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Autore: Life Stories    29/03/2010    0 recensioni
Perchè presentare un racconto? Per attirare lettori. Perchè i lettori sono attirati da una presentazione? Perchè li affascina. Ed è più corto che vedere ogni cosa per capire se ti piaccia o meno. Se non si fosse capito, questa è la tecnica della "finta introduzione alternativa" che al giorno d'oggi attira un sacco di gente che crede veramente che un'introduzione simile non abbia poi lo stesso fine ultimo di quelle normali: farti leggere ciò che introduce.
Genere: Generale, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Si. Si, lo saluto. Come non salutarlo. Mi saluta. Lo saluto. È così che si fa, lo faccio tutti i giorni. Non l’ho fatto solo una volta. Beh, certo, come potevo farlo? Stavo troppo male per… niente emozioni ragazzo, niente emozioni. Stai calmo. È passato. Passato il test portiere. Il test. Capirai che test. Che test può essere, un portiere. Passano la vita a veder passare gente che passa di lì, passa attraverso lui, solo per raggiungere altra gente. E le capirà. Sicuro. Capirà tutte le loro sensazioni. Le mie sensazioni. Ma non le andrà a dire. Le terrà per un po’ per se, se interessanti più a lungo. Poi le farà passare. Altre ne arriveranno. Una più bella e più brutta dell’altra. Ma comunque, non tradirà nulla delle emozioni delle persone che lo attraversano. Sarebbe diverso se anche lui fosse in gioco. No, il portiere non era un test per il turbamento. No. Decisamente no. Forse dovrei continuare a pensare. Vedi, pensando al passato del problema, senza farlo proseguire, aveva evitato il problema per un bel po’. Era già arrivato alla fine del viale. Senza pensare a non sembrare ciò che era, e senza tuttavia esserlo. Ma ora il problema si ripresentava. Ora non era più una persona che pensa a un problema, ma una persona che finge di non averlo. L’entità dl problema ha un valore relativo, di norma, di norma conta l’entità che ha il problema. Ma in quel caso forse c’era un’eccezione. D’altronde, un’altra entità non avrebbe avuto un problema di quell’entità, quindi non lo starebbe neanche affrontando. Funziona. Pensare troppo per una volta mi serve. Disinvoltura ragazzo, disinvoltura. È domenica. C’è poca gente in giro, la domenica. Non si lavora la domenica. Io però sto facendo la seconda parte di un lavoro. Beh, no, non è un lavoro. È un fatto accaduto. Solo che è un fatto che ti dà un nome. Un nome che è anche una professione. Quindi, lavoro. Dovrei scusarmi col signore. Ma chissene frega. Non mi ha aiutato, ho fatto da solo. Non è che sia andata molto bene in realtà. No, è andata decisamente male. Finale tragico. Nei film ci sono sempre tante lacrime. Io però sono dovuto scappare, non ho potuto guardarle. Chissà se da morti puoi riguardarti le cose della vita, dalle angolazioni che vuoi. Chissà che il paradiso non sia questo. Essere dei della propria vita. Ma poi quando hai finito che fai? No. Non fila. Peccato, era una bella idea. Forse sarebbe meglio prendere l’autobus. Ma domenica ne passano pochi. Forse non sarebbe meglio prendere l’autobus. Tanto è vicino. Correndo era molto più lontana, casa. Invece camminando così, dopo, ancora sicuri di nulla, è tutto più veloce. Le inflessioni temporali non sono dovute solamente al divertimento, solo che tutte le altre sono così variabili che la gente le omette. Quando le cose si diversificano, per quanto possano essere tante, si tende a ometterle tutte e a far risaltare solo la fetta omogenea più grande. In un grafico a torta, anche se la fetta più grande è un quarto del tutto, ti viene un naturale compiacimento per la grandezza uniforme di quel pezzo. Mentre non ti viene naturale compiacerti del fatto che ci siano tanti piccoli cosi, messi lì, ognuno con qualcosa di diverso, ognuno particolare. No, i tanti piccoli cosi li ometti, così, perché non ti vanno a genio. E nella mente ti rimane impressa solo la fettona. Destra o sinistra? Centro direi, girerò più tardi, le scelte più tardi, ora non mi va di scegliere. Scegliere. Che stupida scelta lessicale. È ovvio che non c’è proprio un cazzo da scegliere. La strada è quella, dove altro vuoi andare. Si, certo, potrei andare ovunque. Ma io ho una meta ben precisa. E ovunque non porta ad una meta ben precisa. Ovunque porta solo ovunque. Certo, è ovvio, anche alla tua meta. Ma ci passa soltanto sopra. La scelta è perciò in questo caso obbligata. Ovvia. Svolterò a destra. Ma lo farò più tardi. Ho ancora qualche centinaio di metri in cui fingere che ci sia una scelta, e che sto in bilico solo perché mi piace starci. E non per paura di scegliere. Quella non è… sembra. Da lontano. Vediamo da vicino. È lei, è sicuramente lei. Stessi vestiti, stessi capelli, trucco, ipod, faccia, espressione, occhi, musica, sogni, speranze, futuro. Ma non è lei. O forse si. È solo una lei messa in un altro corpo. O più probabilmente, nessuna di loro due è se stessa. Sono entrambe semplicemente un essere che gli è stato messo dentro, e che cerca di ricrearsi il suo habitat naturale. Ecco, la definizione giusta. Non habitat. Terreno. Terreno fertile, fertilissimo. In cui piantano ciò che vogliono. Tutti noi siamo terreno fertile. Solo che alcuni hanno i controlli contro gli OUM. Organismi Umani Modificati. Loro no. E così, privi di difese, si lasciano piantare. E plasmare l’habitat. E accogliervi quello che vogliono. Non loro, la TV. O la pubblicità. E compagnie varie. Notate come queste cose hanno un nome femminile? Chissà se ha dei significati profondi, maschilisti, o è l’ennesimo velato erotismo. Probabilmente è una cosa completamente casuale. Nulla accade per caso? Stronzate. Tutto accade per caso, anche per il semplice fatto che il caso è tutto ciò che accade. Il mondo è dettato dal caso, o dal suo anagramma, caos, che se vogliamo è anche un sinonimo. Ora sto svoltando a destra. Non è casuale. No, non lo è. Ma io stesso sono un caso. La mia nascita è completamente casuale. Il mio cervello è completamente casuale. E quello che io sto facendo è determinato dal mio cervello. Quindi è determinato dal caso. Sono quasi alla meta. In questo momento da copione dovrei stare immensamente male o immensamente bene. Ho fatto ciò che desideravo, ma l’ho fatto in modo orribile. Tanto da distruggere ciò che desideravo. Il fine giustifica i mezzi? O il fine non giustifica i mezzi? Nella nostra società accade in realtà più spesso che i mezzi giustifichino il fine. Che i mezzi giustifichino una fine. Che i mezzi giustifichino la fine. La gente è affascinata dai mezzi, e per quanto possa essere cosciente del fine, spesso si chiude pur di vedere quei mezzi. Nel mio caso, il mezzo non era molto affascinante. Nemmeno il fine, a dire il vero. Nemmeno il motivo, a dire il vero. Chissà, uno psicologo aperto forse il motivo me lo potrebbe concedere. Uno immensamente aperto, anche il fine. Il mezzo, invece, mi sa che dovrà rassegnarsi. Manca poco, pochissimo. Ora che ci penso, la polizia. Ci sarà sicuramente la polizia. Cosa potrei dire per poter vedere. Ma certo, ma è ovvio. Con una frase del genere, vedrei di sicuro. Certe idee colpiscono per la loro ovvia genialità così banale. Si, farò proprio così. Eccomi arrivato. “Scusi, signor agente, sono l’assassino, potrei vedere un’ultima volta il corpo di Francesca?”
  
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