TWINS
La
porta di casa si chiuse con gran fragore, lasciando solo un silenzio pesante e
triste, rotto, di tanto in tanto, da singulti
silenziosi.
Una
ragazza sedeva al buio della propria stanza , le ginocchia al petto, il viso
incassato tra le gambe, sentiva la stoffa dei pantaloni della tuta sfregargli il
viso inondato di lacrime.
Cercò
a tentoni nel buio il contatto morbido con i peluche che invadevano il suo
letto, affondò il viso nel morbido pelo del suo orsacchiotto favorito, il suono
dei suoi singhiozzi era attutito dal folto pellicciotto del pupazzo, le sue
braccia si strinsero febbrili attorno al finto animale, il corpo scosso da
pianti convulsi.
Si
lasciò cadere all’indietro, rannicchiandosi sul materasso in posizione fetale,
tenendosi la testa per tenere lontano il dolore che le attanagliava la mente,
ottenebrandone le percezioni della realtà e rendendola spaventosamente fragile e
indifesa; la gola era secca e bloccata da un groppo che non ne voleva sapere di
dileguarsi.
Sentì
un freddo improvviso, i gomiti lasciarono la presa per un attimo sulla
rassicurante e soffice consistenza del tenero orsetto e le mani si mossero per
andare a sfregare le braccia, nel vano tentativo di riscaldarle; ma il tremito
si fece più intenso, tanto da farle afferrare la coperta, miseramente buttata ai
piedi del letto, e mettersela addosso, chiuse gli occhi, riportando le dita a
massaggiare le tempie pulsanti di rabbia, dolore e
frustrazione.
Era
stato uno stupido litigio a ridurla in quello stato, un litigio normale tra due
fratelli che avrebbe dovuto risolversi in uno sbuffo di fumo; eppure, quella
volta, era stato qualcosa di più, qualcosa che non avrebbe potuto ripararsi e
risolversi con un semplice schiocco di
dita.
Si,
d’accordo, la perfezione non le apparteneva ma aveva tanto da dare al mondo,
tanto affetto da condividere, tanti sorrisi da dare, tanti abbracci da ricevere,
tante cose in programma da fare, tante storie da cominciare e mai finire,
lasciandole proseguire per la propria strada, senza bisogno di un Atreyu
volenteroso che le finisse per lei.
Eppure, forse nella sua ingenuità, non capiva il perché di quel muro
invisibile, e invalicabile, che si era frapposto tra
loro.
Diavolo, erano fratelli, gemelli, due facce della stessa medaglia! Lei
era lui, lui era lei, come faceva a non capire quel bisogno continuo di sentirsi
sempre uno affianco all’altro, complementari come mai nessun altro poteva
essere?
Come
poteva non sentire quella sensazione appagante nel loro
abbraccio?
Si
vede che erano sensazioni a senso unico, l’unica destinata a provarle e a
soffrire per loro era lei.
Ma da
ciò non traeva conforto e anzi, stava ancora
peggio.
“TI
ODIO!” gridò, esternando tutta la sua più profonda frustrazione, “TI ODIO E TI
AMO CON TUTTA ME STESSA! COME FACCIO A DIMOSTRARTELO?” urlò, aggrappandosi al
cuscino come a un’ancora, stringendolo a sé con tutto il soffocante affetto che
era in grado di dare, come se fosse stato il fratello, “Come faccio a dimostrare
una cosa così enorme e senza fine se non me ne dai la possibilità?” singhiozzò,
affossando la testa sotto il guanciale come uno struzzo codardo e
fifone.
La
ragazza cercò di regolarizzare il proprio respiro, richiamò a sé ogni singola
goccia di forza disponibile, i battiti del cuore la assordavano a tal punto che
quasi le erano insopportabili; scarmigliata, con gli occhi gonfi e brucianti, si
mise seduta, tendendo l’orecchio per percepire un qualunque rumore che le
potesse far intuire l’imminente rientro di
qualcuno.
Ma la
casa restava silenziosa e muta, e lei restava ancora
sola.
Nervosamente, si alzò dal letto, dirigendosi a tentoni verso il bagno,
odiava la luce in quell’appartamento pieno di specchi, in ogni dove incontrava
sempre e unicamente la sua immagine, cupa e malinconica, triste e rabbuiata; i
piedi nudi toccarono il morbido tappeto che copriva le mattonelle dei servizi,
il getto dell’acqua fu una benedizione sulle sue mani, che si mossero per
detergere con il fresco spruzzo liquido la pelle arrossata del
volto.
Ella
restò qualche minuto così, con le dita intrecciate sugli occhi, a coprirli,
sentiva gocce scivolargli lungo gli avambracci e cadere sui suoi piedi; rise
amaramente, anche in quel frangente ne sentiva più che mai la mancanza,
desiderava essere abbracciata e coccolata, e più lo desiderava, più sentiva
prepotentemente la voglia di piangere per la mancanza che
provava.
Il
suo cuore gridava a gran voce di lasciarlo andare, di tagliare ogni legame, la
mente razionale la ammoniva, dicendole che, se l’avesse fatto, se ne sarebbe
pentita in eterno; davanti a lei aveva due scelte, egualmente pericolose e
sofferte.
No,
non avrebbe ascoltato ne l’una né l’altra voce, avrebbe seguito
l’istinto.
Lei
ritornò sui suoi passi ma, invece di rientrare nella camera, aprì piano un’altra
porta, ritrovandosi in salotto. Gattonando sino a una vecchia madia seminascosta
dietro il tavolo d’angolo, aprì uno sportello, prendendo tra le braccia un certo
numero di cassette, le custodie erano ormai rovinate ma le avrebbe riconosciute
lo stesso; armeggiò per un po’ col videoregistratore e la televisione, la stanza
venne debolmente illuminata dalla luce tremolante e grigiastra dello schermo.
Respirando a fondo, la ragazza inserì una delle videocassette e si andò a sedere
tra i morbidi cuscini.
Tutto
si oscurò e un ronzio fastidioso riempì l’aria, poi un caleidoscopio di colori
prese forma nel video, irradiando tutto di allegre
tinte.
Una
spiaggia deserta e ventosa sotto il sole di
Luglio…
Il
mare che spumeggiava e gridava, infrangendosi contro la
sabbia.
Un bambino dalla faccia pasciuta e sorridente, che saltellava allegro attorno a un bimbo uguale in tutto e per tutto a lui, tranne che per la maglia rossa, riempì il monitor, il musetto e le guanciotte erano abbronzati, l’immagine era sgranata e in parecchi punti rovinata, doveva essere un nastro molto vecchio: “Ca’otta, gioco?”.