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Autore: SHUN DI ANDROMEDA    23/03/2010    4 recensioni
"La grande casa al limitare del deserto era silenziosa. Il caldo giorno aveva ceduto il posto alla notte, fredda e ventosa, il sonno aveva preso possesso dei corpi di tutti, conducendo le menti verso il meritato riposo. Turbini di sabbia si alzavano di quando in quando, sollevati dalle forti correnti d’aria che imperversavano nell’area desertica, il grido solitario dei selhat e dei le-matya rompeva il silenzio della notte; nella grande dimora dell’ambasciatore Sarek, tutte le luci erano spente ormai da ore, ognuno degli abitanti era a riposo nei propri alloggi." Buongiorno! Ed eccomi a voi con la mia nuova fic in due capitoli!! Questa volta, l’ho ambientata a metà tra il III e il IV film, subito dopo la rifusione del katra di Spock dal corpo di Bones e poco prima della partenza dei nostri eroi alla volta della Terra^^ Diciamo che è stata una sfida con me stessa, all’inizio, volevo solo approfondire un po’ il ruolo di Amanda nei film, ma poi mi è sfuggito il controllo e sono finita a scrivere questa fic. Le tematiche di questo racconto dolceamaro sono varie e spero di riuscire ad esprimerle tutte. L’amicizia, la base della fic, l’unica ragione per cui i Sei dell’Enterprise si trovano su Vulcano, il rapporto strano e allo stesso tempo indissolubile che c’è tra il capitano, il suo primo ufficiale e il medico di bordo, tra i loro quattro compagni e tra tutti loro. La famiglia, Kirk ha perso David per cercare di recuperare la persona che è quasi un fratello per lui, Amanda deve a Jim e ai suoi compagni la vita del suo unico figlio, Sarek lo stesso. L’amore, perché io sono una slasher convinta, e anche se piccolo, un accenno alla Spock/Bonny, l’attuale coppia totem, ce lo devo mettere per forza. La determinazione e la volontà che muovono l’Universo, perché se non avessero davvero voluto salvare Spock, non sarebbero mai partiti, se Chekov, Uhura, Scotty e Sulu non avessero voluto VERAMENTE seguire il loro capitano per andare in soccorso del Primo Ufficiale, forse non sarebbero mai riusciti a riportarlo tra i vivi. Grazie della lettura, spero di non essere la sola a imbarcarmi in questa avventura. Lo dedico a Maya, Rowen ed Eerya! GRAZIE DI TUTTO!! KISS SHUN
Genere: Generale, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Amanda, Leonard H. Bones McCoy, Sarek, Spock
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Dawn Saga'
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DAWN

CAPITOLO 2

YOU'RE NOT THE SAME

 

L’ago s’infilo sottopelle e ne uscì rapidamente, un’unica goccia di sangue smeraldino lambì la pelle arrossata dell’avambraccio.

Il dottore strappò un lembo di tessuto dalla manica della camicia, pulendo con cura e attenzione il punto leso, non si scambiarono né parole né sguardi, le mani del medico operarono con prontezza e sicurezza, senza il minimo tremito.

Qualche attimo dopo e una stretta fasciatura cingeva il braccio sottile dell’ex ufficiale.

Con aria soddisfatta, il medico fece un passo indietro, asciugandosi i palmi delle mani madidi di sudore sulla stoffa dei pantaloni scuri: “Ecco fatto, per un po’ dovrebbe bastare.” borbottò, poggiandosi contro lo Sparviero con le braccia incrociate sul petto, “ma è solo un rimedio temporaneo, fino alla nostra partenza dovrebbe restare a letto.” sbuffò, riponendo l’iposiringa nel taschino della giacca.

L’alieno guardò con curiosità il bendaggio candido: “Dottore, la ringrazio per il suo interessamento, ma sto benissimo, non c’è bisogno di tutto questo…” provò a dire, ma la reazione furibonda e inaspettata del medico lo colse del tutto impreparato.

Leonard lo afferrò per un polso, quasi torcendoglielo, per poi farlo sbattere con la schiena contro la carlinga della nave, i suoi occhi sembravano mandare lampi di rabbia: “Bene, bene… Dite tutti che state bene e invece siete ridotti peggio di un relitto! Ma quando imparerete a dare ascolto a qualcuno che ne sa più di voi?? Quando imparerete tu e Jim a darmi retta una buona volta?? Non stai bene! E se lo dico, lo so! Due settimane, due maledette settimane col tuo katra che mi galleggiava nel cervello mi hanno insegnato molte cose di te! Quello che ti è accaduto è stato un vero e proprio miracolo, eri morto! Morto!” calcò con rabbia e frustrazione sull’ultima parola, “sono stato io a controfirmare il rapporto di Christine dopo le opportune analisi! Eri morto, le radiazioni ti avevano ucciso. Ero accanto a Jim quando Hikaru e Pavel ti hanno messo nella capsula, ero lì mentre la lanciavano fuori dall’Enterprise, l’ho vista sparire nell’atmosfera di Genesi…” la sua voce si dissolse in un debole sussurro.

Bones mollò la presa, lasciandosi cadere a terra, sul terreno polveroso.

“E ciononostante, sei ancora vivo… e ti ostini a dire che stai bene…!” farfugliò, scuotendo la testa sconsolato, “Al diavolo i precetti vulcaniani! Sei un mezzo umano, non potrai negarlo per sempre!” sbottò, alzando lo sguardo velato di lacrime, “non c’è nulla di sbagliato nell’ammettere le proprie debolezze e le proprie sofferenze.” concluse, sedendosi faticosamente.

Il vento si alzò, soffiando caldo su di loro.

Spock lo fissò severamente: “Dottore, credo che lei la stia prendendo un po’ troppo male.” disse con tono posato, tendendogli una mano per rialzarsi; il medico la guardò per qualche istante, poi la colpi col dorso della propria, quasi con disgusto, “Non riesci a ingannarmi, né a fingere una sicurezza che non hai più. Potrai imbrogliare Jim e gli altri quanto vuoi, ma questo giochetto non ti riesce con me, non ti è mai riuscito.” disse, facendo per alzarsi da solo.

All’improvviso, si ritrovò coi piedi che spenzolavano a qualche centimetro da terra, i suoi profondi occhi azzurri si ritrovarono immersi in quella distesa nera come l’ebano che era lo sguardo del Vulcaniano.

Il respiro gli si mozzò in gola, sentiva distintamente la stoffa della camicia strapparsi sul colletto, sentiva la pelle sfregarsi contro il tessuto ruvido, la sentiva bruciare.

Tentò debolmente di divincolarsi, ma quegli occhi sembravano tenerlo soggiogato, come i cobra seguono incantati i loro ammaestratori; all’improvviso, quella strana possessione s’interruppe con dolorosa violenza e il CMO si ritrovò inginocchiato a terra, col fiato mozzo, i pugni stretti ad afferrare la sabbia fredda, che sfuggiva alle sue mani come il fumo.

La schiena e tutto il suo corpo tremavano, aveva freddo, percepiva attorno a sé un gelo che gli penetrava sin nelle ossa, strappandogli quella parvenza di calore che a stento era riuscito a conservare.

Si sentì in un attimo fragile e indifeso come non mai.

Socchiuse gli occhi, lasciandosi andare alla debolezza che lo assaliva a ondate continue.

Ma qualcuno lo sorresse, impedendogli di scivolare nell’incoscienza, una presa ferma ma gentile sulle sue spalle fermò la sua lenta e inesorabile caduta verso il terreno sabbioso; una mano fresca gli sfiorò la fronte, facendolo rabbrividire ulteriormente, ma era diverso dal freddo che aveva provato poco prima, era quasi un sollievo.

Aprì lentamente un occhio, trovandosi davanti il viso dello scienziato.

Istintivamente, cercò di muoversi, ma sembrava quasi che il suo corpo si stesse rifiutando palesemente di assecondare gli ordini del cervello; imprecando a mezza voce, si puntellò col gomito a terra, .

“Le chiedo scusa dottore, non volevo… è stato un atto puramente istintivo.” mormorò il Vulcan, “Istintivo…?” sussurrò il medico con tono stupito, “Si… non ho ancora un totale controllo del mio corpo e della mia mente, non era mia intenzione nuocerle in questo modo. Ma dovrebbe già cominciare a riprendere sensibilità agli arti.” concluse Spock, aiutandolo ad alzarsi.

Il CMO sentì le gambe, innaturalmente rigide, scricchiolare sotto il suo peso, un dolore improvviso al ginocchio lo sbilanciò a tal punto che quasi si ritrovò in terra, ma riuscì ad aggrapparsi al braccio dell’alieno, seppur con fatica: “Beh, grazie tante… Mi sento come se mi fosse caduta addosso una delle gondole di curvatura dell’Enterprise.” disse con voce strozzata e roca, mentre Spock lo poggiava con la schiena contro lo scafo metallico, gelido per il contatto con il freddo vento notturno.

“Io credo… sia meglio ritornare dagli altri.” osservò critico il compagno, allontanandosi tra le ombre della notte; Bones lo guardò con espressione a metà tra lo sconvolto e il seccato, una miriade di emozioni contrastanti e di parole si agitavano dentro di lui, ma erano troppe per dare voce a tutte.

“Non riuscirai in eterno a evitare di rispondere alle mie domande…” borbottò arrabbiato, seguendolo.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

Un leggero e ritmico bussare accarezzò l’orecchio del giovane tenente Saavik, che si rizzò di scatto sul letto, svegliata da quel rumore così inaspettato nel cuore della notte.

Tese l’udito, riconoscendo con stupore la voce della madre che parlava a bassa voce con qualcuno, qualcuno che, però, non riusciva a riconoscere.

Sfregandosi stancamente gli occhi, scese dal giaciglio e afferrò la vestaglia accanto al comodino, poggiata sulla sedia; drappeggiandosela addosso, aprì la porta e uscì nel corridoio debolmente illuminato; a piedi nudi, in silenzio totale, la giovane donna percorse l’andito e raggiunse le scale che portavano al piano inferiore; lì, la luce era un poco più intensa, sufficiente a ferirle gli occhi, abituati alla penombra della sua stanza e del sonno.

Si sporse leggermente dal corrimano, notando una figura femminile e aggraziata sulla porta, un semplice mantello grigio a proteggerla dal vento e dalla polvere, il viso solcato da rughe e da una buona dose di stanchezza.

La riconobbe, non senza un certo stupore, e come avrebbe potuto non riconoscerla?

“Lady Amanda,” disse, sentì la propria voce risuonare ancora impastata di sonno, “è successo qualcosa?” chiese, scendendo le scale; la sposa dell’ambasciatore alzò improvvisa la testa, sorridendo nel notarla in cima alle scale, un sorriso dolce e gentile; si avvicinò a lei, afferrandole entrambe le mani e stringendole piano nelle proprie: “Mi spiace di averti disturbato, so che stavi riposando, ma ho bisogno di parlarti.”.

Saavik si voltò di scatto verso la madre, ma la donna era già scomparsa, sparita tra le ombre della notte.

Con un sospiro, la donna annuì: “Venga, spostiamoci in cucina. Lì fa più caldo.” concluse, non senza provare qualcosa che, se fosse stata umana, non avrebbe esitato a definire imbarazzo.

L’ambiente in cui entrarono era piccolo ma accogliente, pulito e intiepidito dalla presenza di una sorta di termosifone posto in un angolo della stanza; l’ufficiale fece sedere Lady Grayson a capo della tavolata in legno grezzo al centro del tinello prima di spostarsi davanti ai fornelli.

Ella armeggiò per qualche minuto con l’acqua e un bollitore in metallo, prima di poggiare sul piano ligneo un vassoio con tazze e una ciotola di maiolica decorata, ricolma di erbe essiccate; una teiera seguì subito dopo, fumante d’acqua bollente.

La preparazione del tè si svolse nel silenzio più assoluto, e fu solo dopo che entrambe le tazze vennero riempite della calda bevanda che Saavik si decise a parlare: “Signora, cosa è successo?” insistette, guardandola con aria interrogativa, “perché è venuta sin qui? È pericoloso girare di notte.”.

Amanda sfiorò con le dita sottili il bordo della tazzina, persa in chissà quali pensieri, poi alzò di scatto la testa, guardando la Vulcan negli occhi: “Saavik, mio marito mi ha detto che hai intenzione di lasciare la Flotta Stellare.” disse repentina, intrecciando le dita dinanzi a sé, “Perché? “.

La domanda della donna colse del tutto impreparata il tenente, che abbassò lo sguardo: “Credevo ti trovassi bene nella Flotta…” continuò la signora con tono materno, “Perché vuoi gettare al vento questi ultimi cinque anni? Sarebbe uno sbaglio.” concluse.

La giovane tenne ostinatamente lo sguardo basso, i bei riccioli neri spettinati e arruffati dal contatto col cuscino la facevano sembrare più umana e indifesa di quanto non fosse, un sussulto impercettibile seguì le parole dell’anziana signora; quando la sua voce riprese a uscire, era stridula e leggermente incrinata, la dama non l’aveva mai vista così.

“David è morto davanti ai miei occhi… Avrei dovuto essere io al suo posto. Eppure, sento ancora il mio cuore battere, mentre il suo si è fermato e il suo corpo è ormai pulviscolo stellare. Quando sono entrata nella Flotta, credevo che nulla avrebbe potuto fermarmi, ho confuso la mia superbia con la logica, ho creduto che la mia logica avrebbe potuto superare ogni cosa. Ma mi sbagliavo. David Markus è morto, senza che io potessi fare nulla per impedirlo.” sussurrò, “quando superai l’esame per diventare cadetto e venni assegnata sotto il comando di suo figlio, avevo la certezza matematica che nulla potesse andare storto. Eppure, dopo l’esame della Kobayashi Maru, la situazione è solo peggiorata, culminando con la morte del capitano Spock e di David; e in tutto questo, non c’è logica.”.

Il tono amaro e, disilluso?, di Saavik colpì molto Amanda, non era abituata a un simile scoppio emotivo da parte di un Vulcan, perché di emotività si trattava, abilmente dissimulata sotto un velo di autocontrollo, ma non poteva avere altro nome.

Tutti quegli anni passati al fianco dell’ambasciatore Sarek le avevano insegnato molto, capiva bene ciò che quella ragazza nascondeva e provava.

Strano come in poco tempo la vita possa essere sconvolta in tal modo.

“La vita non è logica, Saavik…” mormorò, facendole alzare lo sguardo, una lacrima solitaria e fredda scivolò lungo la guancia pallida dell’ufficiale, “non c’è logica nelle sofferenze e nel dolore. Non c’è logica nel perdere un amico, un fratello… un figlio,” dichiarò la donna, “l’Universo è troppo grande e imprevedibile per essere tenuto sotto controllo ed è una cosa che devi imparare il prima possibile. Ma la vita è bella anche per questo, amara ma bella, e devi continuare a viverla.” interloquì, sollevando la tazza; un sorso di tè ormai intiepidito le sciabordò nello stomaco.

“Sono confusa…” ammise la Vulcan, “Confusa… Non riesco a capire.” disse con tono quasi spento.

Amanda le prese le mani, stringendole come avrebbe fatto con il figlio: “Capirai. Ma non devi gettare al vento i tuoi sforzi, resta nella Flotta, e vedrai che presto ti sarà chiara ogni cosa.” le disse, “Vivi, Saavik. Vivi anche per David.”.

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I giorni che si susseguirono furono frenetici.

I lavori di riparazione dello Sparviero Klingon procedettero lentamente, sotto il cocente calore del Sole vulcanita e tra la polvere rossastra del deserto, che s’appiccicava alla pelle sudata come le mosche alla carta moschicida.

Tutto attorno al vascello era un fervore di attività e rumori, sibili di cuscinetti a sfera e grida di richiamo.

Tecnici ed esperti lavoravano alacremente giorno e notte, metri e metri di fibre ottiche e cavi serpeggiavano attorno a ogni parte metallica, e non, dello scafo, casse di pezzi di ricambio giacevano abbandonate al limitare del cantiere, parti ormai inservibili di motore erano gettate alla stregua di cadaveri in semplici mucchi accanto ai cassoni, a ogni passo non era impossibile imbattersi in qualche pozza d’olio bruciato oppure in qualche rottame.

All’interno, dove la temperatura era forse più sopportabile, la chioma ricciuta di Uhura era l’unica cosa che spuntava della donna da sotto la consolle di comunicazione; completamente immersa nell’intrico di collegamenti ottici, il comandante cercava di risintonizzare le frequenze di bordo su quelle della Flotta.

“Uff, così non va…” sbuffò, asciugandosi con la manica il sudore dalla fronte, “è più difficile del previsto…” ammise, massaggiandosi il collo indolenzito, “Pavel! Vieni un attimo?”, la voce dell’ufficiale raggiunse l’orecchio del russo, seduto alla sua postazione con l’occhio sul radar; si voltò, alzandosi, un sorriso divertito gli increspò spontaneo le labbra, vedendo i ciuffi nerissimi della compagna ondeggiare a ogni movimento.

Si poggiò coi gomiti sul bordo del pannello, sporgendosi quel tanto che bastava per farsi vedere: “Cosa succede?” domandò; Uhura si spostò leggermente per guardarlo in viso, la sua pelle era madida di sudore e trasfigurata in una smorfia di disappunto e stanchezza, “Non riesco a interfacciare le comunicazioni del Comando, il sistema non risponde alle istruzioni che ho dato al computer centrale.” dichiarò lei, sfregando i palmi sudati sui pantaloni della divisa; il russo si inginocchiò accanto a lei, scoccando un’occhiata critica all’ammasso inestricabile di allacci elettronici che penzolavano inerti, sfiorando il pavimento.

“Ma che diavolo…?” imprecò a mezza voce, armeggiando per qualche istante con lo spinotto più vicino, quasi completamente fuso; un paio di scintille avvilupparono la struttura plastica, colpendo dolorosamente le punte delle dita dell’uomo, Chekov si ritrasse come se si fosse scottato: “Ahia!” esclamò, massaggiandosi la parte lesa e mollando il frammento plastico, “Maledizione… è tutto in sovraccarico, devi staccare l’impianto e lavorare a freddo, oppure rischi di prendere una brutta scossa e bruciare l’intera struttura.” affermò serio, alzandosi e aiutando la compagna a fare altrettanto.

La donna sospirò, armeggiando con i dispositivi di controllo: “così facendo sarà tutto molto più lungo… Dannata tecnologia Klingon, inutile come i suoi creatori…” sbuffò lei amareggiata, cominciando a staccare alcuni cavi ormai inservibili e a gettarli in un angolo.

Pavel si sedette sulla poltroncina: “Io non ho ancora finito coi radar ma finché Hikaru non rientra non posso proseguire con il caricamento delle mappe, posso darti una mano.” propose il russo, passandole alcune chiavi.

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“Leonard, mi spiegheresti il senso di questa tua idea?”

La voce di Scotty giunse attutita, coperta in parte dal rumore delle turbine, il volto del capo ingegnere sbucò, sporco di grasso e olio bruciato, da sotto un pesante portellone; i vispi occhietti dello scozzese saettarono dubbiosi verso il medico, seduto comodamente a gambe incrociate su una cassa di legno abbandonata in un angolo della sala macchine, il gilet piegato e depositato accanto, c’era troppo caldo là sotto: “non possiamo dare il nome Enterprise ad un vascello Klingon!” esclamò schifato il dottore, “Sarebbe un insulto alla nostra gloriosa nave! E poiché noi siamo, in un certo qual senso, degli ammutinati, perché no?” argomentò, puntellandosi coi palmi sui ginocchi, “Ho capito, ma diavolo! Già è difficile accettare che l’Enterprise non ci sia più…”, la voce di Scott, di solito allegra, risonante e gioviale, si abbassò di un’ottava, “ma dare un nome allo scafo di quei bastardi di Klingon mi sembra quasi tradire la sua memoria.”.

Bones sospirò, stringendo i pugni: “Lo so, è triste pensare che, dopo più di vent’anni, l’Enterprise non ci sia più; la nostra nave ci ha servito fedelmente e la sua carriera si è conclusa per salvarci; ma adesso, è questa quella che ci riporterà a casa,” dichiarò, dando un colpetto alla parete metallica col dorso della mano, “e forse è meglio dargli un nome diverso da quello che quel pazzo di Kruge, o chi per lui, gli ha dato. Non ho alcuna intenzione di rientrare nello spazio aereo terrestre a bordo di una “Lampo di Guerra” o “Furia Animale”, o con qualunque altro nome bislacco l’abbiano battezzata, né ora né mai!”.

Una sonora risata riecheggiò tra le quattro mura metalliche, una manata s’abbatté implacabile sulla schiena del medico, mozzandogli il respiro: “Hai perfettamente ragione! E sono certo che anche all’ammiraglio e agli altri andrà bene!” esclamò Scotty, strappando un sorriso al vecchio brontolone.

In quel preciso momento, l’interfono gracchiò fastidiosamente e la voce, seppur disturbata, del loro comandante risuonò forte: “Scott, Bones, raggiungeteci di sopra.”.

I due amici si guardarono interrogativi: “E adesso cosa succede?” si lamentò il dottore, afferrando il gilet e indossandolo, “Andiamo a vedere, forza.” lo spinse in avanti l’ingegnere.

Una volta in plancia, videro che era del tutto deserta: “Saranno fuori.” decretò Scotty, asciugandosi la fronte imperlata di sudore, “Certo che quassù fa un caldo micidiale!” esclamò, levandosi la giacca della divisa e poggiandola sullo schienale della sedia della postazione tecnica.

“Finalmente! Era ora che arrivaste!” dichiarò l’ammiraglio, sbucando improvvisamente sulla soglia della porta scorrevole, “Mancavate solo voi, dobbiamo prendere una decisione importante.”.

Fuori c’erano già tutti gli altri.

Rivolgendosi un breve e sbrigativo cenno di saluto, i cinque ufficiali della Flotta si disposero in ordine di grado dinanzi al loro comandante; Jim li guardò uno a uno, con uno sguardo colmo di orgoglio: “Signore, sappiamo cosa sta per dire.” affermò improvviso il giapponese, serio come non mai, “Ce l’aveva già chiesto, ricorda? E la risposta non è cambiata.” continuò il russo, “noi resteremo con lei sino alla fine.” concluse la donna.

Per un attimo, l’ammiraglio restò basito, cosa si aspettava? Forse che lo avrebbero ascoltato?

Qualcosa dentro di lui sapeva che non lo avrebbero mai fatto.

Ma diamine, almeno il tempo di parlare!

L’uomo si ravvivò i corti capelli scuri, non sapendo che dire né come agire.

“Beh, non resta che metterla ai voti.” decretò poi, passandoli in rassegna come avrebbe fatto in altri tempi, e come già aveva fatto molto tempo prima.

Ognuno di loro rinnovò il proprio giuramento di fedeltà con decisione e senza esitazione alcuna, le immense solitudini siderali li avevano temprati a ben altre difficoltà e avevano da sempre saputo che, in tali occasioni, non si può solo contare su sé stessi.

Si, forse sarebbero stati processati, ma almeno le loro anime sarebbero state salve.

§§§§

La notte calò rapidamente, il caldo intenso cedette il posto al freddo intenso.

Sarebbe stata la loro ultima notte su Vulcano.

Lo Sparviero Klingon ormai familiarmente ribattezzato “Bounty” riposava come un grande uccello da preda sulla sabbia del deserto, pronto a spiccare il volo al sorgere del Sole, a lasciare l’ospitale nido per gettarsi nel pericolo.

A bordo, il silenzio e la tensione erano così tangibili da poter essere affettati con un coltello, e solo ogni tanto il ticchettio nervoso delle dita del comandante russo alleggeriva l’aria pesante che vi regnava; alla quarta volta, il compagno giapponese lo squadrò torvo, intimandogli con lo sguardo di piantarla e starsene tranquillo.

Ma il più giovane lo ignorò, continuando quel fastidioso rumore.

Sulu allora scattò in piedi, facendo un gran chiasso, che rimbombò a lungo nella plancia muta, con un balzo gli fu davanti, lo afferrò per il colletto e lo sollevò di qualche centimetro, il suo sguardo sprizzava di lampi di rabbia. Per un attimo, Chekov restò sorpreso da quella reazione dell’amico, sgranò gli occhi, cercando di divincolarsi, ormai privo di aria; improvvisamente, l’asiatico mollò la presa, lasciando cadere il compagno a terra, si guardò le mani tremanti, il russo tossì e ansimò, stringendosi un lembo della maglia col pugno, aveva la gola in fiamme.

“Ragazzi.. Cosa diavolo vi prende?” domandò sconvolta Uhura, avvicinandosi a Pavel per aiutarlo a rialzarsi, “Non risolveremo i nostri problemi in questo modo, lo sapete.” disse la donna, facendo sedere il più giovane sulla poltroncina, “Credevo fossimo tutti d’accordo.” li rimbeccò l’africana, guardandoli fisso, “non riesco a capire tutto questo nervosismo!” la sua voce, di solito tranquilla e gentile, si alzò di parecchie ottave, “Mi avete capito?” chiese severa, “Cosa diavolo vi prende?!” ripeté.

I due evitarono testardamente il suo sguardo.

“Allora ve lo dico io cosa vi succede, in tanti anni che vi conosco non avete mai litigato tra di voi, e il fatto che vi siate svegliati adesso indica una sola ragione possibile.“ decretò con tono rabbuiato, “non vi fidate più l’uno dell’altro. Siete spaventati,” incalzò, “e il periodo che avete passato separati non ha fatto altro che aumentare quel divario che vi aveva diviso quando siamo stati tutti riassegnati. E parlo soprattutto per te, Pavel.” disse seria Uhura, fissando coi suoi occhi d’onice quelli più chiari e sfuggenti del compagno, “in questi anni, sei come scomparso. Noi, più o meno, eravamo ancora tutti assieme, tu invece no, non ci sei mai più stato. Sei diventato totalmente un’altra persona e non mi importa nulla della carriera!” sbottò la donna, anticipando la scusa bislacca che il russo, lo sapeva, stava per propinargli.

Sulu si ritrasse istintivamente, intimorito da una simile reazione da parte di Uhura.

“Dove è finito il Pavel Chekov che conoscevamo? Il guardiamarina fifone e sbruffone che mi ha accompagnato su Deep Space K-7, che quando gli ho raccontato di ciò che avevo visto nell’altra dimensione ha riso così tanto da strozzarsi e mi ha preso in giro per settimane? Dove è finito?” chiese lei, prendendo la sua cetra e allontanandosi.

I due restarono in silenzio.

“Io sono qua fuori, quando avrete finito di scannarvi e avrete ripensato alle mie parole, forse rientrerò.”.

Il silenzio si fece più pressante.

Il giapponese era andato a sedersi alla postazione tecnica, lontano da quella che, di solito, divideva con l’amico di sempre.

Per la prima volta, si erano volontariamente separati.

“Nyota ha ragione,” disse improvvisamente Sulu, “Sei cambiato.” notò rammaricato; Chekov ruotò lentamente la poltrona, i loro occhi si incrociarono nuovamente, il più giovane provò una sorta di brivido e imbarazzo, in fondo al cuore sapeva che ciò che l’amico stava dicendo corrispondeva alla verità.

Ma cosa poteva dirgli?

“Siamo tutti cambiati,” cercò di mantenere un tono freddo e distaccato, “Sono passati tanti anni da allora, e io non sono più il ragazzino impulsivo di un tempo.” spiegò a bassa voce, ma perché quelle parole sembravano assurde anche a lui?

“La verità è che ti sei fatto fregare…” borbottò l’asiatico, “la Flotta ti ha trasformato in una pedina, un cane da guardia. Ci ha provato anche col capitano, ma non ci è riuscita. Speravo che anche tu non fossi caduto nella sua trappola, ma mi sbagliavo…” mormorò, facendo per alzarsi.

“NON È VERO!” gridò improvvisamente il tenente, balzando in piedi e stringendo i pugni, “IO NON SONO UNA PEDINA DELLA FLOTTA!” replicò con voce strozzata; tranquillo, Hikaru poggiò il viso sul palmo della mano, puntellandosi con il gomito sul ginocchio: “Dimostramelo, e mi rimangio tutto quello che ho detto.” concluse, socchiudendo gli occhi, in attesa.

Pavel si guardò tremante le mani, come avrebbe potuto?

In un attimo, un esplosione di colori, ricordi e pensieri avvolse la sua mente, il ricordo di tutte le difficoltà che avevano superato nel corso degli anni lo fece sprofondare nel tepore della nostalgia, in ogni ricordo, si vedeva sempre con qualcuno, non era mai stato da solo.

Si sentiva così invincibile quando era con loro, quando era al fianco dei suoi amici di sempre; un ricordo stupido gli era balzato alla mente, quando, assieme a Scott e ad alcuni altri, si era beccato una sgridata dal capitano per aver fatto rissa con dei Klingon su una vecchia stazione spaziale, si rivide giovane, tirando su col naso per far sparire il rivoletto di sangue, regalino di uno degli aggressori. Eppure, aveva provato una vera e propria gioia quando aveva colpito sul muso il klingon che aveva osato insultare la loro nave e il loro capitano.

Il suo servizio sulla Reliant non gli era sembrato mai così cupo e triste, al confronto con l’Enterprise.

Al contrario, lì era solo.

Era semplicemente il primo ufficiale, il suo compito era dare ordini, quello dei suoi sottoposti di obbedirgli.

Nient’altro.

Aveva sbagliato.

Si era fatto fregare come il guardiamarina che, in fondo, sarebbe sempre stato.

“Cos’è, il tribolo ti ha mangiato la lingua?” la voce seria di Sulu lo riscosse dai suoi pensieri; Chekov scosse la testa, alzando finalmente lo sguardo, uno sguardo fiero e scanzonato.

“D’accordo, ammetto di essermi fatto fare fesso come un pivello,” disse rassegnato, strappandosi i gradi di dosso e gettandoli a terra, “Su questa nave non c’è posto per un cagnolino fedele, da questo momento sarò un cane randagio!” esclamò con gran serietà e un risolino a stento trattenuto, quella farsa ebbe l’effetto di far sorridere il giapponese, “Ora ti riconosco!” esclamò allegro l’amico, alzandosi per stringergli la mano, “Baka, bentornato!”.

 

ANGOLO DEL LEMURE VIOLETTO

OK, è necessaria una spiegazione ^^’’’

 

Chiedo scusa, ma la fic non è più di due soli capitoli…

Ma di tre.

Col prossimo sono sicura di concluderla; purtroppo mi sono accorta che certe scene non potevo tagliarle né saltarle e perciò  è necessario dividere la fic in tre, di modo da dare spazio a tutto e a tutti.

Come avete visto, abbiamo fatto una carrellata su tutti, anche su Saavik e Amanda.

Piccole precisazioni: la prima scena, credo, non ha bisogno di spiegazioni, è sufficientemente chiara così. Seconda scena, partiamo dal presupposto che io sono dell’idea che Saavik abbia avuto una breve relazione con , per questo è rimasta sconvolta quando è morto, Amanda lo sapeva e per questo cerca di convincerla a non abbandonare la Flotta.

Terza scena, uno spaccato di vita a bordo del Bounty, con la famosa decisione da parte di Bones del nuovo nome da dare allo Sparviero. Quarta e ultima scena, beh, non può sempre andare tutto bene, no? Qualche litigio rafforza l’amicizia, soprattutto quella di vecchia e lunga data.

Nella prossima, rivedremo Amanda, Spock, Jim e Bones.

RINGRAZIO I MIEI FIDATI RECENSORI, MAYA, EERYA, ROWEN, ABDULLA E PERSEFONE, *inchino* SONO CONTENTA DI ESSERE RIUSCITA A DARE VOCE A TUTTE LE EMOZIONI COME VOLEVO^*^

 

GRAZIE DI CUORE

 

SHUN

   
 
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