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Autore: Yoko Hogawa    18/04/2010    4 recensioni
Non c'è nessuno, nei forum dedicati alla scrittura creativa, che non conosca Sakurai.
La sua fama è pari solo al suo talento, al numero dei suoi fan dispersi per il mondo e, probabilmente, al mistero che circonda quel misero nickname.
Perchè sì, di Sakurai non si sa nulla. Tanto che alcuni pensano che non ci sia nessuno, dietro quel nome fittizio.
Come Andrew. Nella sua perfetta vita da bello e impossibile, lui non riesce a credere che una persona del genere possa realmente esistere. E' lui il primo a sostenere che "Sakurai" sia soltanto una colossale bufala.
Finchè non riuscirà, per uno strano scherzo del fato, a carpire il segreto di Sakurai... e, automaticamente, della persona che vi si nasconde dietro. Finchè non si caccerà nei guai, come diceva sua madre appena le era possibile, perchè i misteri di Sakurai non si limitano al mondo in lettere e prosa, ma sconfinano in una corsa disperata contro il tempo e quasi distaccata dalla realtà.
Andrew si troverà, suo malgrado, a prendere parte ad un gioco on-line che ha risvolti sulla vita reale. E quando gli influssi di quel gioco si faranno sentire anche sulla sua vita, cominciando a distuggerla, l'unica persona su cui potrà contare... sarà proprio Sakurai.
[Linguaggio colorito in alcuni punti]
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Fanfic del genere “continuiamo a scrivere altro invece di continuare quello che da scrivere avremo già”. Puramente senza pretese, solo per divertirmi.

Il fatto che io abbia cominciato questo lavoro, si deve tutto ad un film d’animazione che mi è capitato di vedere la settimana scorsa e da cui ho tratto una consistente ispirazione. Il titolo è “Summer Wars”, e consiglio a tutti di vederlo.

Faccio inoltre una piccola precisazione sul titolo. Sono consapevole che “Sakura Wars” è anche il nome di un manga/anime, ma sappiate che con esso non centra niente XD semplicemente, mi sembrava il titolo più azzeccato per la trama che questa sorta di lavoro svilupperà in seguito.

Ah, e non stupitevi se l’introduzione è noiosa. Purtroppo lo sono tutte, suppongo.

 

Desclaimer: tutti i personaggi di questa fanfic sono stati inventati dalla sottoscritta, sono perciò di mia proprietà. Ogni riferimento a fatti e/o persone realmente esistite o esistenti è puramente casuale.

Si ringrazia Shichan per il betaggio <3

 

A coloro che si voglio avventurare, buona lettura!

______________________________________________________________________________________________________

 

Prefazione

 

Legge della perversità della Natura:

Non si può prevedere con successo

quale lato del pane andrebbe imburrato.

Corollario di Jenning:

Le probabilità che il pane cada sul lato imburrato

sono direttamente proporzionali al valore del tappeto.

[Arthur Bloch; La Legge di Murphy (vol.1)]

 

 

 

Nella sua personale classifica dei “giorni in cui farei volentieri altro”, il martedì occupava sicuramente il primo posto su sette.

Motivazioni? Diverse. La più importante? Le quattro ore ininterrotte, e specifichiamo mattutine, di analisi fattoriale che si era beccato come pacchetto regalo per avere scelto una facoltà come Matematica alla Cleveland University.

Certo, c’era entrato con una sonora borsa di studio per meriti sportivi, e avrebbe fatto meglio a spegnere il cervello e smettere di lamentarsi per la grazia ricevuta che gli permetteva di non pagare la retta... ma quattro ore con il professor Wilson, che dire anziano era scherzarci sopra con leggerezza, avrebbero probabilmente portato al suicidio anche un praticante eremita sulla via del Nirvana.

Fu solo per scrupolo, infatti, che alzò per un istante gli occhi azzurri dal foglio a quadretti alla lavagna piena di numeri e calcoli. Il suo cervello ci mise poco per capire a che punto del problema il vegliardo era arrivato e, compreso che aveva ancora circa cinque minuti per tirare il fiato, ritornò a concentrarsi sugli affari suoi.

Non era sua abitudine finire i problemi prima del professore, davvero. Sul serio. Dai... Wilson era praticamente con un piede nella fossa (facciamo con entrambi...) ed era lento, per questo lui riusciva ad applicare il teorema prima dell’insegnante. Pura fortuna, pura fortuna!

Peccato che non ci credesse nessuno. Nemmeno lui.

Sospirò sommessamente, appoggiando il gomito sinistro al banco e la testa sulla relativa mano. Con sguardo schifato, poi, guardò assottigliando gli occhi le varie cifre numeriche ordinatamente scritte sul suo quaderno... e si diede dell’imbecille.

Probabilmente sarebbe entrato con una borsa di studio anche senza il suo talento nel calcio. Era quella la considerazione che lo mandava in bestia più di tutti i problemi che un adolescente americano medio poteva avere durante la propria vita.

Schifosa Matematica.

« Signor Collins! » si sentì improvvisamente chiamare, e come un macigno percepì l’attenzione di tutti i frequentanti del corso concentrarsi su di un unico punto: la sua schiena.

« Sì? » rispose dunque al professore, rimettendosi diritto con movimenti lenti e calcolati. Osservò l’insegnante guardarlo con un ghigno, poi indicare la lavagna con la mano rugosa. « Dato che sembra così interessato a questa lezione, potrebbe cortesemente dirmi la soluzione al problema? » domandò con tono furbo, picchiettando con la nocca sulla superficie verde.

La sua mente rispose per lui. 6∏r/x-2. Aveva trovato quella soluzione quasi venti minuti prima, dopotutto.

« Mi spiace professore, ero distratto e non ho seguito » rispose però, portandosi la mano dietro la nuca e ridacchiando sommessamente. Dal resto della classe si levò una risatina.

Vide Wilson sospirare rassegnato, portando la stessa mano sporca di polvere di gesso ai capelli altrettanto bianchi: « signor Collins, smetta di pensare a palloni da calcio e stia attento, per cortesia. La borsa di studio non sta in piedi da sola, lo sa? » lo redarguì, per poi tornare con calma al calcolo dell’ultima equazione.

Andrew Collins, diciannove anni compiuti in ritardo rispetto al resto dei coetanei, ridacchiò a sua volta e tornò con gli occhi sul quaderno. Ignorò alla grande un ciuffo castano scuro che aveva avuto il coraggio di scivolargli davanti al naso, provvedendo a scribacchiare per finta qualche numero finché ognuno degli sguardi non fu tornato al proprio posto verso la cattedra.

Non gli ci volle molto sforzo per riassumere la posizione precedente e perdersi nuovamente fra le pieghe di pensieri inconcludenti. Anzi, forse sarebbe stato meglio definirli di “autonegazione”.

Già... probabilmente non sarebbe stato capace di definire numericamente per quanto tempo si era ripetuto in testa il mantra “non sono un secchione”. Così tanto e tanto a lungo, che il solo pensare quelle parole gli faceva passare la fame.

Aveva sempre pensato che la capacità di fare lunghi calcoli a mente e capire facilmente il funzionamento di un calorifero, o di un computer, non fosse qualcosa che aveva imparato a scuola. Lui non stava nemmeno a sentire quello che gli insegnanti blateravano, a scuola.

Doveva essere per forza qualcosa che suo padre, ragioniere che coi numeri ci aveva avuto a che fare per una vita intera, doveva avergli passato tramite eredità genetica.

Una cosa impossibile, a sentire dalla sua ex professoressa di Biologia delle superiori... ma la speranza era l’ultima a morire in ogni caso.

Lui non voleva essere un fottuto secchione.

La fatidica frase “ci vediamo giovedì” che Wilson pronunciò poco dopo fu la sua ancora di salvezza dall’essere, probabilmente, ripreso di nuovo. Sorrise soddisfatto della fine della tortura, stiracchiandosi per bene prima di alzarsi e rimettere con la dovuta calma del caso tutta la roba all’interno della borsa. Le prossime due ore buche la dicevano lunga su cosa avrebbe fatto: si sarebbe impegnato in un lussurioso giro del campus in cerca dell’ultima ragazza che gli aveva attaccato pezza alla festa del sabato precedente. Non era male, e con l’aiuto degli insegnamenti del maestro Giacomo Casanova sarebbe caduta ai suoi piedi in meno di una settimana.

Anche se, in realtà, cominciava a pensare che la sua fama lo precedesse, e che le ragazze si presentassero da lui con la ferma intenzione di togliersi la biancheria intima non appena possibile.

Bah, donne. Ancora non trovava possibile che alcuni ragazzi le definissero “di una razza a parte”. Era così facile trattare con loro!

Si diresse fischiettando all’uscita dell’aula, borsa in spalla, diretto al campus davanti all’edificio centrale.

Ultimamente, dato l’autunno decisamente mite che sembravano avere quell’anno, parecchi studenti approfittavano degli ultimi raggi di sole per passare un pomeriggio bazzicando all’aperto.

Bene, era deciso: giardino del campus!

« Dove credi di andare, punta di diamante? » sentì però da un angolo infimo e nascosto alle sue spalle, e solo al suono di quella voce i suoi gradevolissimi programmi per la pausa pranzo andarono a farsi benedire amabilmente. Sì, anche quelli (soprattutto quelli) che prendevano in considerazione una serrata lavorazione della ragazza sopracitata.

Chiuse gli occhi, mordendosi il labbro inferiore e dandosi al contempo del cretino. Com’era possibile che si facesse incastrare ogni volta in quel modo da babbeo rincoglionito, come?!

« Ah, capitano... » bofonchiò poi, girandosi. « Io dove vado? Ma ovviamente al campo di allenamento, no? Dobbiamo preparare gli schemi per la prossima partita, non mi sono mica dimenticato! » cercò di rimediare in extremis, rendendosi però conto di essere più che altro ridicolo in quella farsa mal recitata.

Mike Connors, terzo anno di Biologia, lo guardò dall’alto del suo metro e novanta con la faccia di uno che non solo non credeva ad una parola di quello che si sentiva dire, ma aveva anche visto al di là di ogni possibile cazzata che ti saresti inventato pur di avere la pausa pranzo libera da impegni. Soprattutto se questi “impegni” consistevano nel chiudersi con il proprio capitano negli spogliatoi maschili del campo di calcio a disegnare omini e lineette su di una lavagna a pennarello.

Il che, permettete, confrontato con la visione di dieci ragazze piene di buone intenzioni che ti fanno una corte spietata non è la maggior aspirazione di nessun teenager con la sindrome dell’ormone scattante.

Mike ghignò, trapassandolo completamente con quei suoi maledetti occhi color oltremare. « Impara a mentire in modo decente e forse ti riconoscerò qualcosa che valga, oltre il tuo talento nel calcio » si riservò di dirgli: « e ora in marcia, altrimenti mi sentirò libero di suggerire al coach una decina in più di giri di campo » minacciò, nascondendo quella stessa minaccia sotto un sorriso da finto angelo.

Maledetto. Era in occasioni come quella che Andrew capiva come l’altro fosse diventato capitano già dal primo anno di corso. Era un mafioso, ecco la verità. Una cosa come il Padrino; gli mancava solo il gessato, il cappello a testa larga e l’accento siculo-americano.

« Allora Collins, come vanno le lezioni? » domandò Mike mentre si avviavano verso l’uscita nord, in direzione dei campi sportivi dietro il complesso universitario.

« Insomma » rispose Andrew, portandosi le braccia dietro la testa a mo di cuscino: « diciamo che riesco a stare al passo, ecco tutto. Anche se credo che Wilson mi odi, la sua voce mi induce follemente alla disattenzione » aggiunse, sorridendo rassegnatamente.

A dire il vero si distraeva perché non aveva letteralmente niente da fare, ma erano dettagli trascurabili per la sua sanità mentale... e per la sua immagine sociale.

« Normale, quello farebbe addormentare anche un assiduo della caffeina » rispose l’altro, per poi aggiungere: « ma non sarà troppo difficile Matematica? Solitamente quelli che entrano con una borsa di studio per meriti sportivi scelgono materie più facili » buttò lì, osservandolo per traverso facendo amabilmente finta che la domanda fosse del tutto disinteressata.

Si vedeva lontano un miglio, però, che i suoi occhi dallo stranissimo color azzurro-grigio erano più interessanti del solito alla risposta.

Andrew aveva sempre ammesso a tutti che la sua era stata una scelta dettata dalla famiglia, quando chiedevano. A dire il vero, suo padre e sua madre non c’entravano assolutamente niente. Aveva scelto quella facoltà per il semplice motivo che, secondo lui, era effettivamente la più facile.

Anche se, agli altri come a sé stesso, non lo avrebbe ammesso mai.

« Mio padre è un fan del calcolo numerico » rispose infatti, cancellando dalla mente la prima possibilità di risposta che prevedeva un “io la trovo fattibile”.

« Ah, capisco... » si limitò ribattere Mike, scostandosi dagli occhi un ciuffo biondo di capelli lisci come seta.

Andrew sospirò sommessamente. L’aveva scampata per l’ennesima volta.

La sua fama era ancora salva.

 

Tre fischi si alzarono da centro campo, determinando la fine della breve partita di fine allenamento.

« Bell’allenamento ragazzi! » urlò il mister una volta che l’ultimo fischio si fu spento nell’aria: « andate a cambiarvi e sparite, non voglio vedervi prima di domani! » ironizzò poi, dando finalmente il via libera ai suoi esausti giocatori di sperare in una cena e in un letto morbido pronti a raccogliere le loro stanche membra.

Andrew, dal canto suo, si sentiva praticamente sfinito. Non era una cosa comune, di solito; aveva sempre avuto una buona resistenza per gli allenamenti di calcio. Ma quella sera il mister ci era andato particolarmente pesante, e non voleva assolutamente attribuire la scelta dei cinquanta giri di campo ad una parola di troppo di Mike.

Passandosi la mano fra i capelli fradici di sudore, osservò di sottecchi il biondo poco distante, intento a parlare con una ragazza alla ringhiera delle tribune.

Carina, considerò. Doveva essere per forza la sua tipa.

Se non fosse stato che, per regola personale, non ci provava con le ragazze degli altri (a meno che non fossero state loro a provarci con lui) ci avrebbe anche fatto un pensiero sopra.

Anzi, no, considerò subito dopo. Non ci avrebbe provato con l’eventuale ragazza di Mike Connors nemmeno sotto tortura. Avrebbe potuto comparirgli in camera dall’ombra puntandogli un mitra alla tempia.

« Ehi Collins! » si sentì chiamare dalle spalle, e non poté evitare che quel treno merci di Jake lo investisse in tutta la sua infinita voglia di fare casino. « Scoop, bello! Scoop! » gli urlò nell’orecchio, e nemmeno a dirlo rischiò di perdere il timpano.

Jake non era un cattivo ragazzo, anzi. Era una di quelle persone che sembrano nate per tramutarsi in un personaggio di Walt Disney da un momento all’altro. Non lo aveva mai visto arrabbiato, triste o anche solo un po’ malinconico... e dire che avevano frequentato le stesse scuole superiori e giocavano nella stessa squadra da allora. Insomma, di tempo ne aveva avuto per conoscerlo.

No, Jake era uno che aveva sempre stampato in faccia un sorriso strafottente da persona fin troppo felice, per stare a badare le piccolezze del mondo.

Chissà, magari era un illuminato del Nirvana in incognito. Oppure faceva uso di sostanze stupefacenti.

« Jake, ti sarei grato se mi lasciassi portare l’udito fino alla vecchiaia. Sono quasi convinto che potrebbe servirmi per un’altra cinquantina d’anni » scherzò appena, dandogli una lieve gomitata nelle costole mentre l’altro, immancabilmente ridendo, gli circondava le spalle con il braccio.

Nei suoi due centimetri di altezza con cui lo superava, Jake era l’unico che riuscisse a lasciargli almeno un briciolo di buon umore dopo il massacro spartano che il loro coach faceva passare per “allenamento”.

« Le sai le novità? » cominciò poi l’altro, parlando con un tono decisamente più basso: « pare che prima della prima partita di campionato affronteremo in amichevole gli Sharks » gli rivelò, ridacchiando furbescamente subito dopo.

« Stai scherzando? » ribatté Andrew incuriosito, tenendo il tono basso a sua volta. « Non sono quelli che l’hanno suonata di santa ragione alla squadra dell’anno scorso? ».

« Eeeeeeeeesattamente! » gongolò Jake, indicando con un cenno del capo l’allenatore e Mike parlottare fra loro: « li ho sentiti parlare nello spogliatoio prima dell’allenamento. Stanno pensando di tenerti come punta per il secondo tempo, così che gli Squali avranno una bella sorpresina in attacco » spiegò velocemente ciò che aveva sentito, aprendo poi la porta dello stesso spogliatoio.

L’interno, una volta che i giocatori cominciavano ad entrare in doccia, diventava una sottospecie di sauna. E non era nemmeno da dire che le grida sboccate che provenivano dalle docce coprivano molto bene le loro cospirazioni.

« Sul serio Jake » si ritrovò a dire Andrew togliendosi la maglietta con il numero nove e mettendola nei cesti per la lavanderia: « dovresti piantarla di origliare, se ti becca il coach ti stacca le braccia a forza di flessioni » aggiunse, osservando l’altro con un sopracciglio sollevato.

« Nah, non mi beccheranno mai, sono troppo bravo » gli rispose Jake, battendosi la mano destra sul petto snello. Si tolse a sua volta la numero tre, facendola volare nel cesto insieme a tutte le altre maglie; sciolse poi l’elastico che teneva fermi i capelli scuri, che ricaddero spettinati e sudati a sfiorare le spalle nude.

« Se lo dici tu... » fece spallucce Andrew, legandosi l’asciugamano in vita ed entrando nel locale delle docce insieme al compagno.

Per un pelo scansò, e fece scansare anche a Jake, una saponetta volante che aveva tutta l’intenzione di volergli rompere il naso. Urlò qualcosa a chi l’aveva lanciata, che gli rispose con una sonora linguaccia, per poi dirigersi nel suo solito cubicolo e aprire l’acqua.

Il sollievo fu istantaneo. Gli sembrò che tutti i muscoli prima tesi si stessero pian piano distendendo, e non seppe quantificare per quanti istanti rimase immobile sotto il getto nel tentativo di isolare il mondo da sé.

Tentativo che durò molto poco, in realtà.

« Ehi Collins, hai dato un’occhiata al forum di squadra ultimamente? » gli chiese qualcuno da qualche parte della stanza, che ovviamente Andrew non si diede pena di guardare direttamente. Stare immobile in quella posizione era troppo rilassante...

« No, non ci vado da un po’ » rispose dunque tenendo gli occhi chiusi, riservandosi di prendere a tentoni la bottiglia di bagnoschiuma per versarsene un po’ sulla mano. Cominciò a massaggiarsi energicamente i capelli, creando una piccola massa di schiuma dopo solo due passate.

« Facci un salto questa sera, ti sei perso il meglio delle chiacchiere »
« Certo, sempre che mister playboy non sia occupato a portare fuori a cena la sua seicentomillesima ragazza! »

« Secondo me fra poco comincerà ad uscire anche con tua nonna, O’Connor! »

« Ehi! »

« E piantatela, non sono così disperato! » si sentì in dovere di intervenire Andrew, facendo scoppiare a ridere l’intera squadra.

Rise a sua volta, riservandosi finalmente di riaprire gli occhi sul mondo.

« Dico sul serio Collins » intervenne poi Jeremy dal cubicolo a fianco: « sei entrato tu in questo fottuto college, e a tutte le femmine paiono esplosi gli ormoni. Sei un cazzo di culone, te lo ha mai detto nessuno? » domandò retoricamente, appoggiandosi con le braccia al muretto in piastrelle bianche che separava un cubicolo dall’altro.

Fortuna? Mah, era solo logica.

« Nessuno nelle ultime ventiquattrore, ma comunque sì, lo so » rispose lui vantandosi per finta, chiudendo l’acqua e recuperando l’asciugamano. Si asciugò innanzi tutto la faccia, passando poi alle braccia e al petto.

« Spiegami come fai! » si lamentò al contempo Jake, chiudendo l’acqua a sua volta: « quelle sono alieni, esseri intrattabili! Sembra di parlare una lingua diversa quando ti avvicini a loro! » brontolò scontento, beccandosi quasi subito una saponetta in faccia unita ad un « non paragonarci a te, sfigato! » arrivato dalla direzione di O’Connor.

Andrew rise, frizionandosi i capelli con forza. « Non è difficile » rivelò poi, legandosi l’asciugamano in vita: « basta avere occhi solo per loro. Complimentatevi per i vestiti, il trucco, i capelli... anche se non ci capite niente, fatelo comunque. La maggior parte è abbastanza vanitosa per sciogliersi in brodo di giuggiole » rivelò il suo “trucco del mestiere”, anche se lui pensava in effetti che fosse solamente buon senso.

Ovvio che se si voleva rimorchiare la base era complimentarsi.

Qualcuno commentò, ma lui non rimase lì ad ascoltare. Un’occhiata all’ora gli fece capire che non aveva molto tempo per stare a parlare del suo mestiere preferito.

Sua madre era una persona che teneva alle tradizioni; se non tornava a casa per cena, erano guai.

 

Una cosa di cui non avrebbe mai smesso di ringraziare il fato, era di averlo fatto nascere da una donna che amava cucinare e lo faceva pure bene.

Certo, c’erano i lati negativi nella figura di sua madre: odiava i ritardi e quando litigavano era capace di non rivolgergli la parola per svariate settimane, ma almeno se era di buon umore creava cene a dir poco luculliane a base di tutti i suoi piatti preferiti. E chissà perché, aveva notato Andrew ad un certo punto, prima di partite importanti sembrava portata ad aumentare il quantitativo di roba cucinata.

Probabilmente aveva ricevuto notizia della vicina amichevole con gli Sharks.

Rebecca Wisely in Collins era professoressa di Letteratura alla scuola superiore di Eastlake. Prendeva il treno tutte le mattine molto presto e tornava nel primo pomeriggio, eppure aveva una tale organizzazione lavorativa che trovava il tempo di pulire la casa, fare la spesa, cucinare e correggere una cinquantina di compiti nel giro di due o tre ore. Era una capacità che Andrew le invidiava spesso e volentieri.

Aveva sposato suo padre, Nick Collins, quando era ancora un semplice impiegato in una piccola azienda di import-export; di cui poi era diventato primo ragioniere e vicepresidente. Ora quell’azienda era una delle principali compagnie di esportazione del pescato di tutto l’Ohio.

Doveva ammettere che la sua famiglia non era poi così male, dopotutto.

Rientrò in camera verso le nove e mezza, dopo una doccia rigenerante e un altrettanto apprezzato bicchiere di aranciata. Si stiracchiò ben bene, si infilò i pantaloni della tuta da casa e una maglietta a mezze maniche con lo stemma dell’università, poi si premurò di sedersi finalmente alla scrivania.

Teoricamente avrebbe dovuto dare un’occhiata a qualche funzione, giusto per prepararsi un po’ in anticipo al test del mese successivo. Considerò le varie opportunità: erano le nove e mezza, e lui sarebbe crollato di sonno massimo a mezzanotte, come ogni sera. Il che voleva dire che aveva all’incirca due ore e mezza di tempo per fare qualsiasi cosa avesse in testa di fare.

Pensieroso, osservò il pc. No, di studiare non ne aveva voglia neanche di striscio. E poi, suvvia, lui non era mai stato puntuale nelle consegne nemmeno alle elementari; se non studiava tutto gli ultimi due giorni non poteva definirsi un vero Collins!

Motivo per cui scartò anche solo l’idea di aprire lo zaino, accendendo invece il notebook e collegando ad esso il filo del modem. Aspettò la carica e poi, finalmente, si connesse ad internet.

Prima diede un’occhiata a Facebook, impiegando qualche minuto a leggere i vari messaggi che gli avevano lasciato e a dare una controllata alle sempre troppe richieste di amicizia. A parte quella di qualche ragazza che ricordava di avere incrociato nei corridoio della facoltà, tutte le altre erano da parte di sconosciuti.

Le accettò tutte comunque.

Una volta terminato lasciò aperta la pagina, attivando Messenger. Dei suoi quasi cento contatti ne erano in linea una marea, ma era una di quelle serate in cui gli tirava pesantemente chiacchierare con chicchessia; così si mise occupato, scrisse come messaggio istantaneo un vago “contatto io”, e scorse l’elenco dei nomi fino a trovare quello che interessava a lui. Cliccò due volte sul nick “illustre e indiscusso re del Football ~ Ben the Ripper” (ma un nickname meno pietoso no?!) e scrisse un “’sera bro” ignorando lo stato “non al computer” che l’altro sembrava essersi messo. Col cavolo che non era al computer, era una finta: se Benedict veramente non era piantato davanti allo schermo non si sarebbe disturbato di tenere aperto msn.

Infatti gli rispose in pochissimo, esordendo con un “ehi fratellino! Come butta?”.

Ancora con questa mania...

“Quando la smetterai di darmi del moccioso, Ben?” rispose subito, digitando a media velocità per la poca abitudine che aveva di scrivere a tastiera.

Attese qualche istante, poi lesse a bassa voce la successiva risposta: « “mai, io ho sempre e comunque un anno in più di te”. Maledetto...! » sghignazzò, rispondendogli una parolaccia a caso in tono scherzoso e riducendo per un secondo la finestra di conversazione.

Benedict, detto “Big Ben”, era il suo migliore amico da quando ne aveva memoria. Avevano sempre abitato l’uno accanto all’altro, avevano frequentato le stesse scuole fino al liceo e le loro due mamme erano migliori amiche a loro volta dai tempi del college. Le finestra della sua stanza era di fronte a quella di Ben, così che aveva letteralmente passato l’infanzia condividendo con l’altro qualsiasi cosa.

Tanto che erano divenuti fratelli, e così ancora si chiamavano.

Successivamente, però, Ben era diventato un giocatore di football professionista, e con le varie turnee della sua squadra non avevano più la possibilità di vedersi come un tempo.

Tornò su internet e, con una piccola ricerca su Google, seguì ciò che i compagni di squadra gli avevano consigliato nemmeno qualche ora prima.

Il forum della squadra dell’Università di Cleveland era una sezione di un altro foro molto più ampio, dedicato a tutte le squadre sportive che rappresentavano la città e le varie scuole nelle più disparate discipline. Ogni sport praticato aveva la sua sezione, e non era raro che più squadre facessero parte di una stessa area.

La conseguenza più intuibile, date le premesse, era quella di avere argomentazioni di cui discutere talmente varie da sfiorare l’assurdo.

Uno dei topic più in voga al momento (soprattutto per le squadre femminili, a quanto vedeva dai nicknames dei partecipanti) riguardava il mondo delle fanfiction.

Andrew, dal canto suo, non vedeva cosa ci fosse di così interessante in una discussione del genere. Lui non era amante della normale lettura, figuriamoci se si metteva a leggere lavori di autori anonimi, molte volte anche più piccoli di lui, con forme lessicali raramente decenti e più spesso decisamente vergognose.

E sì, ci aveva provato per decretare una cosa simile. Per fare contenta una ragazza aveva provato a leggere ciò che scriveva, con il risultato di aver peggiorato la sua già poco sviluppata propensione alla parola scritta.

Rimase a guardare il topic per qualche istante, indeciso se mettersi o no a leggiucchiare qualcosa di ciò che era stato detto. Quella discussione contava una cosa come venti pagine di botta e risposta, e a meno che non fossero tutte robette da due righe ciascuna, leggerle tutte non era nemmeno da prendere in considerazione.

Fu la curiosità che lo spinse, in definitiva. Solamente perché una persona in vista, se vuole mantenere la visibilità sociale (che lui francamente aveva fin troppo), deve quantomeno sapere di cosa si parla negli ambienti che frequenta; per ciò che lo riguardava, il calcio in primis.

Lesse il primo post, abbastanza lungo, in cui una ragazza della squadra femminile delle superiori parlava di una fanfic che, a quanto sembrava, stava spopolando nel settore. Gli sfuggì il titolo, a dire la verità, ma continuò comunque a leggere la spiegazione senza scomodarsi a cercarlo.

Non lo sorprendeva il fatto che una femmina andasse matta per una storia d’amore. Assolutamente no. Era uno degli assoluti della sua vita (e forse della vita di tutti): storia d’amore = letture prettamente femminili.

Quello che lo lasciava interdetto, se piacevolmente o meno non gli era dato comprenderlo, era che ne tesseva le lodi ad un livello tale che sembrava come assuefatta dalle parole che uscivano dalle mani - e dalla testa - di quella persona.

Preso dalla voglia di capire, continuò la lettura. E ne venne fuori che quella fanfic, così come quel particolare autore, era seguita e/o adorata non solo da lettrici, ma anche da lettori. E, colpo di scena, almeno quattro delle risposte provenivano da persone che giocavano nella sua stessa squadra. Ma soprattutto, uno di loro era il suo capitano, che si diceva un fan dell’autore in questione.

A dir poco stravolto, staccò gli occhi dallo schermo e li fissò su un punto qualsiasi della stanza. Erano troppi colpi di scena in una sera, aveva la sensazione che le sue coronarie non avrebbero retto una parola di più.

Per evitarsi altre sviolinate, tornò alla prima pagina e andò a recuperarsi il nome dell’autore.

Sakurai.

Rimase qualche istante in pensierosa contemplazione di quelle sette lettere. Non gli dicevano niente, il nulla più assoluto.

Era anche vero che lui e Internet non erano esattamente come due fili di canapa intrecciati, certo... ma i suoi viaggi ogni tanto se li faceva pure, in Rete, e non aveva mai sentito parlare di nessun “Sakurai”.

Beh; in casi come questi, bisognava chiedere agli esperti.

“Ehi fratello” scrisse dunque sulla finestra msn di Ben: “sai qualcosa di un certo Sakurai?” domandò.

Quando non giocava a Football Ben era perennemente su internet. Aveva sviluppato un attaccamento ai giochi di ruolo on-line che rasentava il ridicolo, dal suo punto di vista, e per questo era quasi sempre super informato su persone e avvenimenti. Se la Rete ne parlava, Ben lo sapeva.

Di fatti, la risposta non fu deludente anche se giusto un po’ criptica: “se parli del Sakurai di Ragnarok, lo conoscono tutti” scrisse.

Andrew aggrottò le sopracciglia, fissando lo schermo LCD del portatile come se ci fosse sopra un testo in babilonese antico. “Prendi, per esempio, che una persona non sappia cosa sia Ragnarok...” digitò poi, lasciando in sospeso e aspettando la replica.

“Cristo Andy, ma dove vivi?” si vide rispondere, e la frase che disse a mezza voce (« nella realtà, tipo ») gli provenne proprio dal profondo del cuore e con tutto l’affetto che sentiva per Ben quando si esprimeva in certe uscite. Decise di sorvolare, chiedendo semplicemente spiegazioni.

“E’ un gioco di ruolo on-line” - chissà perché non aveva dubbi – “e se il Sakurai che dici tu è lo stesso che conosco io, è un fottuto genio. Possiede uno dei personaggi più forti di tutto il gioco; è un livello 78, Cristo santo! La gente comune ci mette delle ere geologiche intere solo a superare il livello 50!” esclamò, cominciando a riempire di punti esclamativi ogni frase.

Si stava facendo prendere. Ovvio, parla di giochi da computer e Benedict si trasformerà in uno che mangia latte e manuali di strategia, a colazione.

Sospirò, interrompendo il fiume di spiegazioni che sicuramente l’altro era in procinto di scrivere dall’altra parte: “dunque questo è tipo una di divinità dei giochi di ruolo” ipotizzò.

“ Una sorta” affermò Ben: “però non si sa niente di quel player, niente di niente di niente. Né se sia uomo o donna, quanti anni abbia, dove abiti o di che nazionalità sia. Il buio” rivelò, attirando l’attenzione di Andrew come la calamita attira un pezzo di ferro.

Poco prima, nei topic stracolmi di complimenti, ci si rivolgeva sempre a Sakurai come se fosse una “lei”. Ben gli stava dicendo, invece, che nell’ambiente dei MMORPG(*1) il pensiero comune era che fosse un “lui”.

Chi accidenti era, allora, Sakurai?

Ignorò la finestra msn di Ben continuare ad illuminarsi ad intermittenza, e tornando alla pagina principale di Google lanciò una ricerca con il nome “Sakurai”. Vennero fuori un sacco di nomi giapponesi, probabilmente di qualche personaggio di quei fumetti che si leggono al contrario... i manga, ecco; ma ciò che attirò la sua attenzione fu un link in terza pagina che rimandava ad un forum dedicato a Dungeons and Dragons.

E scoprì che Sakurai, maschio o femmina che fosse, aveva le mani in pasta anche nei semplici giochi da tavolo. Questa volta però non come giocatore: alcuni suoi disegni erano stato utilizzati come basi per le illustrazioni dei manuali di gioco di D&D.

Rimase del tutto colpito dal profilo che a seconda dei contesti si faceva di quella persona. La Rete era piena zeppa di informazioni su di lei - o lui - se si sapeva dove guardare, ma ogni cosa che veniva detta non superava mai il livello di semplice supposizione.

Di Sakurai, in definitiva, si sapeva tutto e non si sapeva niente.

Lo irritava.

Tutte quelle ipotesi, tutte quelle voci sparse per la rete, tutte quelle parole di profonda ammirazione per qualunque cosa quel Sakurai facesse... gli stuzzicavano i nervi, giocandoci, e in cuor suo non sapeva nemmeno per quale motivo.

Cosa aveva di speciale? Cosa c’era di così particolare? Era forse l’aura di mistero che circondava quel misero nickname a mandare tutti i brodo di giuggiole a quel modo?

Si sentiva forse inferiore? Ma inferiore a chi? Ad un nome, senza nemmeno essere poi tanto sicuro che quella persona fosse o meno una persona? Inferiore perché?!

Strinse i pugni al fianco della tastiera del portatile, tornando velocemente sul forum sportivo per riuscire a recuperare il link di quella fanfic “fantastica”, a detta di tutti.

L’avrebbe letta. Oh sì. Avrebbe aperto la pagina, si sarebbe annoiato appena finito il primo capitolo e avrebbe dimostrato che Sakurai non era niente di così speciale. Avrebbe messo in chiaro che “Unseen” – questo era il titolo della fanfic  in questione – non era meritevole né più né meno di quelle altre poche che gli era capitato di sfogliare molto tempo prima.

E così fece.

 

I numeri digitali dell’orologio di Windows variarono allo scadere del minuto, scoccando le cinque del mattino.

Andrew deglutì, portandosi una mano alla bocca. Incapace di formulare un pensiero che fosse anche solo lontanamente coerente, lasciò che il suo sguardo si perdesse nello spazio bianco fra la conclusione e le note di chiusura del capitolo che aveva appena terminato avidamente di leggere.

A occhi sgranati e bocca socchiusa davanti al monitor del computer, aveva appena letto l’ultima frase del quindicesimo capitolo, l’ultimo pubblicato, di “Unseen”.

 

 

 

 

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*1: MMORPG, ovvero “Massive Multiplayer Online Role Playing Game”; sono giochi di ruolo giocati on-line, solitamente a pagamento di un abbonamento. I più famosi, di cui uno è citato nel testo, sono sicuramente World of Warcraft (WoW) e Ragnarok Online (RO).

   
 
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