più
assoluto, e fu solo dopo che entrambe le tazze vennero riempite della calda
bevanda che Saavik si decise a parlare: “Signora, cosa è successo?” insistette,
guardandola con aria interrogativa, “perché è venuta sin qui? È pericoloso
girare di notte.”.
Amanda sfiorò con le dita sottili il bordo della
tazzina, persa in chissà quali pensieri, poi alzò di scatto la testa, guardando
la Vulcan negli occhi: “Saavik, mio marito mi ha detto che hai intenzione di
lasciare la Flotta Stellare.” disse repentina, intrecciando le dita dinanzi a
sé, “Perché? “.
La domanda della donna colse del tutto impreparata il
tenente, che abbassò lo sguardo: “Credevo ti trovassi bene nella Flotta…”
continuò la signora con tono materno, “Perché vuoi gettare al vento questi
ultimi cinque anni? Sarebbe uno sbaglio.”
concluse.
La giovane tenne ostinatamente lo sguardo basso, i bei
riccioli neri spettinati e arruffati dal contatto col cuscino la facevano
sembrare più umana e indifesa di quanto non fosse, un sussulto impercettibile
seguì le parole dell’anziana signora; quando la sua voce riprese a uscire, era
stridula e leggermente incrinata, la dama non l’aveva mai vista
così.
“David è morto davanti ai miei occhi… Avrei dovuto
essere io al suo posto. Eppure, sento ancora il mio cuore battere, mentre il suo
si è fermato e il suo corpo è ormai pulviscolo stellare. Quando sono entrata
nella Flotta, credevo che nulla avrebbe potuto fermarmi, ho confuso la mia
superbia con la logica, ho creduto che la mia logica avrebbe potuto superare
ogni cosa. Ma mi sbagliavo. David Markus è morto, senza che io potessi fare
nulla per impedirlo.” sussurrò, “quando superai l’esame per diventare cadetto e
venni assegnata sotto il comando di suo figlio, avevo la certezza matematica che
nulla potesse andare storto. Eppure, dopo l’esame della Kobayashi Maru, la
situazione è solo peggiorata, culminando con la morte del capitano Spock e di
David; e in tutto questo, non c’è logica.”.
Il tono amaro e, disilluso?, di Saavik colpì molto
Amanda, non era abituata a un simile scoppio emotivo da parte di un Vulcan,
perché di emotività si trattava, abilmente dissimulata sotto un velo di
autocontrollo, ma non poteva avere altro
nome.
Tutti quegli anni passati al fianco dell’ambasciatore
Sarek le avevano insegnato molto, capiva bene ciò che quella ragazza nascondeva
e provava.
Strano come in poco tempo la vita possa essere
sconvolta in tal modo.
“La vita non è logica, Saavik…” mormorò, facendole
alzare lo sguardo, una lacrima solitaria e fredda scivolò lungo la guancia
pallida dell’ufficiale, “non c’è logica nelle sofferenze e nel dolore. Non c’è
logica nel perdere un amico, un fratello… un figlio,” dichiarò la donna,
“l’Universo è troppo grande e imprevedibile per essere tenuto sotto controllo ed
è una cosa che devi imparare il prima possibile. Ma la vita è bella anche per
questo, amara ma bella, e devi continuare a viverla.” interloquì, sollevando la
tazza; un sorso di tè ormai intiepidito le sciabordò nello
stomaco.
“Sono confusa…” ammise la Vulcan, “Confusa… Non riesco
a capire.” disse con tono quasi spento.
Amanda le prese le mani, stringendole come avrebbe
fatto con il figlio: “Capirai. Ma non devi gettare al vento i tuoi sforzi, resta
nella Flotta, e vedrai che presto ti sarà chiara ogni cosa.” le disse, “Vivi,
Saavik. Vivi anche per David.”.
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I giorni che si susseguirono furono
frenetici.
I lavori di riparazione dello Sparviero Klingon
procedettero lentamente, sotto il cocente calore del Sole vulcanita e tra la
polvere rossastra del deserto, che s’appiccicava alla pelle sudata come le
mosche alla carta moschicida.
Tutto attorno al vascello era un fervore di attività e
rumori, sibili di cuscinetti a sfera e grida di
richiamo.
Tecnici ed esperti lavoravano alacremente giorno e
notte, metri e metri di fibre ottiche e cavi serpeggiavano attorno a ogni parte
metallica, e non, dello scafo, casse di pezzi di ricambio giacevano abbandonate
al limitare del cantiere, parti ormai inservibili di motore erano gettate alla
stregua di cadaveri in semplici mucchi accanto ai cassoni, a ogni passo non era
impossibile imbattersi in qualche pozza d’olio bruciato oppure in qualche
rottame.
All’interno, dove la temperatura era forse più
sopportabile, la chioma ricciuta di Uhura era l’unica cosa che spuntava della
donna da sotto la consolle di comunicazione; completamente immersa nell’intrico
di collegamenti ottici, il comandante cercava di risintonizzare le frequenze di
bordo su quelle della Flotta.
“Uff, così non va…” sbuffò, asciugandosi con la manica
il sudore dalla fronte, “è più difficile del previsto…” ammise, massaggiandosi
il collo indolenzito, “Pavel! Vieni un attimo?”, la voce dell’ufficiale
raggiunse l’orecchio del russo, seduto alla sua postazione con l’occhio sul
radar; si voltò, alzandosi, un sorriso divertito gli increspò spontaneo le
labbra, vedendo i ciuffi nerissimi della compagna ondeggiare a ogni
movimento.
Si poggiò coi gomiti sul bordo del pannello,
sporgendosi quel tanto che bastava per farsi vedere: “Cosa succede?” domandò;
Uhura si spostò leggermente per guardarlo in viso, la sua pelle era madida di
sudore e trasfigurata in una smorfia di disappunto e stanchezza, “Non riesco a
interfacciare le comunicazioni del Comando, il sistema non risponde alle
istruzioni che ho dato al computer centrale.” dichiarò lei, sfregando i palmi
sudati sui pantaloni della divisa; il russo si inginocchiò accanto a lei,
scoccando un’occhiata critica all’ammasso inestricabile di allacci elettronici
che penzolavano inerti, sfiorando il
pavimento.
“Ma che diavolo…?” imprecò a mezza voce, armeggiando
per qualche istante con lo spinotto più vicino, quasi completamente fuso; un
paio di scintille avvilupparono la struttura plastica, colpendo dolorosamente le
punte delle dita dell’uomo, Chekov si ritrasse come se si fosse scottato:
“Ahia!” esclamò, massaggiandosi la parte lesa e mollando il frammento plastico,
“Maledizione… è tutto in sovraccarico, devi staccare l’impianto e lavorare a
freddo, oppure rischi di prendere una brutta scossa e bruciare l’intera
struttura.” affermò serio, alzandosi e aiutando la compagna a fare
altrettanto.
La donna sospirò, armeggiando con i dispositivi di
controllo: “così facendo sarà tutto molto più lungo… Dannata tecnologia Klingon,
inutile come i suoi creatori…” sbuffò lei amareggiata, cominciando a staccare
alcuni cavi ormai inservibili e a gettarli in un
angolo.
Pavel si sedette sulla poltroncina: “Io non ho ancora
finito coi radar ma finché Hikaru non rientra non posso proseguire con il
caricamento delle mappe, posso darti una mano.” propose il russo, passandole
alcune chiavi.
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“Leonard, mi spiegheresti il senso di questa tua
idea?”
La voce di Scotty giunse attutita, coperta in parte
dal rumore delle turbine, il volto del capo ingegnere sbucò, sporco di grasso e
olio bruciato, da sotto un pesante portellone; i vispi occhietti dello scozzese
saettarono dubbiosi verso il medico, seduto comodamente a gambe incrociate su
una cassa di legno abbandonata in un angolo della sala macchine, il gilet
piegato e depositato accanto, c’era troppo caldo là sotto: “non possiamo dare il
nome Enterprise ad un vascello Klingon!” esclamò schifato il dottore, “Sarebbe
un insulto alla nostra gloriosa nave! E poiché noi siamo, in un certo qual
senso, degli ammutinati, perché no?” argomentò, puntellandosi coi palmi sui
ginocchi, “Ho capito, ma diavolo! Già è difficile accettare che l’Enterprise non
ci sia più…”, la voce di Scott, di solito allegra, risonante e gioviale, si
abbassò di un’ottava, “ma dare un nome allo scafo di quei bastardi di Klingon mi
sembra quasi tradire la sua memoria.”.
Bones sospirò, stringendo i pugni: “Lo so, è triste
pensare che, dopo più di vent’anni, l’Enterprise non ci sia più; la nostra nave
ci ha servito fedelmente e la sua carriera si è conclusa per salvarci; ma
adesso, è questa quella che ci riporterà a casa,” dichiarò, dando un colpetto
alla parete metallica col dorso della mano, “e forse è meglio dargli un nome
diverso da quello che quel pazzo di Kruge, o chi per lui, gli ha dato. Non ho
alcuna intenzione di rientrare nello spazio aereo terrestre a bordo di una
“Lampo di Guerra” o “Furia Animale”, o con qualunque altro nome bislacco
l’abbiano battezzata, né ora né mai!”.
Una sonora risata riecheggiò tra le quattro mura
metalliche, una manata s’abbatté implacabile sulla schiena del medico,
mozzandogli il respiro: “Hai perfettamente ragione! E sono certo che anche
all’ammiraglio e agli altri andrà bene!” esclamò Scotty, strappando un sorriso
al vecchio brontolone.
In quel preciso momento, l’interfono gracchiò
fastidiosamente e la voce, seppur disturbata, del loro comandante risuonò forte:
“Scott, Bones, raggiungeteci di sopra.”.
I due amici si guardarono interrogativi: “E adesso
cosa succede?” si lamentò il dottore, afferrando il gilet e indossandolo,
“Andiamo a vedere, forza.” lo spinse in avanti
l’ingegnere.
Una volta in plancia, videro che era del tutto
deserta: “Saranno fuori.” decretò Scotty, asciugandosi la fronte imperlata di
sudore, “Certo che quassù fa un caldo micidiale!” esclamò, levandosi la giacca
della divisa e poggiandola sullo schienale della sedia della postazione
tecnica.
“Finalmente! Era ora che arrivaste!” dichiarò
l’ammiraglio, sbucando improvvisamente sulla soglia della porta scorrevole,
“Mancavate solo voi, dobbiamo prendere una decisione
importante.”.
Fuori c’erano già tutti gli
altri.
Rivolgendosi un breve e sbrigativo cenno di saluto, i
cinque ufficiali della Flotta si disposero in ordine di grado dinanzi al loro
comandante; Jim li guardò uno a uno, con uno sguardo colmo di orgoglio:
“Signore, sappiamo cosa sta per dire.” affermò improvviso il giapponese, serio
come non mai, “Ce l’aveva già chiesto, ricorda? E la risposta non è cambiata.”
continuò il russo, “noi resteremo con lei sino alla fine.” concluse la
donna.
Per un attimo, l’ammiraglio restò basito, cosa si
aspettava? Forse che lo avrebbero ascoltato?
Qualcosa dentro di lui sapeva che non lo avrebbero mai
fatto.
Ma diamine, almeno il tempo di
parlare!
L’uomo si ravvivò i corti capelli scuri, non sapendo
che dire né come agire.
“Beh, non resta che metterla ai voti.” decretò poi,
passandoli in rassegna come avrebbe fatto in altri tempi, e come già aveva fatto
molto tempo prima.
Ognuno di loro rinnovò il proprio giuramento di
fedeltà con decisione e senza esitazione alcuna, le immense solitudini siderali
li avevano temprati a ben altre difficoltà e avevano da sempre saputo che, in
tali occasioni, non si può solo contare su sé
stessi.
Si, forse sarebbero stati processati, ma almeno le
loro anime sarebbero state salve.
§§§§
La notte calò rapidamente, il caldo intenso cedette il
posto al freddo intenso.
Sarebbe stata la loro ultima notte su
Vulcano.
Lo Sparviero Klingon ormai familiarmente ribattezzato
“Bounty” riposava come un grande uccello da preda sulla sabbia del deserto,
pronto a spiccare il volo al sorgere del Sole, a lasciare l’ospitale nido per
gettarsi nel pericolo.
A bordo, il silenzio e la tensione erano così
tangibili da poter essere affettati con un coltello, e solo ogni tanto il
ticchettio nervoso delle dita del comandante russo alleggeriva l’aria pesante
che vi regnava; alla quarta volta, il compagno giapponese lo squadrò torvo,
intimandogli con lo sguardo di piantarla e starsene
tranquillo.
Ma il più giovane lo ignorò, continuando quel
fastidioso rumore.
Sulu allora scattò in piedi, facendo un gran chiasso,
che rimbombò a lungo nella plancia muta, con un balzo gli fu davanti, lo afferrò
per il colletto e lo sollevò di qualche centimetro, il suo sguardo sprizzava di
lampi di rabbia. Per un attimo, Chekov restò sorpreso da quella reazione
dell’amico, sgranò gli occhi, cercando di divincolarsi, ormai privo di aria;
improvvisamente, l’asiatico mollò la presa, lasciando cadere il compagno a
terra, si guardò le mani tremanti, il russo tossì e ansimò, stringendosi un
lembo della maglia col pugno, aveva la gola in
fiamme.
“Ragazzi.. Cosa diavolo vi prende?” domandò sconvolta
Uhura, avvicinandosi a Pavel per aiutarlo a rialzarsi, “Non risolveremo i nostri
problemi in questo modo, lo sapete.” disse la donna, facendo sedere il più
giovane sulla poltroncina, “Credevo fossimo tutti d’accordo.” li rimbeccò
l’africana, guardandoli fisso, “non riesco a capire tutto questo nervosismo!” la
sua voce, di solito tranquilla e gentile, si alzò di parecchie ottave, “Mi avete
capito?” chiese severa, “Cosa diavolo vi prende?!”
ripeté.
I due evitarono testardamente il suo
sguardo.
“Allora ve lo dico io cosa vi succede, in tanti anni
che vi conosco non avete mai litigato tra di voi, e il fatto che vi siate
svegliati adesso indica una sola ragione possibile.“ decretò con tono rabbuiato,
“non vi fidate più l’uno dell’altro. Siete spaventati,” incalzò, “e il periodo
che avete passato separati non ha fatto altro che aumentare quel divario che vi
aveva diviso quando siamo stati tutti riassegnati. E parlo soprattutto per te,
Pavel.” disse seria Uhura, fissando coi suoi occhi d’onice quelli più chiari e
sfuggenti del compagno, “in questi anni, sei come scomparso. Noi, più o meno,
eravamo ancora tutti assieme, tu invece no, non ci sei mai più stato. Sei
diventato totalmente un’altra persona e non mi importa nulla della carriera!”
sbottò la donna, anticipando la scusa bislacca che il russo, lo sapeva, stava
per propinargli.
Sulu si ritrasse istintivamente, intimorito da una
simile reazione da parte di Uhura.
“Dove è finito il Pavel Chekov che conoscevamo? Il
guardiamarina fifone e sbruffone che mi ha accompagnato su Deep Space K-7, che
quando gli ho raccontato di ciò che avevo visto nell’altra dimensione ha riso
così tanto da strozzarsi e mi ha preso in giro per settimane? Dove è finito?”
chiese lei, prendendo la sua cetra e
allontanandosi.
I due restarono in
silenzio.
“Io sono qua fuori, quando avrete finito di scannarvi
e avrete ripensato alle mie parole, forse
rientrerò.”.
Il silenzio si fece più
pressante.
Il giapponese era andato a sedersi alla postazione
tecnica, lontano da quella che, di solito, divideva con l’amico di
sempre.
Per la prima volta, si erano volontariamente
separati.
“Nyota ha ragione,” disse improvvisamente Sulu, “Sei
cambiato.” notò rammaricato; Chekov ruotò lentamente la poltrona, i loro occhi
si incrociarono nuovamente, il più giovane provò una sorta di brivido e
imbarazzo, in fondo al cuore sapeva che ciò che l’amico stava dicendo
corrispondeva alla verità.
Ma cosa poteva
dirgli?
“Siamo tutti cambiati,” cercò di mantenere un tono
freddo e distaccato, “Sono passati tanti anni da allora, e io non sono più il
ragazzino impulsivo di un tempo.” spiegò a bassa voce, ma perché quelle parole
sembravano assurde anche a lui?
“La verità è che ti sei fatto fregare…” borbottò
l’asiatico, “la Flotta ti ha trasformato in una pedina, un cane da guardia. Ci
ha provato anche col capitano, ma non ci è riuscita. Speravo che anche tu non
fossi caduto nella sua trappola, ma mi sbagliavo…” mormorò, facendo per
alzarsi.
“NON È VERO!” gridò improvvisamente il tenente,
balzando in piedi e stringendo i pugni, “IO NON SONO UNA PEDINA DELLA FLOTTA!”
replicò con voce strozzata; tranquillo, Hikaru poggiò il viso sul palmo della
mano, puntellandosi con il gomito sul ginocchio: “Dimostramelo, e mi rimangio
tutto quello che ho detto.” concluse, socchiudendo gli occhi, in
attesa.
Pavel si guardò tremante le mani, come avrebbe
potuto?
In un attimo, un esplosione di colori, ricordi e
pensieri avvolse la sua mente, il ricordo di tutte le difficoltà che avevano
superato nel corso degli anni lo fece sprofondare nel tepore della nostalgia, in
ogni ricordo, si vedeva sempre con qualcuno, non era mai stato da
solo.
Si sentiva così invincibile quando era con loro,
quando era al fianco dei suoi amici di sempre; un ricordo stupido gli era
balzato alla mente, quando, assieme a Scott e ad alcuni altri, si era beccato
una sgridata dal capitano per aver fatto rissa con dei Klingon su una vecchia
stazione spaziale, si rivide giovane, tirando su col naso per far sparire il
rivoletto di sangue, regalino di uno degli aggressori. Eppure, aveva provato una
vera e propria gioia quando aveva colpito sul muso il klingon che aveva osato
insultare la loro nave e il loro capitano.
Il suo servizio sulla Reliant non gli era sembrato mai
così cupo e triste, al confronto con
l’Enterprise.
Al contrario, lì era
solo.
Era semplicemente il primo ufficiale, il suo compito
era dare ordini, quello dei suoi sottoposti di
obbedirgli.
Nient’altro.
Aveva sbagliato.
Si era fatto fregare come il guardiamarina che, in
fondo, sarebbe sempre stato.
“Cos’è, il tribolo ti ha mangiato la lingua?” la voce
seria di Sulu lo riscosse dai suoi pensieri; Chekov scosse la testa, alzando
finalmente lo sguardo, uno sguardo fiero e
scanzonato.
“D’accordo, ammetto di essermi fatto fare fesso come
un pivello,” disse rassegnato, strappandosi i gradi di dosso e gettandoli a
terra, “Su questa nave non c’è posto per un cagnolino fedele, da questo momento
sarò un cane randagio!” esclamò con gran serietà e un risolino a stento
trattenuto, quella farsa ebbe l’effetto di far sorridere il giapponese, “Ora ti
riconosco!” esclamò allegro l’amico, alzandosi per stringergli la mano, “Baka,
bentornato!”.
ANGOLO DEL LEMURE
VIOLETTO
OK, è necessaria una spiegazione
^^’’’
Chiedo scusa, ma la fic non è più di due soli
capitoli…
Ma di tre.
Col prossimo sono sicura di concluderla; purtroppo mi
sono accorta che certe scene non potevo tagliarle né saltarle e
perciò è necessario dividere la fic in tre, di modo da dare
spazio a tutto e a tutti.
Come avete visto, abbiamo fatto una carrellata su
tutti, anche su Saavik e Amanda.
Piccole precisazioni: la prima scena, credo, non ha
bisogno di spiegazioni, è sufficientemente chiara così. Seconda scena, partiamo
dal presupposto che io sono dell’idea che Saavik abbia avuto una breve relazione
con , per questo è rimasta sconvolta quando è morto, Amanda lo sapeva e per
questo cerca di convincerla a non abbandonare la
Flotta.
Terza scena, uno spaccato di vita a bordo del Bounty,
con la famosa decisione da parte di Bones del nuovo nome da dare allo Sparviero.
Quarta e ultima scena, beh, non può sempre andare tutto bene, no? Qualche
litigio rafforza l’amicizia, soprattutto quella di vecchia e lunga
data.
Nella prossima, rivedremo Amanda, Spock, Jim e
Bones.
RINGRAZIO
I MIEI FIDATI RECENSORI, MAYA,
EERYA, ROWEN, ABDULLA E PERSEFONE,
*inchino* SONO CONTENTA DI ESSERE RIUSCITA A DARE VOCE A TUTTE LE EMOZIONI COME
VOLEVO^*^
GRAZIE DI
CUORE
SHUN