Fischiettava e
spensierata uscì dall’ascensore con le
movenze feline d’un teatrale paso doble.
Dopodiché, ritirando lentamente al
corpo la gamba flessa, fece perno sull’altra e con un mezzo
giro s’apprestò
alla porta di casa. Un ghigno premeditato le aleggiava sulle labbra e
tra le
mani aveva una rosa rosso sangue, il cui stelo aveva accuratamente
privato
delle spine, intanto che attendeva d’arrivare
all’ultimo piano.
Era di ritorno
da un set fotografico, dove si era svolta una
prolungata sessione di scatti, che avrebbero corredato
l’articolo di un noto
mensile a lei dedicato. Perciò aveva ancora indosso i ferri
del mestiere, il che
voleva dire che non avrebbe avuto bisogno di cambiarsi per quel che
aveva in
mente. Per la verità l’idea le era venuta proprio
mentre, di nero vestita,
dalle scarpe a punta fino al leggero tratto di matita con il quale la
truccatrice le aveva contornato gli occhi, tenendo tra le braccia una
modella
da capogiro, ballava con lei un’intrigante milonga.
Insomma si
sentiva irresistibile ed era pronta a
pavoneggiarsi anche più del suo solito. E
d’accordo che quel giorno non
ricorreva nessuna occasione particolare, né che dovesse
farsi perdonare
qualcosa, però
aveva voglia di
coinvolgere la sua metà in un qualcosa
d’imprevisto ed insolitamente romantico.
Per cui, una volta tanto, i quattro salti di cui sentiva
l’esigenza non erano
quelli in padella e neppure sul materasso, bensì letterali.
E voleva perdersi con
Michiru nelle spire di un torbido tango.
Aveva
già in mente persino il vestito che quest’ultima
doveva
mettersi addosso a tal fine: quello rosso con la scollatura da capogiro
sulla
schiena. Ovvero, quello che la ragazza aveva comprato da un bel pezzo e
che
ancora giaceva avvolto nella sua carta velina, perché le
aveva impedito
categoricamente d’indossare. Del resto era inevitabile
giacché, quando Michiru gliel’aveva
mostrato, le erano tornate in mente molte delle sue fantasie
adolescenziali, soprattutto
quelle perlopiù disseminate di pin-up in sottoveste
vermiglia. E per questo aveva
dato luogo ad una serie d’obiezioni che avrebbero fatto
l’invidia di Otello e
aveva imposto il suo arbitrario veto, generando l’inevitabile
lite. In ogni
caso, dopo quella discussione assai accesa, sebbene fossero passati
mesi, non ci
erano più tornate sopra.
“Ma
stasera c’è il condono e per me se lo
può mettere!” Si
disse aprendo la porta e dirigendosi, ridacchiando, verso la
livingroom. Strano,
la stanza era deserta malgrado Michiru le avesse assicurato che sarebbe
rimasta
in casa, ciononostante, dopo un sommario controllo, comunque non la
trovò.
“Ahi,
ahi.” Pensò fermandosi silenziosamente davanti
alla
porta dello studio, ovvero il personalissimo sancta
santorum di Michiru. Lì suonava e dipingeva e vi
si poteva
accedere solo se espressamente invitati. Quindi, se si ci era
rintanata, non
c’era speranza alcuna e le sarebbe toccato di dare
irrimediabilmente addio a
tutti i suoi progetti danzanti.
Cauta e facendo
attenzione a non far rumore, s’apprestò
all’uscio, gettò un’occhiata oltre il
battente socchiuso e si fermò a
guardarla. Era là infatti, se ne stava in piedi davanti al
telaio e sembrava
indugiare indecisa. I pennelli erano a mollo nel barattolo
dell’acqua, i colori
accuratamente riposti nella loro scatola di palissandro e la tela
ancora d’un
bianco virgineo. Probabilmente stava studiando la prospettiva o
decidendo la
tinta con cui tracciare le linee base, giacché aveva il capo
un po’ di traverso
e le vezzose lenti da presbite calate a metà del naso.
Un adorabile
insieme che involontariamente le strappò un
sorriso, visto che sapeva benissimo che quello non era
l’atteggiamento voluto
di una snobistica bohemienne, ma la conseguenza d’un
imprevisto non calcolato.
Già, in effetti Michiru aveva volutamente scelto quella
stanza per sé in virtù
del suggestivo lucernario che le lasciava cadere addosso copiosa la
luce del
sole e volentieri se ne lasciava investire. Peccato però non
avesse pensato a
quanto potesse darle fastidio. Per cui, onde proteggere le sensibili
iridi
celesti, le toccava assumere quella peculiare ed interlocutoria posa.
Affascinata e
dimentica di tutto il resto, ché raro era il
privilegio di poterlo fare senza che lei se ne accorgesse,
continuò ad osservarla.
Ad un occhio distratto Michiru sarebbe potuta sembrare apparentemente
immobile
ma, nonostante se ne stesse con le braccia mollemente poggiate alla
sinuosa
linea dei fianchi, le palpebre socchiuse e il volto aureolato dai
capelli che
aveva lasciati sciolti, lei sapeva invece che in quel momento la
ragazza era preda
d’una sorta di travaglio. Status questo che la faceva
completamente dimentica
del circostante, perché completamente concentrata su
sé stessa. E a tal fine ispirava
ed espirava impercettibile, temporeggiando in attesa che i suoi fremiti
più
profondi si liberassero e prendessero a dilagare.
“Non
è bello che me ne stia qui a spiare un momento
così
personale.” Considerò sentendosi un po’
in colpa e costringendosi ad allontanarsi,
sebbene andarsene le costasse fatica. E, intanto che si toglieva di
dosso gli eleganti
paramenti che non pensava più utilizzabili per quel giorno,
ripensava a quando di
comune accordo avevano deciso di convivere. A quel punto infatti gli
era parsa la
conseguenza più naturale all’evoluzione del loro
rapporto. E così, da un giorno
all’altro, quando all’epoca era ancora solita
definire casa sua, con piglio
possessivo, come il mio appartamento, Michiru
si era stabilita ipso facto presso di lei. E forse anche per questo
motivo inizialmente
Michiru si era mossa alquanto titubante tra quelle mura. Appariva a
disagio e
le chiedeva continuamente il permesso di fare questo o quello. Una
situazione
difficile da gestire e che aveva preso a cambiare solo quando, con una
felice
intuizione, ebbe capito di quanto Michiru avesse bisogno di uno spazio
solo suo.
Perciò, con finta noncuranza, l’invitò
a sceglierselo e a farci ciò che più le
pareva. Risultato?
Dopo qualche
settimana, visibilmente più rilassata e a suo agio, Michiru
le mostrò il
risultato delle sue decisioni, ovvero, una stanza priva di qualsiasi
orpello e
dalle pareti lasciate volutamente spoglie, perché il concavo
potesse essere colmato
dalla sua creatività e i soli colori presenti fossero
unicamente quelli
affastellati dalle sue mani.
Ripensando
condiscendente alla reazione sorpresa avuta in
quel frangente, entrò nella cabina della doccia e si disse
che probabilmente il
suo stupore era dovuto soprattutto al fatto che allora era agli albori
della
comprensione e dell’innamoramento e perciò
doppiamente stranita. D’altronde, ad
essere sincera fino in fondo, non si sarebbe mai e poi mai immaginata
che le
opere di una pittrice, la stessa per la quale accidentalmente aveva
perso la
testa, potessero nascere traendo forma ed espressione
dall’alveo delle
percezioni sensibili che Michiru riusciva ad evocare attraverso i sensi
in quel
vuoto apparente. Certo, con l’andare del tempo aveva imparato
a conviverci, anche
perché poteva accadere che d’un tratto, senza che
nulla fosse all’apparenza
mutato o accaduto, Michiru protendesse la mano verso i pennelli e
cominciasse a
dipingere. Così, di punto in bianco ed interrompendo
all’istante qualsiasi cosa
stesse facendo in quel momento. Ne era stata più volte
sbigottita testimone,
tanto che infine Michiru si era quasi vista costretta a confessarle che
spesso,
dipingendo o suonando il violino, per non menzionare quando nuotava per
ore ed
ore in piscina, si ritirava come in una sorta di dimensione parallela,
dove
poteva avanzare e regredire a suo piacimento sull’altalena
del tempo.
Dichiarazione
questa che l’aveva colpita come un pugno nello
stomaco, giacché era chiaro che in quelle sospensioni
oniriche non aveva posto
e che mai avrebbe potuto essere là con lei a dondolarsi tra
passato e futuro. Naturalmente
non gliel’aveva detto, se ne vergognava e non voleva
apparirle oltremodo
invadente. In ogni caso, dacché aveva realizzato questo
alienante concetto e
Michiru, col sorriso sulle labbra e l’espressione
già rapita, si ritirava in
quella stanza per tornare al suo personalissimo universo, ne soffriva e
si
sentiva dolorosamente tagliata fuori.
“E
forse l’invidio anche.” Si disse entrando in cucina
e
cominciando a tirare fuori le vivande per la cena. Normalmente era
l’altra a
cucinare, ma, visto che era in balia dell’estro,
preferì non disturbarla e se
ne assunse il compito. Pure, annodandosi il grembiule alla cintola e
sciacquando le verdure nel lavandino, si ritrovò a sospirare
triste.
No,
pensò riprendendo le fila del suo soliloquio, non era
invidia la sua. Eppure il poter escludere tutto quanto non fosse
strettamente
connesso a sé stessi, anche se per poco, seppure per il solo
spazio di uno
spartito o di un disegno, era un raro dono. E da qualsiasi angolazione
la si
volesse vedere, il comportamento di Michiru era comunque un
allontanarsi che la
metteva a parte. Momentaneo d’accordo, però,
finché le loro strade non s’erano
incrociate, era stata fortemente persuasa che fosse lei quella che si
staccava,
estraniandosi e mantenendo le distanze. E invece, guarda un
po’? Si sbagliava e
di grosso pure. Quindi, checché mostrasse agli altri e
soprattutto a colei che
amava, la verità era che non ne era più capace.
Se mai lo era stata.
“Mi
hai messa a nudo Michiru.” Pensò dolente
continuando a
preparare come se niente fosse e sbattendosene altamente del fatto che
le
stavano venendo i lucciconi. “La tua anima brilla e
così i tuoi occhi, che mi
ritrovo a fissare intensamente senza motivo e solo perché
sono i tuoi. Quando mi
prendi le mani dolcemente mi manca il fiato ed è per questo
che fuggo, fingendo
un fastidio che m’impongo e che è a me che fa
più male, anche se ti lascio
credere il contrario. Sei la leva che m’innalza e lo specchio
che mi ha ridato
il privilegio dei sogni, perché incatenandomi mi hai resa
libera, dando un senso
a quello che non ne aveva. Per te e con te accanto è come se
avessi la forza di
scatenare le tempeste e donare pioggia alla terra riarsa. Ti sei
impossessata
del mio corpo, respiri nei miei respiri e m’hai sfondato il
petto e la testa,
portandomi tra le onde delle tue emozioni… e per questo,
quando ti chiudi in
quella maledetta stanza, quando vivi ed esisti nonostante me,
indipendentemente
da me, io mi sento di morire, anche se voglio di vivere e per farlo ho
bisogno
del tuo calore!”
Ecco
l’aveva ammesso infine e, come temuto, accidenti a lei,
le lacrime le attraversavano il viso, picchiettando la tovaglia con la
quale nel
frattempo, alla stregua d’un automa, aveva imbandito il
tavolo. Rabbiosa ci
sbatté i pugni e volentieri se ne sarebbe andata anche lei
in qualche mondo
fantastico. Magari in uno dove poter essere insensibile come le sarebbe
piaciuto, lasciandosi scivolare addosso, con un’indifferente
scrollata di
spalle, ogni sensazione. Facile per Michiru esortarla ad essere meno
criptica,
dicendole persino che piangere aiutava a crescere. Stronzate, era
deleterio e odiava
le sue debolezze, questa in particolare, con lo stesso accanimento con
cui
l’amava. Sgraziatamente si asciugò gli occhi e
giusto in tempo, giacché d’un
tratto Michiru apparve sulla soglia.
“Non
ci posso credere, hai cucinato!”
L’apostrofò scherzosa
mimando un esagerato stupore.
Presa di
contropiede stornò lo sguardo dalla sua traiettoria
e subito abbassò le mani per togliersele dalla faccia.
Quindi, ficcò la testa
nel frigorifero e da quell’anfratto le rispose con una
frecciatina acida
alludente al fatto che, mentre qualcuna di sua conoscenza si dava alla
composizione delle nature morte, per forza a lei toccava di dedicarsi a
quelle
cotte.
Deliziata da
quell’ironia corrosiva Michiru rise di gusto,
ma poi, notando infine gli occhi rossi e l’espressione amara
dell’altra si
allertò. “Ehi che succede?” Chiese
facendosi vicina.
“Che
vuoi che sia?” Rispose evitandola ed assumendo il
solito piglio tra lo scocciato ed il sarcastico.
“Quello che succede quando affetti le
cipolle!”
“Sì,
eh?” Poco persuasa Michiru fece per ribattere, ma poi,
ravvisata
all’istante la riottosità che le stava venendo
riservata, decise che non era il
caso d’insistere. Fece finta di nulla e sorridendo si
avvicinò ai tegami che
borbottavano sui fornelli. “Guarda, guarda”,
aggiunse scoperchiando una pentola
e annusandone il contenuto, “allora il profumino che arrivava
nel mio studio
non me lo sono immaginato.”
“Pare
di no.” Replicò distaccata, ma senza riuscire a
dissimulare del tutto il risentimento che la sola menzione a quella
stanza le
suscitava. E per questo di nuovo ne evitò lo sguardo,
mostrandosi affaccendata
a stappare una bottiglia di vino. Quindi, poggiandosi al piano di
lavoro, si
riempì il bicchiere e le buttò lì un
beffardo: “Allora, quale capolavoro immortale
hai partorito stavolta?”
Per tutta
risposta Michiru sorrise serafica e si riempì il
calice a sua volta, prendendosi tutto il tempo necessario per farlo
decantare e
le si accostò. “E’ strano.”
Esordì fermandosi ad appena un passo e fissandola intenta.
“Avevo in mente di fare tutt’altro, la mia
intenzione era quella di dipingere quel
tratto di costa che da Kobe s’inoltra verso il mare. Sai,
quello con la strada
che sembra inoltrarsi all’infinito e le case che degradano
verso lo sprofondo.
Te ne avevo parlato, ricordi?”
“Certo
che me ne ricordo, mi hai fatto una testa così!”
Ribatté pungente, voltandosi a bella posta per dare una
rimescolata alla zuppa
e rifiutando cocciutamente quelle offerte di pace.
“Invece”,
proseguì imperterrita Michiru, “improvvisamente e
chissà da dove ho avvertito, vago e appena accennato, un
profumo che mi ha
fatto cambiare idea. In un certo senso si potrebbe dire che
è stato quello a
guidare la mia mano.”
“Più
che un profumo, doveva trattarsi di una miasma. Perché
solo una puzza infernale potrebbe superare le barriere invalicabili di
cui è
dotato il tuo eremo!” Fece caustica al fine di scuoterne
l’imperturbabilità, ma
immediatamente venne tacitata da un dito sulle labbra.
“Ascolta
fino in fondo Haruka.” L’ammonì
paziente, solo per
sentirsi ribattere, in modo ancor più impertinente, con un sì, mamma.
“Non
ho pensato affatto a quanto stavo facendo, seguivo l’idea
portante e basta. Però quell’essenza mi ha
ricordato il giardino dei miei nonni
e allora ho capito che chiunque fosse a profumare così, era
là che mi stava
aspettando.”
“Sarà
stato l’invincibile Shogun Michi, ché me lo
ricordo
bene il giardino di tua nonna!” Replicò mordace,
ripensando all’atavica oasi
della famiglia Kaioh. Un pezzo di terra d’antica genesi e
arcaicamente
corredato di tempietti di pietra e fontane di bambù, nel
quale le era toccato
partecipare ad una retriva cerimonia del tè, per la quale
l’avevano pure
obbligata ad indossare il kimono. E,
visto
che per lei quella era la prima volta, aveva trovato sia
l’indumento che la
postura cui era stata costretta, assolutamente scomodi.
“Già,
ma quel che forse non ti ricordi è che, oltre il muro
di cinta, c’è una piana erbosa disseminata di
poggi.” Le rammentò avvicinandosi
ancor di più e ficcandosi, vincendone a fatica la
maldisposta resistenza, tra
le sue braccia. Poi, poggiandosi di schiena e accoccolandole la testa
su di una
spalla, l’invitò ad abbracciarla, ché
non mordeva mica.
Uno sbuffo
scocciato
e una stretta riluttante fu tutto quello che ne
ricavò.
“Dov’ero
rimasta?” Chiese senza riuscire a reprimere un
sorrisetto condiscendente.
“Ai
poetici poggi.” Ribatté con voce soave facendole
il
verso.
“Giusto.
In effetti pensavo a quelli mentre dipingevo, immaginandomi
nuovamente decenne nel percorrerli a perdifiato. E sai cosa? Avevo
ragione, qualcuno
m’attendeva e non ero sola, perché avanti a me
correva, scalza e senza meta, un’allampanata
figura che pareva avesse le ali ai piedi. Ciononostante, quando si
è accorta
che la ricorrevo e che non riuscivo a raggiungerla, si è
fermata e mi ha
aspettato.”
“Io
non l’avrei fatto.” Affermò lapidaria e
mendace, al fine
di smentire qualsiasi sottinteso l’altra volesse darle ad
intendere. Pure, esposta
al tiro di quello sguardo carico di allusioni, abbassò gli
occhi contrita.
“Balle.”
E con
quest’esclamazione Michiru, ruotando nel circolo delle
sue braccia fino a trovarsi viso contro viso, lentamente e con enfasi,
le avvicinò
il naso all’incavo del collo e inspirò
profondamente.
“E
che tu ci creda o no, è stato un profumo acre di sudore a
trascinarmi lì, ma anche a riportarmi qui adesso.”
E detto questo
si staccò, per poi darle un colpetto che
l’invitava
a spostarsi, per farle tirare fuori i piatti dalla dispensa.
Ché non c’era molto
altro da aggiungere e, chi voleva capire, stava avendo modo
d’intendere.
In ogni caso
comunque, quella sera ballarono e, con suo
immenso stupore, Michiru
volle danzare tra
le pareti spoglie del suo studio.
N.d.A.
Non
è colpa mia, anzi si potrebbe dire che hanno fatto tutto
loro, prendendo il sopravvento sui miei propositi ridanciani e fidando
sulla complicità
di un cd degli Avion Travel che ascoltavo in sottofondo. E infatti il
titolo prende
spunto da un verso di una loro canzone. Che altro posso dire? Vero che
questa
raccolta è nata sotto il segno del comico e che fin qui si
è nutrita di paradossi
e farsa grottesca, ma in fondo non penso sia tanto strana questa
parentesi un
po’ meno gioconda. E, del resto, pure queste due pazze hanno
diritto ogni tanto
ad un minimo di serietà, no?