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Autore: Ulissae    15/04/2010    5 recensioni
One shot su Aro.
«Un sorriso, cara. Ti regalerò un sorriso»
Genere: Malinconico, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aro
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Ideale utopistico'
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Sproloqui: la storia è da un po' che giace nel mio computer; è stata scritta a scaglioni, in periodo diversi. È ispirata alla famosa frase del film Batman- The dark knight. Il titolo vuol dire Dannato dal sorriso.
Buona lettura.



Damnatus Risu
La Follia è una dama alquanto particolare, sapete?
Di quelle che ti prendono, ti trascinano su una pista da ballo ormai in rovina e lì, tra il lerciume di anni di dimenticanza, ti fanno credere di essere vivo. Tu, al centro di quell'universo incantato.
Ma è solo polvere.
E tutti lo sappiamo.
«Perché così seria?»

Mentre percorreva quella strada priva di luce, priva di vita, si rese conto di non essere solo; non erano più soli, lui e il suo sorriso, qualcosa, qualcuno, li seguiva.
Oppure scappava da loro?
Questo nessuno lo sa, il filo tra attrazione e repulsione è così sottile da divenire invisibile.
Bastò una folata, una carezza di vento e tutto cambiò.
Divenne predatore, da semplice essere, divenne forza, divenne morte.
La seguì, silenzioso, quando la raggiunse non poté farne a meno: sorridere.
Lo faceva sempre, Aro, e lo odiava.
C'era un particolare disgusto che pervadeva la sua bocca quando era costretta ad alzarsi per sorridere, un dolore recondito nel dover distendere le labbra in qualcosa chiamato sorriso.
Quando la ragazza si voltò rimase paralizzata; i riccioli neri e scomposti si agitavano nell'aria, le gote arrossate avvamparono di colpo, fissando l'uomo che le stava davanti.
Aveva la testa leggermente piegata di lato, mentre la osservava, e una ciocca di quella seta corvina scivolava via dal laccetto di cuoio, fermandosi proprio davanti al suo occhio destro.
Occhio nero, anche quello.
Nero di rabbia? Nero di fame? Istinto? Primitiva voglia di nettare?
Oh, no. Semplice, pura, dannata frustrazione.
Aro non voleva ridere, eppure lo faceva.
Fece un piccolo passo, impercettibile, e le fu davanti. Davanti a lei, che rimaneva immobile.
«B... buonasera» sussurrò lei, con la voce titubante, che le era venuta a mancare.
«Buonasera» rispose lui, sicuro di sé; trattenne la mano, che subito stava per sfiorare le gote della dolce umana.
Deliziosa, nella sua fragranza di vita.
«Le serve qualcosa?» chiese, poco alla volta lo stava studiando.
Il mento leggermente appuntito, il viso scavato, pallido, quelle occhiaie che la attraevano e la ripugnavano allo stesso tempo.
«Oh, no, non si preoccupi» rise, leggermente. Le zanne sottili si mostrarono, per una frazione di secondo così breve, che a lei sembrarono solo una visione.
Continuava a fissarlo, affascinata.
Lo studiava nei minimo particolari, lo stava assorbendo; come se quel turbinio di vita, che risiedeva nel leggero strato di sudore che le imperlava la fronte, nella saliva che deglutì a disagio, nel calore che emanava, lo potesse risucchiare.
Lo guardò bene: i vestiti eleganti, la camicia nera, tutto suggeriva che fosse ricco.
E allora perché stava in quel vicolo dimenticato da tutti?
«Capisco...» iniziò, indietreggiando lentamente; le scarpe da ginnastica provocarono uno scricchiolio stridente sui sampietrini umidi di pioggia.
«Sa perché sorrido?» la interruppe Aro.
Doveva mangiare, ma non poteva lasciarla andare così. Troppa coscienza si annidava nel suo animo, troppo dolore che andava condiviso.
Si dice che i carcerieri, in passato, furono prigionieri a loro volta, e che la rabbia che sfogano sui loro sottoposti è solo un millesimo di quella che qualcuno sfogò su di loro.
La ragazza ebbe un sussulto, scosse la testa, non capendo dove questo sconosciuto volesse parare.
«A lei piace ridere?» domandò, scostando lo sguardo dagli occhi di lei, rapido. Guardò verso la fine della stradina, un vicolo cieco che dava su uno spiazzo, affacciato sulle colline toscane.
«Sì. Se rido perché sono felice... sì» balbettò, sfruttando quell'attimo di distrazione per allontarsi da lui.
Ma erano sforzi inutili, poiché, anche se non se ne accorse, lui le fu nuovamente attaccato.
Raccolse un riccio scuro e lo posò dietro il suo orecchio, affascinato dal groviglio di capelli, così perfettamente disordinati.
«Sì, anche a me... eppure rido sempre, lei crede che io sia sempre felice?» chiese. Nonostante le labbra fossero ancora tese in un sorriso, gli occhi stavano ardendo di furore.
La ragazza aprì la bocca, ma la chiuse subito.
Non si chiese se quell'uomo fosse pazzo, per prima cosa si chiese se fosse un uomo.
In secondo luogo cercò di interpretare il suo viso, così espressivo da risultare struggente.
«Cre... credo di no» sorrise in imbarazzo «cioè, spero per te... lei di sì, ma... non... » si zittì, capendo di riuscire a dire nulla di sensato, niente che potesse essere apprezzato da un qualcosa come lui.
Perché no, uomo non era.
Dimostrava massimo ventisette anni, eppure le dava del lei ed era vestito in quel modo. Si muoveva in quel modo, con grazia ultraterrena.
«Già, ha ragione. Non sono felice. Eppure sorrido, lo sa il perché?» sogghignò, questa volta anche sulle labbra arrivò la cattiveria dei suoi pensieri.
«No, non lo sa. Nessuno lo sa, nessuno lo deve sapere» sussurrò, divertito, come se stesse scherzando. «Ora ve lo dirò, è un segreto, lo sai?»
Un tremito la invase: terrore, sensualità, eccitazione, paura. Annuì, però, nonostante tutto.
«Hai mai ucciso un sorriso, Lucia?» le aveva sfiorato il collo con una mano serica, fredda.
Lei balbettò qualcosa, ma non rispose. Strinse le labbra e rimase in silenzio.
Una forma di nuova sottomissione la inondò, come se quegli occhi neri e scuri l'avessero ipnotizzata, attratta al magnetismo che quell'uomo esercitava su di lei.
«Io ho ucciso il Sorriso, cara. È tremendo, te lo assicuro»
Si ritirò e scosse la testa, abbassandola.
«E lei mi ha maledetto...» soffiò, insentibile.
Quando rialzò lo sguardo questo era vuoto, vacuo.
Come se dei lacci invisibili, che fino a quel momento l'avevano trattenuta a lui, stessero scivolando via da lei, lasciandola libera.
Voltò il capo, tutti i muscoli tesi, pronti alla corsa.
Ma lui la bloccò, le strinse un braccio, premendo i polpastrelli di marmo sulla carne morbida e tiepida.
Lucia trattenne un singhiozzo, mentre le lacrime già scendevano copiose.
Si era risvegliata dal sogno incantato ed ora si ritrovava in un orrendo incubo; in cui il leggiadro cavaliere non era nient'altro che un mostro.
«Oh, mia cara, perché sei così seria, così triste?» rise. Eppure la sua voce era stridula, gracchiante. Nulla che potesse ricordare quella melodia che aveva sentito poco prima.
Lei provò a rispondere, ma la voce le si rompeva una volta arrivata alle corde vocali, poiché i singulti erano troppo forti.
Tremava, incontrollata.
«Facciamo così, posso farti un regalo» le mormorò all'orecchio, chinandosi sul suo collo, annusando a fondo l'odore forte che proveniva dalla pelle olivastra. « Un regalo unico» ripeté, sfiorandolo con le labbra, leccando un punto leggero con la punta della lingua fredda.
«Mi lasci, la prego, mi lasci» singhiozzò, le lacrime salate le invasero la bocca.
«Un sorriso, cara. Ti regalerò un sorriso» la rassicurò, mentre scendeva con la bocca su quella di lei.
La baciò lentamente, ma in un attimo, il corpo di Lucia iniziò a fremere, cercando di divincolarsi.
I denti di Aro tagliarono le sue guance, dall'interno della bocca.
All'insù, proprio come un sorriso.
Eternamente all'insù, proprio come lui.
Un grido uscì, come un ruggito, dalla gola della ragazza; ma la mano di lui, prima così gentile, tarpò le ali a quell'urlo.
Subito iniziò a bere in sangue, togliendolo dalle ferite. Scese poi sul collo, affondando, nella carne tenera, le zanne candide.
Quando anche l'ultima goccia di quella linfa afrodisiaca uscì dal corpo, ormai freddo, morto, la lasciò.
L'adagiò delicatamente sulla strada bagnata e si voltò.
Camminò svelto.
Il cuore gelido di Aro si scaldò un poco -forse per il sangue-, nella certezza che qualcuno, come lui, avrebbe portato quel fardello.
Un eterno sorriso.
Leccò le dita rosse, con un guizzo serpentesco, assaporando quel sapore che lo mandava in estasi.
Alle sue spalle una ragazza, condannata, come lui, a sorridere per sempre.
O, per lo meno, finché i vermi non ne avrebbero mangiato la carne, il tempo non l'avrebbe resa polvere.
A quel pensiero un ringhiò nacque nel suo petto, e solo un'immensa forza di volontà lo soffocò.
Uscito per strada, però, fu costretto di nuovo a sorride, per fare in modo che nessuno, di quegli uomini ignoranti del suo essere, lo potesse notare.
In quel momento, mentre riprendeva a piovere, Aro desiderò piangere.
Eppure doveva ridere.

Sorridi, sorridi, sorridi.
In eterno, mio caro, in eterno.
La mia dolce maledizione è questa, fratello mio.




Angolo autrice:
credo non ci sia dannazione peggiore del sorriso per chi è triste dentro di sé. Ho immaginato che Didyme avesse lanciato una sorta di ultima maledizione al fratello: quella di sorridere, sempre. È strettamente collegata al suo potere, quello di rendere tutti felici.
Mi è piaciuta scriverla, è un po' speciale perché in qualche modo mi ci rivedo.
Il nome Lucia è dovuto al fatto che vuol dire luce, il simbolismo è che Aro, dopo la morte di Didyme, ha perso la sua luce, ecco. (:
Come ho detto è ispirata alla storia del Joker -sono cotta di quel personaggio .w.-
Tutto qui.


Notizia inutile: domani compito di latino *mugugna*
   
 
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