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Autore: Glance    26/03/2010    4 recensioni
Quando mi svegliai in questa nuova esistenza, non mi ribbellai o rammaricai. La prima cosa che vidi furono gli occhi buoni e profondi di mio marito Carlisle.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Esme Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga, New Moon
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Quando mi svegliai in questa nuova esistenza, non mi ribbellai o rammaricai. La prima cosa che vidi furono gli occhi buoni e profondi di mio marito Carlisle, che mi osservava con ansia e trepidazione.
Non sapevo chi fosse. L’ultima cosa che ricordavo era la sensazione di un dolore immenso da poter sopportare e un profondo senso di prostrazione e solitudine. Il ricordo di essermi sentita svuotata, come annientata da una forza che mi aveva sovrastata e vinta, da cui non ero potuta fuggire o difendermi.
Quando mi ero risvegliata in questa mia nuova vita, avevo ancora tra le braccia la sensazione che avessero tenuto qualcosa che poi mi era stato portato via, strappato e avvertii il freddo del niente dove mi ero sentita scaraventata.
Il mio cuore non c’era più, aveva seguito quel calore che le mie braccia avevano cercato di trattenere. Il mio cuore aveva seguito un altro battito che non sentivo più, che mi aveva abbandonata lasciandomi per sempre. Non riuscivo a capire perché continuassi ad intuire gli occhi vispi che spiccavano su un viso da bambino che ad un certo punto perdevano la loro luce e si spegnevano per sempre come la fiamma di una candela investita da un soffio di vento gelido ed improvviso.
Non riuscivo a capire dove mi trovassi, ma non avevo paura e mi sentivo tranquilla. Sapevo che avevo fatto una scelta che mi avrebbe portato da un’altra parte e forse ero lì e quello che mi osservava non era che un angelo a cui avrei dovuto rendere conto.
Per quanto facessi però tutto quello che ricordavo erano solo momenti di buio e immagini sfocate e frammentate.
Quando mi svegliavo sentivo un immenso dolore divorare il mio corpo e devastare la mente. Una sensazione di perdita che mi opprimeva. Respirare era doloroso e faticoso. Ero scivolata in un oblio da cui non riuscivo ad emergere. Percepivo un gran candore, tante voci s’affannavano intorno a me, faceva freddo e c’era un forte odore di creolina. Qualcuno non faceva che premere sul mio petto e parlare del mio cuore, ma perché si preoccupavano a cercarlo? Lo avevo già perduto nello sguardo di quel bambino che intuivo appena, ma che era andato via portandolo con sé.
Poi fu il silenzio e l’attesa.
Aspettavo di raggiungere il posto dove avrei potuto incontrare nuovamente quell’amore profondo e smisurato da cui ero stata separata. Aspettai fino a quando l’aria assunse un aroma particolare ed intenso e una voce dolce e suadente mi chiedeva di perdonare. Non riuscivo a capire bene quella richiesta, quando qualcosa di ancora più freddo del mio corpo mi sfiorò il collo in un timido bacio e poi tutto cambiò.
Quando mi svegliai sospirai profondamente come se fossi emersa dalle profondità scure di un oceano in tempesta, ma mi resi conto che non mi dava il sollievo sperato, era un atto completamente inutile che facevo solo perché lo ricordavo. Portai la mano alla gola che bruciava, pensavo che avessi bevuto molto rischiando di annegare, poi la feci scivolare al centro del mio petto e lì rimasi senza parole: il mio cuore non batteva più. Cercai di parlare, ma la voce che avevo sentito chiedermi di perdonare tornò e con mio stupore apparteneva all’angelo che mi fissava e che capivo era rimasto tutto il tempo a vegliare quel mio strano sonno.
“ Non avere paura” diceva con il tono più dolce che avessi mai ascoltato in una nota di voce, ed era velata di rammarico, quasi si sentisse colpevole per qualcosa.
Quando parlai non riuscii a riconoscere la mia voce.
- Dove sono?- Chiesi e le sue mani afferrarono le mie, gentili.
- A casa mia.- Rispose continuando a fissarmi negli occhi cortese e timoroso.- Come ti senti?- Continuò. Ma non sapevo cosa rispondere. Non sapevo come mi sentivo. Di certo bene dopo il dolore atroce che avevo avvertito, ma era come se non mi riconoscessi più, che non fossi più io.
- Sono sicura che con me c’era un bambino. Lo hai visto per caso. Dov’è?- Quegli occhi buoni che non avevano per un istante abbandonato i miei si velarono di una profonda tristezza e tardò a rispondere come per cercare le parole.
- Non c’è nessun bambino, mia cara.- Disse, ma io non riuscivo a capire ero sicura che ci fosse, lo avevo avvertito tra le mie braccia.
- Ma si che c’era.- Risposi e il panico cominciava ad impadronirsi di me.
- Si, hai ragione c’era, ma non è più qui.- Continuò educato il mio interlocutore.
- E dov’è adesso?- Chiesi senza essere sicura di voler sentire la risposta.
- Mi chiamo Carlisle Cullen e sono il medico che ti ha preso in consegna al pronto soccorso…- Lo interruppi.
- Sono in ospedale?- Lo vidi sorridere e scuotere la testa.
- No, Esme sei a casa mia te l’ho detto, ricordi?- Aveva pronunciato un nome: Esme. Era il mio e feci caso al fatto che fino a che lui non lo aveva pronunciato io non lo avevo ricordato.
C’era un bambino con me, io …- L’uomo che diceva di chiamarsi Carlisle e di essere un medico mi fissò a lungo, poi si alzò e andò verso la finestra.
- Quello che sto per dirti, Esme, non sarà facile da capire, tanto meno d’accettare. Ti prego solo di tenere ben chiaro che la tua situazione era disperata e che io non ho potuto lasciarti andare. Solo un’altra volta mi sono trovato davanti a questo bivio. Quando ho incontrato mio figlio…- Non riuscivo a capire, facevo fatica a seguire il corso dei miei pensieri e di tutte quelle parole. La mia testa scoppiava. Più passava il tempo e riprendevo contatto con il mio corpo, più capivo che qualcosa non era più come doveva essere. La mia vista riusciva a percepire parti infinitesimali di dettagli che prima non avevo mai notato, riuscivo a guardare in lontananza oltre la finestra per una distanza considerevole riuscendo a cogliere il movimento di una singola foglia isolandola da tutto il resto, o seguire il saltellare di un piccolo pettirosso da un ramo ad un altro tra l’intrigata chioma di un’ albero. L’udito poi era capace di ascoltare varie conversazioni contemporaneamente anche provenienti dall’esterno. Mi scoppiava la testa e una sorta di disagio misto ad insofferenza a stare ferma mi aveva colta. Feci per muovermi e mi ritrovai dal lato opposto della stanza senza sapere come esserci riuscita.
Fui invasa dal panico e sentii i muscoli tendersi assumendo una posa innaturale. Semi acquattata; sentii un ringhio sordo provenire dal mio petto. Sgranai gli occhi e cercai di rimanere immobile.
- Cosa mi succede?- Riuscii solo a dire. Lui mi guardò mentre timoroso si muoveva nella mia direzione.
- Stai tranquilla cara, nessuno ti farà del male. Siamo qui e ti aiuteremo, non devi temere.- IL respiro divenne affannoso anche se non dava nessun sollievo.
- Cosa non devo temere? Dove sono. Tu chi sei?- Nella stanza, comparve un altro uomo, molto più giovane e con lo stesso sguardo buono.
- Lui è mio figlio Edward, Esme.- Quel ragazzo dal fare gentile che mi osservava comprensivo era suo figlio. Nella mia mente si squarciò la consapevolezza di un ricordo che avevo faticato a richiamare.
Anche io avevo un figlio.
-Voglio mio figlio. Dimmi dov’è…- Ma mentre pronunciavo quelle parole una voragine si aprì sotto di me risucchiandomi. La mia mente varcò la soglia di quel confine invisibile che si era creata per non perdere la ragione. La consapevolezza tornò a balenare in me e ad illuminare una realtà che avevo rifiutato, da cui avevo cercato riparo in tutti i modi senza riuscirci fino al punto di cercare sollievo a quel dolore che improvviso era tornato a squarciarmi il petto. Ricordavo, adesso. Il corpo minuscolo, immobile e freddo del mio bambino. La mia voce che lo supplicava di aprire gli occhi e guardarmi.
Per giorni lo avevo tenuto stretto, protetto. Senza che nessuno riuscisse ad avvicinarsi. Non volevo che nessuno lo toccasse. Poi mi ero dovuta arrendere all’inevitabile. Non c’era più. Non era più con me. Avevo avvertito quell’ennesimo distacco, come una lacerazione, come se mi avessero strappato il cuore . Non c’era pietà, non c’era scampo, non c’era nessun posto che mi avrebbe potuta accogliere e proteggere. Non c’era più nulla. Non esistevo più neanche io. Buio e silenzio e il vuoto si erano impadroniti di me.
Ricordai la rassegnata docilità con cui avevo accettato che mi togliessero mio figlio dalle braccia e mille coltelli martoriarono la mia carne. Cominciai a camminare. Uscii dalla stanza piena di colori e giocattoli che non sarebbero più serviti a farlo sorridere. Scesi le scale e aprii la porta e camminai per ore, fino a che, il suono delle onde, che s’infrangevano sulla scogliera non mi chiamò verso di loro. Era come sentire il canto delle sirene. Quel suono mi ammaliava e mi invitava a raggiungerle. I miei passi, che si muovevano lenti, ma senza esitazione, mi portarono sull’orlo di quel precipizio e, dopo, sentii il vento sul viso scompigliarmi i capelli. Il mio corpo era come non esistesse più. Leggera, indicibilmente leggera, stavo volando libera lontano da quel dolore immenso, fino a che, le mie lacrime non si ricongiunsero a quel mare che mi aveva chiamata a se.
Poi fu tutto confuso fino a quel momento. La verità ritrovata mi spaccò il petto e volli piangere, ma i miei occhi erano asciutti ed immobili nel loro dolore.
Il racconto di Carlisle proseguì per gradi, nella maniera più delicata possibile. Con garbo e, un po’ per volta, mi spigò chi era e cosa ero diventata per mano sua. Carlisle diceva che avrei dimenticato quello che di umano mi era accaduto, sarebbe rimasta una cicatrice, una sorta di cognizione.
Mi chiedeva di perdonarlo. In tutto questo, un’altra presenza non mi aveva mai lasciata. Edward mi teneva compagnia. Non avevo nulla da perdonare a Carlisle. Del resto ero già morta e lui mi aveva dato l’occasione di poter dare una nuova direzione a quell’amore che, nonostante tutto, era rimasto in me. Con loro non sarebbe andato perduto.
Non mi importava cosa ero diventata. Non mi pesava. Non era limitante. Quello che invece non riusciva a trovarsi, era Edward che, con il tempo, era diventato mio figlio. Le sue fragilità, i suoi tormenti, erano per me penosi da osservare. Mi affezionai a lui e, cominciai ad amarlo, a sentirlo come quel figlio che non avevo più. Quante volte lo avevo raggiunto nella sua stanza, tra quei silenzi in cui si rinchiudeva. Quante volte, passandogli una mano tra i capelli, avevo sofferto insieme a lui. Edward era tante cose, ma prima di tutto, era mio figlio. Sentivo che mi amava e che, per lui, ero importante. Lo sentivo nella musica che suonava per me. Quando tra i miei pensieri leggeva la tristezza e veniva ad abbracciarmi. Quando arrivarono gli altri ragazzi, l’amore che provai fu immediato e immenso. Per tutti, senza distinzione.
Avevo trovato una famiglia. Carlisle e, tutti l’oro, mi facevano sentire amata, colmando quel vuoto che, in me, era rimasto. Per me fu naturale ricambiare quell’amore in maniera totale e assoluta.
Non avevo mai rimproverato nulla a Carlisle. Non sarebbe stato possibile anche volendolo fare. Lui era perfetto così come era.
Altruista fino all’inverosimile cercava di rendersi utile e aveva a cuore il benessere di tutti noi, ma la cosa che lo rendeva felice e lo gratificava era la sua professione che metteva al servizio degli altri senza nessuna difficoltà.
Non avevo mai chiesto nulla a Carlisle, perché non ne avevo mai avuto la necessità. Lui mi comprendeva e mi colmava di attenzioni ogni momento.
Però oggi, quando mio figlio, il mio adorato Edward, aveva preso la decisione di lasciarci e volontariamente infliggersi quell’ulteriore sofferenza, non ero riuscita a capirlo.
Non aveva fatto nulla per trattenerlo. Come avrebbe fatto Edward ad affrontare il dolore che lo aveva imprigionato da solo? Aveva allontanato Bella, la sola ragione della sua vita e, adesso, noi la sua famiglia e lui che era suo padre, non avevamo fatto nulla, lui non aveva protestato, non lo aveva dissuaso.
Il ricordo di un tempo in cui la disperazione si era impadronita di me tornò. Avevo sperato che Carlisle mi tenesse al riparo da quella possibilità e, invece, mi aveva cinta alla vita come solitamente faceva e parlando con la sua voce pacata e profonda, mi aveva esortata a rispettare il volere di nostro figlio.
Sapevo che, se lo lasciavo andare, forse non lo avrei rivisto mai più. E quando la sua macchina diventò un punto indistinto persino per la mia vista, sentii che il mio cuore mi aveva abbandonata per la seconda volta. Avevo sperato in un suo ritorno, ma i giorni erano passati e, con loro, le settimane. Dopo mesi che lo avevano visto annientato, piegato su se stesso, dove non era più lui, non esisteva più. Avevo conosciuto Edward rassegnato, lo avevo visto rinascere tra le dita di quell’amore che aveva fatto vibrare il suo cuore silenzioso e, adesso, quello stesso amore lo aveva annullato e me lo aveva tolto.
Ma non avrei mai pensato di poterlo perdere, che potesse non fare più parte di questo mondo. Se avessi potuto farlo avrei implorato. Avrei fatto di tutto per non lasciarlo. Ma quell’incubo del mio passato stava tornando nel mio presente. Il mio Edward, aveva deciso di morire per seguire la sua Bella. Sapevo cosa provava. Sapevo che quello era un dolore che uccideva. Lo ricordavo.
Quando sentii i passi di Carlisle raggiungermi ero immobile davanti alla finestra non so da quanto.
Le sue braccia cinsero la mia vita, le sue labbra sui miei capelli. - Rivoglio mio figlio Carlisle. Non posso rinunciare a lui. Riportalo a casa.- La sua stretta aumentò.
-Alice sta andando da lui con Bella. Dobbiamo avere fiducia e sperare che…- Non riuscii a voltarmi e guardarlo negli occhi.
-Perché non lo hai fermato?- Domandai affranta.
- Perché non mi avrebbe dato ascolto e perché ho già interferito abbastanza nella sua vita. E so che di questo me ne ha sempre fatto una colpa.- Disse addolorato.
- Ma...se lo dovessimo perdere?- Mi voltò verso di lui.
- E’ una probabilità che so non accetterò mai, che sarà il mio dolore più grande, ma spero. Spero con tutte le mie forze e, come non ho mai fatto, che se qualcosa di buono è mai venuta da me questo possa essere d’aiuto per salvare lui, che possa riportarlo a casa dalla sua famiglia. Dobbiamo credere in questo.- Mi strinse le mani e nei suoi occhi lessi l’angoscia di poter perdere nostro figlio. -Non accetterei di perderlo, la mia vita non sarebbe più la stessa senza di lui, senza uno dei miei figli. Edward è quello che ho sempre sentito più vicino, con il quale mi sono sempre identificato. Non potrei sopportare di perderlo.- Disse in un soffio.
Lo abbracciai forte come non avevo mai fatto e lo tenni stretto. Sperando insieme a lui e volendo credere con tutta me stessa che la forza e la bontà d’entrambi potessero contare qualcosa.





Non abbiamo notizie su cosa accade tra i membri della famiglia di Edward quando lui decide di andare via. Se non quando all'aeroporto Esme lo rimprovera di non farle più provare un dolore simile o quando Carlisle decide di assecondare la richiesta di Bella perché Edward era deciso a morire senza di lei e lui non intende rinunciare a suo figlio, ma niente sui momenti d'attesa di notizie dall'Italia. Ho cercato di ricreare uno di quei momenti. Spero di esserci riuscita e che vi piaccia. Ciao . Glance.
  
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