Il ragazzo del
Lago
Non può
esserci che una e una sola dedica
per questo
racconto:
A Paolo,
il vero ragazzo del Lago
Questa
è la dimostrazione che ti avevo promesso
del bene
che ti voglio
Spero
non ti imbarazzi troppo! :-P
Grazie
di tutto, grande capo.
Per i
momenti passati insieme
e per
quelli che verranno.
Giglio
Tigrato
Il
treno fischiò il proprio arrivo
Correre.
Correre
era tutto ciò che doveva fare per non perderlo.
Le zeppe
di gomma non facevano rumore sul pavimento lucido della stazione.
Tacchi
no.
Non li
portava.
Non era
mai riuscita ad imparare a camminarci.
Berlino,
intorno, viveva.
Veloce.
Una
lacrima ribelle scivolò a tradimento sulla guancia chiara.
Maledetta,
sciocca lacrima.
La
asciugò stizzita, con fastidio, senza fermarsi.
Non doveva
piangere, lei.
Doveva
solo andare a casa, preparare da mangiare e studiare il copione.
Doveva
solo vivere, veloce anche lei, come quella città, sua per scelta.
Che fosse
una scelta giusta, poi, non l’aveva mai detto nessuno.
Non c’era
silenzio, lì, e lei lo voleva.
Ci era
cresciuta, lei, nel silenzio.
Quello
infrangibile e sacro dei laghi del grande Nord.
Quello
che le aveva insegnato a sentire.
Che le
aveva insegnato a sognare.
Il
bianco era finito.
Sospirando,
gettò via quel che rimaneva del pallido gessetto e ne raccolse un altro, di
poco più scuro.
Ora avrebbe
dovuto fare i riflessi con il verde chiaro.
O con
il giallo.
Però no.
I
riflessi non erano così... li aveva osservati per troppi anni per non
conoscerli come le proprie tasche.
Fischiettando,
recuperò il gessetto bianco e lo sgretolò sul marmo grigio e rosato.
La polvere
avrebbe dovuto essere sufficiente.
Le note
uscivano da sole dalle sue labbra, specchi invisibili di un ricordo dimenticato
da tempo.
Di una
canzone priva di titolo e parole.
Ogni tanto,
una moneta cadeva nel contenitore dei suoi colori, tintinnando allegramente.
Ci avrebbe
comprato del bianco.
Ne avrebbe
avuto bisogno, il giorno dopo.
Berlino,
intorno, viveva.
Veloce.
Troppo
per lui che anelava alla pace del suo bel lago nel sud dell’Europa.
Come ci
fosse finito, lui, in quella città bella e caotica, nemmeno se lo ricordava
davvero.
C’era
tanta gente in quel pezzo di mondo ricoperto di vetro.
Per forza.
Una stazione
vuota è inutile.
Chissà
quante persone con una storia simile alla sua le erano già passate accanto in
quei pochi minuti.
Una storia
allegra, tutto sommato.
Invidiabile.
Felice?
No,
non ne era tanto sicura.
Che poi,
alla fine, non aveva proprio nessun motivo per lamentarsi.
Era tutta
la vita che glielo dicevano.
Bella famiglia:
ti vogliono bene.
Buoni amici,
sempre vicini, anche da lontano.
Né bella
né brutta.
Discreta.
Guardabile.
Ambiziosa,
magari anche troppo.
No,
non stava male.
I momenti
bui, però, capitano a tutti.
E allora
non importa chi si è e si vorrebbe solo tornare bambini, quando l’abbraccio
della mamma e una cioccolata calda guarivano ogni cosa.
Berlino,
intorno, viveva.
Veloce.
Veloce
e anche un po’crudele.
E lei
non poteva fermarla né farla girare a rovescio.
Il passato
è passato, l’unico luogo dove si può fuggire è il futuro.
Poi lo
vide.
Giacca
scura, capelli neri, seduto in un angolo, proteso in avanti, le mani di mille
colori.
Davanti
a lui, un lago arrabbiato pareva urlare, forando il marmo freddo del pavimento.
Lui era
sempre lì, sempre nello stesso punto, sempre con il suo lago diverso, ogni
giorno diverso, come uno vero.
I suoi
occhi avevano catturato quell’immagine infinite volte, eppure lei non l’aveva
mai notato.
Forse perché,
egoisticamente, non ne aveva mai avuto bisogno.
Egoisticamente.
In una
parola, la storia della sua vita.
Berlino,
intorno, viveva.
Veloce.
Una goccia
bagnò l’acqua agitata del lago, sbiadendo il rosso riflesso del tramonto.
Una goccia
vera, fatta di vita e sentimento.
Una lacrima.
Sembravano
un po’dei laghi anche loro, gli occhi che l’avevano lasciata cadere.
Laghi di
cioccolata, gli venne da pensare.
Non da
tedesca.
Occhi del
suo paese, forse.
“Scusami...”
Mormorò, con un accento che era tutto meno che berlinese. “Ho rovinato il tuo
disegno...”
Lui si
strinse nelle spalle, inclinando appena il capo di lato.
“No,
no, stai tranquilla. Ora c’è l’acqua. È più vero.”
“Potrei
piangerne uno intero di lago. Proprio qui, in questo momento.” Replicò lei,
accovacciandosi e sfiorando il graffito con le dita sottili, ma un po’rovinate.
Non
era mai riuscita a smettere di rosicchiarle.
“Il
Lago Centrale di Berlino. Al secondo piano della stazione. Sarebbe simpatico.”
“Sarebbe
patetico.”
“Sì...”
Rispose lui, alzando gli occhi dal disegno. “Sì, lo sarebbe, un po’.” Affermò,
fermando lo sguardo in quello di lei.
Sorriso
triste.
Sorriso
allegro.
Berlino,
intorno, viveva.
Veloce.
Non
aveva tempo per nessuno, Berlino.
Non
certo per due sguardi incatenati sopra a un lago di gesso.
“Dov’è?”
“Ti
sporcherai il cappotto.” La avvisò lui, vedendola sedersi, appoggiata ad un
pilastro.
Lei si
strinse nelle spalle.
Non
aveva importanza.
Era solo
un cappotto.
“Dimmi
dov’è.” Ordinò, per poi mitigare il tono. “Assomiglia a casa mia.”
Nostalgia.
“È al
mio paese, giù al sud. Sud Europa, Nord Italia. Punti di vista. Hai un lago
anche tu?”
Lei
annuì.
“Si
chiama Inari. Sta su, al Nord, dove è sempre giorno o sempre notte. Non ci sono
vie di mezzo, in cima al mondo. Solo tante zanzare. Vendiamo souvenir con le
zanzare.”
“Non
comprerei una tazza con disegnata una zanzara.”
“Nemmeno
io. La gente lo fa.”
Lui
sorrise, inseguendo un pensiero solo suo.
Non
sembrava scandinava... non lo sembrava per niente.
“La
gente è pazza.”
Berlino,
intorno, viveva.
Veloce.
“Com’è
che una ragazza finlandese con il cappotto rosso finisce a parlare con un mezzo
pittore italiano sul pavimento di una stazione tedesca?”
“In
Finlandia un’attrice non ha futuro. Qui è diverso: Berlino è viva.”
“E
corre.”
“Troppo,
a dire il vero.”
“Non
puoi fermarti se sei stanco.”
“Sì
che puoi farlo. Solo che nessuno se ne accorgerebbe.”
“E poi
non c’è il lago... sarebbero tutti più calmi, se ci fosse il lago.”
“Forse
avrei avuto più pazienza, vicino al lago. Avrei sopportato. Non è giusto
lasciare chi ti ama.”
“Non è
giusto nemmeno sopportare.”
Lei
scosse il capo.
“Sono
sola, ora.”
“Hai
il lago.”
“È lontano,
lui.”
“No.”
Ribatté il pittore, prendendole la mano e portandola a sfiorare il disegno. “È qui,
lui.”
Berlino,
intorno, viveva.
Veloce.
E così
quella era la vita, quella la cura per il suo brutto mal d’amore.
Il sorriso
di un ragazzo sconosciuto seduto sulla sponda di un lago inesistente.
Sembrava
una fiaba.
Una di
quelle in cui non era più abituata a credere.
La
principessa con il cappotto rosso che scappa da un principe che le va stretto,
andando a cadere sopra ad un ranocchio che le spiega che proprio nulla è
finito.
Anzi...
tutto deve ancora iniziare.
Niente
corona, solo tanti capelli spettinati.
E la
scarpetta, poi... quella non era di cristallo.
Pazienza,
avrebbe perso il cellulare.
Dopotutto,
era la sua fiaba e poteva fare quello che voleva.
Berlino,
intorno, viveva.
Veloce.
Ma a
lei non importava più.
Con un
sorriso tutto nuovo, raccolse un carboncino e lo porse al giovane, che firmò la
sua opera con due sole lettere.
P.G.
Si rese
conto solo in quel momento di non avere idea di che cosa quelle iniziali
significassero.
Non che
contasse molto, comunque: nemmeno lui le aveva domandato il nome.
“Me lo
insegni?”
Il
ragazzo le rivolse uno sguardo confuso.
“Cosa?”
“A
fare i laghi.”
“Oh...e
tu che mi dai in cambio?”
Lei si
strinse nelle spalle.
“Una
pizza?”
Gli
occhi d’ebano si assottigliarono, fingendo di soppesare l’offerta.
“Italiana?”
“Ovviamente
sì.”
“Ci
sto.” Esclamò lui, sorridendo e porgendole un gessetto azzurro.
“Che
lago ti senti oggi?”
“Un
lago all’alba.” Replicò lei, quasi senza pensare. “Sento che è l’alba.”
“L’alba?
L’alba di che cosa?”
“Di
qualcosa di nuovo.”
Berlino,
intorno, viveva.
Veloce.
C’è
stata una sera dell’anno scorso che mi sono perso
nell’osservare
il lago grosso, spumeggiante,
scuro
come scure erano le montagne che,
accompagnate
da un cielo giallognolo,
annunciavano
un temporale coi fiocchi.
-P.G.-
The End