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Autore: piantina    06/04/2010    3 recensioni
Vincitrice del concorso "Song-fic" indetto dal Kizuna SasuNaru. Certo, non mi sarei mai aspettata di rivederlo, dopo tanto tempo. E di rivederlo così: è apparso sull’angolo, materializzato dal nulla, come se un soffio di vento l’avesse portato dritto davanti a me, eliminando ogni altro passante, scegliendo proprio me, fra tutti, come se un grosso dito dal cielo mi avesse indicata: tu. [Minato/Kushina]
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Yondaime
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Oh, let's go back to the start. -the scientist-



Sento ancora le tue parole che mi girano per la testa, questa notte.
Perché io fabbrico notti: oscure, chiare, lussureggianti e fantastiche, normali e strane, insonni, in bianco, incantate, inquiete, notti che sanno di zucchero filato e di mirtilli, notti che mi fanno da letti, e mi ci stendo dentro, languida.
Mi ci sistemo per bene, sbadiglio, allargo le braccia.
Allora vedo quello che non ho visto durante il giorno, ne colgo i particolari, le minime sfumature.
Di giorno ogni cosa, anche la più inosservata, ha un colore, e quindi ogni colore si stempera in colore, perde la grinta, non ha peculiarità.
Il mondo è un’aggressione di colori. Un disordine sconcertante, non lascia modo di scegliere, è tutto un prendere e lasciare.
Se non sei cieco, devi vedere tutto quello che la mattina e il mezzogiorno e poi il pomeriggio ti offrono, non puoi tralasciare qualcosa, per esempio: questa sedia la vedo, il tavolo no perché mi sta antipatico.
Così, vedere tutto è come non vedere nulla.
Non c’è gusto, non c’è riflessione.
Ma di notte è un’altra cosa; un colore non è un colore, al massimo luccica, diventa oro, argento, acceca, abbaglia; o si confonde, ombra dell’ombra, e di colpo si scioglie, come cioccolato sulla lingua; quindi è unico, ha il suo posto, la sua storia, la sua importanza; diventa un “Signor Colore”, non si nasconde nella massa, e lo si può guardare, senza perderlo di vista, guardare a lungo.
Perfino i rumori, di notte, sono così: ogni piccolo, infinitesimale suono acquista uno spazio, una dimensione sua, inedita rispetto al mattino.
Perciò, posso ascoltare, con chiarezza, senza essere distratta, o interrotta, cose che accadono facilmente durante il giorno, perché, come i colori si accavallano, l’uno sull’altro, così i suoni si intersecano, si ingarbugliano, costruiscono un grande suono che li contiene tutti; ma non è semplicemente una somma dei vari rumori, diviene un suono particolare, il “Grande Suono”.
Adesso questo suono è formato solamente, e distintamente, dalle parole di Minato, ben chiare, che riempiono la stanza, rimbalzano sul soffitto, ritornano a me.
Parole avulse dal loro contesto, distinte, come vecchie signore impeccabili, come le ha pronunciate lui ieri sera.
Certo, non mi sarei aspettata di rivederlo, dopo tanto tempo.


Come up to meet you, tell you I'm sorry
You don't know how lovely you are.
I had to find you, tell you I need you,
Tell you I set you apart.

Sono venuto per vederti e dirti che mi dispiace
Non sai quanto sei adorabile
dovevo trovarti, dirti che ho bisogno di te,
dirti che che ti ho tenuta troppo lontana



E di rivederlo così: è apparso sull’angolo, materializzato dal nulla, come se un soffio di vento l’avesse portato dritto davanti a me, eliminando ogni altro passante, scegliendo proprio me, fra tutti, come se un grosso dito dal cielo mi avesse indicata: tu.
Avrei voluto sprofondare in un buco che si fosse aperto nel marciapiede in quel preciso momento. Se fosse stato pieno di serpenti non me ne sarei neppure accorta.
Non avrei voluto rivederlo mai.
E perché diavolo giusto in quel momento, fra tanti momenti e tanti giorni, era capitato che fossi uscita di casa e fossi passata per quel tratto preciso di strada, e nello stesso momento dello stesso giorno per la stessa strada fosse passato lui?
Bastava una manciata di secondi in più o in meno ed era fatta, il problema era risolto.
Anzi, non ci sarebbe stato problema, perché non ci saremmo incontrati proprio.
Bastava che non avessi avuto tanta voglia di andare a zonzo verso sera, o che qualcuno un’ora prima fosse venuto a trovarmi, o che fossi stata un’altra persona, o che fosse stato lui un’altra persona.
Insomma, bastava un qualunque particolare diverso, e l’incontro non sarebbe avvenuto.
Ma lui c’era, era di fronte a me, sul marciapiede identico a come era sempre stato.
Non potevo far finta di nulla e semplicemente ignorarlo, spingerlo da parte e proseguire. Si era fermato, e, senza accorgermene, mi ero fermata anch’io.
Non l’avevo fatto apposta, ma era come se il movimento delle mie gambe si fosse d’improvviso affievolito, per poi spegnersi del tutto, con decisione autonoma, completamente al di fuori della mia volontà.
Spesso le mie gambe decidono per me.
Non aspettano nessun comando, o, se lo ricevono, trasgrediscono allegramente.
Perché non proseguite con nonchalance, e lasciate lui indietro a dormire nel passato?
Sentivo il vento nei capelli e un malessere allo stomaco.
Ci guardavamo.
Eravamo come impigliati l’uno nell’altra.
Chissà la mia faccia che espressione aveva. Avrei desiderato sdoppiarmi per poterla osservare dall’esterno.
Esprimeva sorpresa o disappunto o pena o che? O tutto ciò mischiato insieme?
Chissà che effetto ne veniva fuori.
So che in genere, nella vita, mi domino abbastanza bene, sono sicura di me.
Ma so anche che la mia faccia, purtroppo, non mente.
Mentre mi arrovellavo sulla mia faccia, la sua rimaneva immobile.
Non batteva ciglio, non aveva nemmeno un capello fuori posto.
Ammirabile, nel suo controllo, e perfetto.
Non sosteneva il mio sguardo, o perlomeno lo desumo dal fatto che spostò gli occhi verso un punto indeterminato alle mie spalle, trattenendo il respiro, proprio come me.
I secondi passavano.
Non sapevamo se ci saremmo detti qualcosa di affabile o una parolaccia. A volte è difficile scegliere.
Per cui stavamo in guardia.
Passò un carro facendo rumore, e quando l’eco si spense, il silenzio parve ancora più pesante.
Un silenzio del genere mi fa paura, perché non so cosa aspettarmi: può essere seguito da uno scoppio di risa o da un tintinnio di bicchieri, ma qualsiasi rumore suona minaccioso, dopo il silenzio.

Tell me your secrets and ask me your questions,
Oh lets go back to the start.
Running in circles, Comin' up Tails
Heads on a science apart.


Raccontami i tuoi segreti e fammi le domande che vuoi,
Oh ricominciamo dall'inizio
Abbiamo girato a vuoto mordendoci la coda
Due teste troppo diverse.



Fu un attimo.
Le sue labbra si socchiusero. Balenò un sorriso.
Tutto d’un tratto lo sentii sfiorarmi il braccio.
"Ciao."
A quel punto sorrisi.
Che dovevo fare?
Non riesco a dare calci a chi mi sorride.
Tre o quattro bambini sgusciarono via sull’angolo, inseguendosi, quasi venendo a sbattere in noi due fermi.
Passò poi una donna anziana che mi spinse per scostarmi dal passaggio, con l’indelicatezza di chi si ritiene così vecchio da essere al di sopra delle buone maniere, io stavo per dire "guardi, signora che la vecchiaia non l’ha certo ristretta, lei è ben ingombrante e mi ha appena dato uno spintone da atterrare un bue.", ma mi trattenni dal parlare: era di sicuro una di quelle che gongolano nel dare spintoni, me ne avrebbe affibbiato un altro per tutta risposta, magari due.
Parecchia altra gente passò, anche il tramonto se ne andò.
Risposi: "Ciao".
Lui si appoggiò a una colonna.
Il suo viso era ora una grande macchia tonda, proprio come un fiore di magnolia.
Era l’unica cosa chiara nella strada.
Ne potevo sentire il profumo.
Magnolie e rose, e un che di aspro, forse acacia. Strano miscuglio.
O era tutto solo nella mia mente? Il profumo di un maggio lontano, uno di quei maggi che a me piacevano tanto e avrei voluto durassero per sempre.
Le braccia molli, il corpo molle, senza opporre resistenza lasciai che mi abbracciasse.
Sentii i suoi capelli, biondi e lucidi, sul mio collo, e mi fecero il solletico.
Barcollai. Il suo era un peso morbido, non sentivo le ossa pungenti o i nervi, solo piume che mi stringevano.
Poi mi chiese: "Vieni?" ed io ero sempre più che mai stretta da una trappola, perché lui era una parte di me che io non volevo, da cancellare, però non si cancellano le proprie mani, la propria bocca, ci si convive, e questo era lui, che io lo volessi o no, era la mia bocca, era le mie mani. Non potevo fuggire.

Nobody said it was easy,
It's such a shame for us to part.
Nobody said it was easy,
No one ever said it would be this hard.


Nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile
è stata una vergogna doverci dividere.
Nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile
ma nessuno ha neanche detto che sarebbe dovuto essere così difficile.


In realtà non stavo andando da nessuna parte a quell’ora, avevo solamente voluto fare un giro, quindi potevo pure andare da nessuna parte con lui, anche se perdurava il malessere allo stomaco, e avevo il vago sospetto che fosse stato lui, la vista di lui, a procurarmelo.
Non voleva scomparire, stava là, uno spasimo a metà fra la bocca dello stomaco e la pancia; li confondo sempre, pancia e stomaco, magari quello era un mal di pancia e non lo sapevo, pensavo ingenuamente si trattasse di un semplice mal di stomaco.
Comunque fosse, c’era, e mi dava fastidio, una nausea, forse stavo per vomitare, forse era la tensione del mio cervello, che si era propagata ai muscoli dello stomaco, o della pancia, aggrovigliandoli tutti.
Che differenza fa, un dolore allo stomaco o uno alla pancia, quando poi alla fine il risultato è lo stesso: un’instabilità della parte centrale del corpo che pare tradirti secondo dopo secondo?
D’altra parte non facevo caso alle quisquilie fisiche. Mi imponevo di pensare ad altro.
Anzi, di non pensare.
Se avessi pensato, avrei dato uno strattone e avrei detto, gelida:"Ho un impegno"e sarei corsa via.
Invece ormai camminavamo insieme. Ci veniva naturale adattarci l’una al passo dell’altra.
Lui continuava a tenermi a braccetto, fissava assorto, ben attento, le fenditure fra una lastra e l’altra, in terra.
Come se da quelle dipendesse la sorte del mondo.
Avrebbe potuto essere un indovino in libera uscita.
Pareva che, scrutando appassionatamente le lastre del marciapiede, avrebbe potuto cavarne chissà che notizie interessanti.
Ma bisbigliò solo: " Come stai?" e io non capii, mi deludeva, tutto quel tempo per dire come stai, feci: "Eh?"
La sua voce uscì un po’ roca: "Come stai, Kushina?" e “Kushina” lo disse come se stesse mordendo l’aria, e aspirando le nuvolette.
Certo, non stavo male. Oh no. Potevo resistere. Così risposi: "Bene".
Dobbiamo avere camminato molto, ieri sera, lui e io, senza andare da nessuna parte, senza riuscire a scambiarci nemmeno una battuta.
Lui evidentemente cercava di riordinare le idee come me, che di idee non ne avevo, e annaspavo fra pensieri abbozzati e i crampi allo stomaco, o alla pancia.
Improvvisamente ci trovammo nella grande piazza della mia città, con trenta lampioni in faccia.
La nostra andatura rallentò, lui sospirò impercettibilmente: "Quanto tempo è passato, Kushina?"
Le mie spalle si irrigidirono, era come se un vento freddo ci accogliesse, mentre entravamo nella mia casa, anni prima, e gli anni si erano sciolti come cioccolatini alla crema.
Quella fu l’ultima volta in cui lo vidi.
Era stato richiamato a Konoha per una nuova missione, e da ninja non si era potuto rifiutare.
Lui guardava i ciottoli che lastricavano la piazza, li interrogava con lo sguardo.
Possibile che fosse imbarazzato?
"Tanto… tanto tempo, no?"
Lui mi rispose subito, sicuro "Tre anni".
Dunque li aveva contati.
"E dieci giorni" aggiunse.
"Davvero?" chiesi, stordita.
Ma sapevo che era vero.
E che in quel momento ci sentivamo come due cariatidi cadenti, con secoli fra noi, che tuttavia non avevano alcuna importanza.

I was just guessin' at numbers and figures,
Pulling your puzzles apart.
Questions of science, science and progress
Do not speak as loud as my heart.

Stavo pensieroso davanti a numeri e tasselli,
cercando di ricomporre i pezzi del tuo puzzle.
Ragionamenti freddi -"domande di scienza"-, sulla scienza e sul progresso
che non riescono a esprimersi forti come ciò che viene dal mio cuore.


Lui girò un poco il viso verso di me, era vicinissimo, e riuscì a farmi emozionare, perché lui era ancora l’uomo che amavo.
L’amore in fondo non ha tempo, penso non possa mai cessare del tutto. Resta annidato, nascosto, mascherato, come un regalo dietro una porta di sorpresa, quando meno te l’aspetti.
La parte della piazza che stavamo attraversando era piena di alberi le cui foglie erano talmente verdi che parevano di plastica, ma sapevo che non lo erano, perché d’autunno diventavano marroni e cadevano, e a poco a poco si facevano poltiglia, sperimentandolo per anni.
Intorno a noi c’erano musica, e grida, richiami.
Intanto Minato, con gli occhi stretti, scrutava me.
Mi scrutò finché arrivammo sotto i platani, e io fingevo di non rendermene conto, di essere troppo occupata a osservare la gente che si radunava, si salutava.
Ci fermammo, ansanti, come se avessimo corso.
Lì eravamo al riparo dalla folla, che aumentava sempre più.
"Tre anni e dieci giorni" feci sovrappensiero.
"Sì".
" Pero!"
Impossibile? No, no, possibilissimo.
Lui mi guardava, un po’ staccato da me, elegante.
Le sue mani tremavano. Accidenti.
Provavo l’impulso di consolarlo, come avevo sempre fatto in passato, la mia "volpe ferita" dicevo di lui, non aveva alcunché di volpino, non nel viso, ma dava un senso perenne di essere braccato.
Di colpo mi inquietai.
Consolarlo? Io?
Materna, protettiva per tutta la vita. Con lui?
Chi me lo fa fare. Lui non è mai stato ferito. Lui ha un nucleo duro che non sarà mai scalfito da nulla.
Non è come me. Lui se n’era andato, lasciandomi sola.
Da qualche parte arrivava un aroma intenso di caffè.
Sono un’appassionata di caffè, quindi mi lasciai immediatamente distrarre, immaginandomi portare alle labbra una tazzina fumante, bere con voluttà, centellinarla a piccoli sorsi.
È una cosa istantanea, il piacere che dà il nettare bruno mentre scende in gola e scalda, qualsiasi mal di stomaco, o mal di pancia, sparisce.
Come una carezza soffice spazza via tutto, tensioni, dolori, inquietudini. Almeno per un po’.
Caffè a quest’ora? Perché no?
Una tazzina è un calumet della pace: potremmo rilassarci nell’attimo stesso in cui soffiassimo sulla superficie per raffreddarla, poi sorbiremmo ondine nere benefiche, il cervello si schiarirebbe, i riflessi tornerebbero pronti.
Non ci sarebbe più il desiderio di aprire le ostilità, solo di scuotere il capo e ascoltare il rumore che fa il vento tra i rami dei platani e quello dell’acqua contro il ponte e lo scalpiccio delle scarpe dei ragazzi sulla piazza.
Dissi: "E tu? Come stai, tu?" e Minato sollevò sussultando la testa, come se le avessi dato una pacca sulla spalla.
Guardando il fiume rispose: "Oh, io… io sono uno che non può mai stare bene, vero?"
Che voleva dire?
Lui, proprio lui, lo diceva.
Che faccia tosta. Ma bravo. Ecco come si fa a fare le volpi ferite.
Invece di attaccare per prime, o pensare a difendersi, ci si fa compatire.
Buona mossa. Ma non ci casco.
Affabilmente, come se non fossi turbata, feci: "Ma dai, non dirlo", ridendo sommessamente.
In effetti, e mi sorpresi con me stessa, rimasi turbata per non più di quaranta-quarantacinque secondi.
L’aroma del caffè mi dava il buon umore. Dovrebbe darne a tutti.
Il suo profilo rimaneva immobile.
Starnutii.
Non mi ero coperta, non avevo programmato di stare a lungo fuori, era già venuta notte.
Con un movimento rapido lui mi mise addosso la sua giacca, che fino a quel momento aveva tenuto arrotolata sotto il braccio.
Vidi che Minato gettava nell’acqua un filo d’erba cincischiata.
Non avevo notato quando l’avesse raccolto. Era nervoso?
Se solo avesse detto qualcosa, giusto un suono, una parola, anche qualcosa di cattivo.
Ma dovevamo dirci qualcosa.
Avanti, parla.

Teneva la schiena eretta, e la pelle delle sue mani, della sua faccia scintillava, scintillava.
In un attimo fu come se non sentissi più le voci, ma fossi solamente attenta al suo respiro, alla sua presenza.
Si girò lento, mi fissò.
Aprì la bocca. Non parlò.
Stavo per chiedergli se voleva un caffè, ne arrivava il profumo a folate, quando lui mi precedette: "Ti piacciono ancora i gelati?"
"Caspita."
Si toccò la punta del naso con il dito indice, il solito gesto malizioso: idea in arrivo.
"Ce ne prendiamo uno?"
Inaspettatamente mi trovai a dare, senza neanche pensarci su, la stessa risposta che davo anni prima: "Ottimo suggerimento".
"Con o senza coppetta? "
Pronunciamo in simultanea, come una filastrocca, queste parole: "Cono, naturalmente".

And tell me you love me, come back and haunt me
Oh and I rush to the start.
Runnin' in circles, Chasin' up Tails
Comin' back as we are

E -questi ragionamenti, pensieri- mi dicono che mi ami, tornano a tormentarmi
Oh, ed io corro precipitoso all'inizio di tutto.
Abbiamo girato a vuoto mordendoci la coda
Tornando come eravamo prima


E ci venne da ridere, piegandoci anzi quasi dalle risate, perché quando ridiamo ci contagiamo a vicenda, e non la finiamo più, ridiamo in tutti i toni possibili, alti, bassi, argentini, sfumati; andammo a prendere due coni enormi, con tanta panna sopra. Il gelataio pensò che, nel prendere il resto, ridessimo di lui.
Ed era vero. Era tanto grasso e buffo.
Dei petardi scoppiarono sulle nostre teste, una girandola mai vista, una rosa. La gente applaudì.
Nel leccare la panna, Minato sembrava un bambino goloso.
Sorrisi. Riuscii a sorridere veramente, sentendomi sorridere dentro, non solo sulle labbra, ma in tutta me stessa.
Eravamo inondati da schegge di colore, nulla più era al buio.
E mi accorsi che il mal di stomaco, o di pancia, era passato. Svanito. Come se avessi bevuto il caffè. D’impulso, lo presi sottobraccio.
Facemmo un passo, e sorrise anche lui.
Il volto gli si trasformò, divenne mobile, vivace.
Era come se fosse la prima piazza, adesso, la prima notte della nostra vita: di Minato e me.


I'm goin' back to the start.



Io sto tornando all'inizio.



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Ok, è un po' ridondante, ma mi è venuta così XD
In più è la mia prima fanfiction, ed è una song-fic (genere che non amo molto e che non avrei mai usato se non fosse stato per il contest a cui ho partecipato utilizzando appunto questa fanfiction).
Mi ero immaginata diversamente il mio esordio su EFP, con una coppia totalmente diversa, con una fanfiction diversa.
Alla fine sono mediamente soddisfatta^^
Ringrazio ageha per avermela betata e la dedico a Smoke (ricorda: non c'è un ombrello giallo in questa fanfiction e Kushina non è Ted!)
Gradirei molto se lasciaste una recensione :D
Alla prossima

piantina.
   
 
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