Il taxi correva veloce per quanto
potesse essergli
possibile, sotto la triste atmosfera liberata dalla pioggia.
Questa cadeva componendo un assolo, liberante una soave
tristezza.
La città grigia veniva ricoperta da un velo liquido, il cui
profumo era lontano da quello dei prati bagnati.
Dava l’idea di una cantante che intonava la sua canzone
accompagnandosi con la sola malinconia nel ricordare i giorni andati.
Era ben conscia di quanto quelle stesse parole sarebbero
potute risuonare meglio se sorrette dalle note di una chitarra, ma, in
quel
posto, non l’aveva portata con sé.
Così la pioggia continuava a cadere con la veemenza decisa
dal vento, componendo il suo assolo, priva
dell’accompagnamento del fresco rumore
della brezza campestre, del coro delle rondini che echeggiava dentro al
nido,
del rumore meccanico del tagliaerba lontano, delle percussioni
frondose, delle
voci dei pettegolezzi quotidiani.
La voce reale di una cantante, che si contrapponeva
all’orchestra della mia memoria.
Un concerto che ascoltavo dall’alto di una terrazza, quando
desideravo stendermi tra gli shanghai verdi della collina.
Mi mancava casa.
Tra i ricordi seguivo il volo degli ariae
volucres, immaginando che disegnassero,on quel potere tanto
invidiato dal Vinci, una chiave di violino.
La memoria mi aveva portato in quella terrazza, affianco
all’alto cavalletto incatenato con boccioli di violette
bianche.
Da lì osservavo l’agire del tempo sgretolare i
mattoni crudi
della vecchia stalla e la conquista della natura, che emergeva tra le
tegole
consumate, riappropriandosi di quella mattonella di mondo che
l’uomo, anni
prima, le aveva rubato.
Oltre il sovrapporsi dei petali arancioni e l’intrecciarsi
delle foglie prato, intente a nascondere gli ultimi mandarini, si
estendeva un
tappeto alternativamente inclinato di tegole rosse.
Avrei potuto osservare il mondo da quello stesso punto per
ore e ore, incapace di non notare qualcosa di diverso.
Un lenzuolo di foglie di edera copriva la tettoia sottostante,
facendo trasparire solo qualche chiazza di grigio.
Più la osservavo, più notavo come le superfici
delle foglie
si immergevano nell’oscurità fangosa, nel buio
fino a diventare un tutt’uno.
Una massa squadrata che diventava sempre più indefinita.
Pian piano mi accorsi del chiarore della parti svelate dei
miei piedi, che si contrapponevano a quella forma scura, che aveva
sostituito
il verde bucolico.
Il tappetino di un taxi, calpestato dalla diversità del
mondo durante una serata piovosa.