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Autore: Aurelia major    25/03/2010    4 recensioni
Stralci dalla teoria alla pratica, quando l’amor conteso, inseguito, ipotizzato e alla fine compiuto, si trasforma in convivenza. E la vita comune si sa, non è mai una passeggiata…
Genere: Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Haruka/Heles
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Fischiettava e spensierata uscì dall’ascensore con le movenze feline d’un teatrale paso doble. Dopodiché, ritirando lentamente al corpo la gamba flessa, fece perno sull’altra e con un mezzo giro s’apprestò alla porta di casa. Un ghigno premeditato le aleggiava sulle labbra e tra le mani aveva una rosa rosso sangue, il cui stelo aveva accuratamente privato delle spine, intanto che attendeva d’arrivare all’ultimo piano.

Era di ritorno da un set fotografico, dove si era svolta una prolungata sessione di scatti, che avrebbero corredato l’articolo di un noto mensile a lei dedicato. Perciò aveva ancora indosso i ferri del mestiere, il che voleva dire che non avrebbe avuto bisogno di cambiarsi per quel che aveva in mente. Per la verità l’idea le era venuta proprio mentre, di nero vestita, dalle scarpe a punta fino al leggero tratto di matita con il quale la truccatrice le aveva contornato gli occhi, tenendo tra le braccia una modella da capogiro, ballava con lei un’intrigante milonga.

Insomma si sentiva irresistibile ed era pronta a pavoneggiarsi anche più del suo solito. E d’accordo che quel giorno non ricorreva nessuna occasione particolare, né che dovesse farsi perdonare qualcosa,  però aveva voglia di coinvolgere la sua metà in un qualcosa d’imprevisto ed insolitamente romantico. Per cui, una volta tanto, i quattro salti di cui sentiva l’esigenza non erano quelli in padella e neppure sul materasso, bensì letterali. E voleva perdersi con Michiru nelle spire di un torbido tango.

Aveva già in mente persino il vestito che quest’ultima doveva mettersi addosso a tal fine: quello rosso con la scollatura da capogiro sulla schiena. Ovvero, quello che la ragazza aveva comprato da un bel pezzo e che ancora giaceva avvolto nella sua carta velina, perché le aveva impedito categoricamente d’indossare. Del resto era inevitabile giacché, quando Michiru gliel’aveva mostrato, le erano tornate in mente molte delle sue fantasie adolescenziali, soprattutto quelle perlopiù disseminate di pin-up in sottoveste vermiglia. E per questo aveva dato luogo ad una serie d’obiezioni che avrebbero fatto l’invidia di Otello e aveva imposto il suo arbitrario veto, generando l’inevitabile lite. In ogni caso, dopo quella discussione assai accesa, sebbene fossero passati mesi, non ci erano più tornate sopra.

“Ma stasera c’è il condono e per me se lo può mettere!” Si disse aprendo la porta e dirigendosi, ridacchiando, verso la livingroom. Strano, la stanza era deserta malgrado Michiru le avesse assicurato che sarebbe rimasta in casa, ciononostante, dopo un sommario controllo, comunque non la trovò.

“Ahi, ahi.” Pensò fermandosi silenziosamente davanti alla porta dello studio, ovvero il personalissimo sancta santorum di Michiru. Lì suonava e dipingeva e vi si poteva accedere solo se espressamente invitati. Quindi, se si ci era rintanata, non c’era speranza alcuna e le sarebbe toccato di dare irrimediabilmente addio a tutti i suoi progetti danzanti. 

Cauta e facendo attenzione a non far rumore, s’apprestò all’uscio, gettò un’occhiata oltre il battente socchiuso e si fermò a guardarla. Era là infatti, se ne stava in piedi davanti al telaio e sembrava indugiare indecisa. I pennelli erano a mollo nel barattolo dell’acqua, i colori accuratamente riposti nella loro scatola di palissandro e la tela ancora d’un bianco virgineo. Probabilmente stava studiando la prospettiva o decidendo la tinta con cui tracciare le linee base, giacché aveva il capo un po’ di traverso e le vezzose lenti da presbite calate a metà del naso.

Un adorabile insieme che involontariamente le strappò un sorriso, visto che sapeva benissimo che quello non era l’atteggiamento voluto di una snobistica bohemienne, ma la conseguenza d’un imprevisto non calcolato. Già, in effetti Michiru aveva volutamente scelto quella stanza per sé in virtù del suggestivo lucernario che le lasciava cadere addosso copiosa la luce del sole e volentieri se ne lasciava investire. Peccato però non avesse pensato a quanto potesse darle fastidio. Per cui, onde proteggere le sensibili iridi celesti, le toccava assumere quella peculiare ed interlocutoria posa.

Affascinata e dimentica di tutto il resto, ché raro era il privilegio di poterlo fare senza che lei se ne accorgesse, continuò ad osservarla. Ad un occhio distratto Michiru sarebbe potuta sembrare apparentemente immobile ma, nonostante se ne stesse con le braccia mollemente poggiate alla sinuosa linea dei fianchi, le palpebre socchiuse e il volto aureolato dai capelli che aveva lasciati sciolti, lei sapeva invece che in quel momento la ragazza era preda d’una sorta di travaglio. Status questo che la faceva completamente dimentica del circostante, perché completamente concentrata su sé stessa. E a tal fine ispirava ed espirava impercettibile, temporeggiando in attesa che i suoi fremiti più profondi si liberassero e prendessero a dilagare.

“Non è bello che me ne stia qui a spiare un momento così personale.” Considerò sentendosi un po’ in colpa e costringendosi ad allontanarsi, sebbene andarsene le costasse fatica. E, intanto che si toglieva di dosso gli eleganti paramenti che non pensava più utilizzabili per quel giorno, ripensava a quando di comune accordo avevano deciso di convivere. A quel punto infatti gli era parsa la conseguenza più naturale all’evoluzione del loro rapporto. E così, da un giorno all’altro, quando all’epoca era ancora solita definire casa sua, con piglio possessivo, come il mio appartamento, Michiru si era stabilita ipso facto presso di lei. E forse anche per questo motivo inizialmente Michiru si era mossa alquanto titubante tra quelle mura. Appariva a disagio e le chiedeva continuamente il permesso di fare questo o quello. Una situazione difficile da gestire e che aveva preso a cambiare solo quando, con una felice intuizione, ebbe capito di quanto Michiru avesse bisogno di uno spazio solo suo. Perciò, con finta noncuranza, l’invitò a sceglierselo e a farci ciò che più le pareva.  Risultato? Dopo qualche settimana, visibilmente più rilassata e a suo agio, Michiru le mostrò il risultato delle sue decisioni, ovvero, una stanza priva di qualsiasi orpello e dalle pareti lasciate volutamente spoglie, perché il concavo potesse essere colmato dalla sua creatività e i soli colori presenti fossero unicamente quelli affastellati dalle sue mani.

Ripensando condiscendente alla reazione sorpresa avuta in quel frangente, entrò nella cabina della doccia e si disse che probabilmente il suo stupore era dovuto soprattutto al fatto che allora era agli albori della comprensione e dell’innamoramento e perciò doppiamente stranita. D’altronde, ad essere sincera fino in fondo, non si sarebbe mai e poi mai immaginata che le opere di una pittrice, la stessa per la quale accidentalmente aveva perso la testa, potessero nascere traendo forma ed espressione dall’alveo delle percezioni sensibili che Michiru riusciva ad evocare attraverso i sensi in quel vuoto apparente. Certo, con l’andare del tempo aveva imparato a conviverci, anche perché poteva accadere che d’un tratto, senza che nulla fosse all’apparenza mutato o accaduto, Michiru protendesse la mano verso i pennelli e cominciasse a dipingere. Così, di punto in bianco ed interrompendo all’istante qualsiasi cosa stesse facendo in quel momento. Ne era stata più volte sbigottita testimone, tanto che infine Michiru si era quasi vista costretta a confessarle che spesso, dipingendo o suonando il violino, per non menzionare quando nuotava per ore ed ore in piscina, si ritirava come in una sorta di dimensione parallela, dove poteva avanzare e regredire a suo piacimento sull’altalena del tempo.

Dichiarazione questa che l’aveva colpita come un pugno nello stomaco, giacché era chiaro che in quelle sospensioni oniriche non aveva posto e che mai avrebbe potuto essere là con lei a dondolarsi tra passato e futuro. Naturalmente non gliel’aveva detto, se ne vergognava e non voleva apparirle oltremodo invadente. In ogni caso, dacché aveva realizzato questo alienante concetto e Michiru, col sorriso sulle labbra e l’espressione già rapita, si ritirava in quella stanza per tornare al suo personalissimo universo, ne soffriva e si sentiva dolorosamente tagliata fuori.

“E forse l’invidio anche.” Si disse entrando in cucina e cominciando a tirare fuori le vivande per la cena. Normalmente era l’altra a cucinare, ma, visto che era in balia dell’estro, preferì non disturbarla e se ne assunse il compito. Pure, annodandosi il grembiule alla cintola e sciacquando le verdure nel lavandino, si ritrovò a sospirare triste.

No, pensò riprendendo le fila del suo soliloquio, non era invidia la sua. Eppure il poter escludere tutto quanto non fosse strettamente connesso a sé stessi, anche se per poco, seppure per il solo spazio di uno spartito o di un disegno, era un raro dono. E da qualsiasi angolazione la si volesse vedere, il comportamento di Michiru era comunque un allontanarsi che la metteva a parte. Momentaneo d’accordo, però, finché le loro strade non s’erano incrociate, era stata fortemente persuasa che fosse lei quella che si staccava, estraniandosi e mantenendo le distanze. E invece, guarda un po’? Si sbagliava e di grosso pure. Quindi, checché mostrasse agli altri e soprattutto a colei che amava, la verità era che non ne era più capace. Se mai lo era stata.

“Mi hai messa a nudo Michiru.” Pensò dolente continuando a preparare come se niente fosse e sbattendosene altamente del fatto che le stavano venendo i lucciconi. “La tua anima brilla e così i tuoi occhi, che mi ritrovo a fissare intensamente senza motivo e solo perché sono i tuoi. Quando mi prendi le mani dolcemente mi manca il fiato ed è per questo che fuggo, fingendo un fastidio che m’impongo e che è a me che fa più male, anche se ti lascio credere il contrario. Sei la leva che m’innalza e lo specchio che mi ha ridato il privilegio dei sogni, perché incatenandomi mi hai resa libera, dando un senso a quello che non ne aveva. Per te e con te accanto è come se avessi la forza di scatenare le tempeste e donare pioggia alla terra riarsa. Ti sei impossessata del mio corpo, respiri nei miei respiri e m’hai sfondato il petto e la testa, portandomi tra le onde delle tue emozioni… e per questo, quando ti chiudi in quella maledetta stanza, quando vivi ed esisti nonostante me, indipendentemente da me, io mi sento di morire, anche se voglio di vivere e per farlo ho bisogno del tuo calore!”

Ecco l’aveva ammesso infine e, come temuto, accidenti a lei, le lacrime le attraversavano il viso, picchiettando la tovaglia con la quale nel frattempo, alla stregua d’un automa, aveva imbandito il tavolo. Rabbiosa ci sbatté i pugni e volentieri se ne sarebbe andata anche lei in qualche mondo fantastico. Magari in uno dove poter essere insensibile come le sarebbe piaciuto, lasciandosi scivolare addosso, con un’indifferente scrollata di spalle, ogni sensazione. Facile per Michiru esortarla ad essere meno criptica, dicendole persino che piangere aiutava a crescere. Stronzate, era deleterio e odiava le sue debolezze, questa in particolare, con lo stesso accanimento con cui l’amava. Sgraziatamente si asciugò gli occhi e giusto in tempo, giacché d’un tratto Michiru apparve sulla soglia.

“Non ci posso credere, hai cucinato!” L’apostrofò scherzosa mimando un esagerato stupore.

Presa di contropiede stornò lo sguardo dalla sua traiettoria e subito abbassò le mani per togliersele dalla faccia. Quindi, ficcò la testa nel frigorifero e da quell’anfratto le rispose con una frecciatina acida alludente al fatto che, mentre qualcuna di sua conoscenza si dava alla composizione delle nature morte, per forza a lei toccava di dedicarsi a quelle cotte.

Deliziata da quell’ironia corrosiva Michiru rise di gusto, ma poi, notando infine gli occhi rossi e l’espressione amara dell’altra si allertò. “Ehi che succede?” Chiese facendosi vicina.

“Che vuoi che sia?” Rispose evitandola ed assumendo il solito piglio tra lo scocciato ed il sarcastico.  “Quello che succede quando affetti le cipolle!”

“Sì, eh?” Poco persuasa Michiru fece per ribattere, ma poi, ravvisata all’istante la riottosità che le stava venendo riservata, decise che non era il caso d’insistere. Fece finta di nulla e sorridendo si avvicinò ai tegami che borbottavano sui fornelli. “Guarda, guarda”, aggiunse scoperchiando una pentola e annusandone il contenuto, “allora il profumino che arrivava nel mio studio non me lo sono immaginato.”

“Pare di no.” Replicò distaccata, ma senza riuscire a dissimulare del tutto il risentimento che la sola menzione a quella stanza le suscitava. E per questo di nuovo ne evitò lo sguardo, mostrandosi affaccendata a stappare una bottiglia di vino. Quindi, poggiandosi al piano di lavoro, si riempì il bicchiere e le buttò lì un beffardo: “Allora, quale capolavoro immortale hai partorito stavolta?”

Per tutta risposta Michiru sorrise serafica e si riempì il calice a sua volta, prendendosi tutto il tempo necessario per farlo decantare e le si accostò. “E’ strano.” Esordì fermandosi ad appena un passo e fissandola intenta. “Avevo in mente di fare tutt’altro, la mia intenzione era quella di dipingere quel tratto di costa che da Kobe s’inoltra verso il mare. Sai, quello con la strada che sembra inoltrarsi all’infinito e le case che degradano verso lo sprofondo. Te ne avevo parlato, ricordi?”

“Certo che me ne ricordo, mi hai fatto una testa così!” Ribatté pungente, voltandosi a bella posta per dare una rimescolata alla zuppa e rifiutando cocciutamente quelle offerte di pace.   

“Invece”, proseguì imperterrita Michiru, “improvvisamente e chissà da dove ho avvertito, vago e appena accennato, un profumo che mi ha fatto cambiare idea. In un certo senso si potrebbe dire che è stato quello a guidare la mia mano.”

“Più che un profumo, doveva trattarsi di una miasma. Perché solo una puzza infernale potrebbe superare le barriere invalicabili di cui è dotato il tuo eremo!” Fece caustica al fine di scuoterne l’imperturbabilità, ma immediatamente venne tacitata da un dito sulle labbra.

“Ascolta fino in fondo Haruka.” L’ammonì paziente, solo per sentirsi ribattere, in modo ancor più impertinente, con un sì, mamma.

“Non ho pensato affatto a quanto stavo facendo, seguivo l’idea portante e basta. Però quell’essenza mi ha ricordato il giardino dei miei nonni e allora ho capito che chiunque fosse a profumare così, era là che mi stava aspettando.”

“Sarà stato l’invincibile Shogun Michi, ché me lo ricordo bene il giardino di tua nonna!” Replicò mordace, ripensando all’atavica oasi della famiglia Kaioh. Un pezzo di terra d’antica genesi e arcaicamente corredato di tempietti di pietra e fontane di bambù, nel quale le era toccato partecipare ad una retriva cerimonia del tè, per la quale l’avevano pure obbligata ad indossare il kimono.  E, visto che per lei quella era la prima volta, aveva trovato sia l’indumento che la postura cui era stata costretta, assolutamente scomodi.

“Già, ma quel che forse non ti ricordi è che, oltre il muro di cinta, c’è una piana erbosa disseminata di poggi.” Le rammentò avvicinandosi ancor di più e ficcandosi, vincendone a fatica la maldisposta resistenza, tra le sue braccia. Poi, poggiandosi di schiena e accoccolandole la testa su di una spalla, l’invitò ad abbracciarla, ché non mordeva mica.

Uno sbuffo scocciato  e una stretta riluttante fu tutto quello che ne ricavò.  

“Dov’ero rimasta?” Chiese senza riuscire a reprimere un sorrisetto condiscendente.

“Ai poetici poggi.” Ribatté con voce soave facendole il verso.

“Giusto. In effetti pensavo a quelli mentre dipingevo, immaginandomi nuovamente decenne nel percorrerli a perdifiato. E sai cosa? Avevo ragione, qualcuno m’attendeva e non ero sola, perché avanti a me correva, scalza e senza meta, un’allampanata figura che pareva avesse le ali ai piedi. Ciononostante, quando si è accorta che la ricorrevo e che non riuscivo a raggiungerla, si è fermata e mi ha aspettato.”

“Io non l’avrei fatto.” Affermò lapidaria e mendace, al fine di smentire qualsiasi sottinteso l’altra volesse darle ad intendere. Pure, esposta al tiro di quello sguardo carico di allusioni, abbassò gli occhi contrita.   

“Balle.”

E con quest’esclamazione Michiru, ruotando nel circolo delle sue braccia fino a trovarsi viso contro viso, lentamente e con enfasi, le avvicinò il naso all’incavo del collo e inspirò profondamente.

“E che tu ci creda o no, è stato un profumo acre di sudore a trascinarmi lì, ma anche a riportarmi qui adesso.”  

E detto questo si staccò, per poi darle un colpetto che l’invitava a spostarsi, per farle tirare fuori i piatti dalla dispensa. Ché non c’era molto altro da aggiungere e, chi voleva capire, stava avendo modo d’intendere.

In ogni caso comunque, quella sera ballarono e, con suo immenso stupore,  Michiru volle danzare tra le pareti spoglie del suo studio.

 

 

 

N.d.A.

Non è colpa mia, anzi si potrebbe dire che hanno fatto tutto loro, prendendo il sopravvento sui miei propositi ridanciani e fidando sulla complicità di un cd degli Avion Travel che ascoltavo in sottofondo. E infatti il titolo prende spunto da un verso di una loro canzone. Che altro posso dire? Vero che questa raccolta è nata sotto il segno del comico e che fin qui si è nutrita di paradossi e farsa grottesca, ma in fondo non penso sia tanto strana questa parentesi un po’ meno gioconda. E, del resto, pure queste due pazze hanno diritto ogni tanto ad un minimo di serietà, no?    

   
 
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