Fanfic
del genere “continuiamo a scrivere altro invece di continuare quello che
da scrivere avremo già”. Puramente senza pretese, solo per
divertirmi.
Il
fatto che io abbia cominciato questo lavoro, si deve tutto ad un film
d’animazione che mi è capitato di vedere la settimana scorsa e da
cui ho tratto una consistente ispirazione. Il titolo è “Summer
Wars”, e consiglio a tutti di vederlo.
Faccio
inoltre una piccola precisazione sul titolo. Sono consapevole che “Sakura
Wars” è anche il nome di un manga/anime, ma sappiate che con esso
non centra niente XD semplicemente, mi sembrava il titolo più azzeccato
per la trama che questa sorta di lavoro svilupperà in seguito.
Ah,
e non stupitevi se l’introduzione è noiosa. Purtroppo lo sono
tutte, suppongo.
Desclaimer: tutti i personaggi
di questa fanfic sono stati inventati dalla sottoscritta, sono perciò di
mia proprietà. Ogni riferimento a fatti e/o persone realmente esistite o
esistenti è puramente casuale.
Si
ringrazia Shichan per il betaggio <3
A
coloro che si voglio avventurare, buona lettura!
______________________________________________________________________________________________________
Prefazione
Legge
della perversità della Natura:
Non si può prevedere con
successo
quale lato del pane andrebbe imburrato.
Corollario
di Jenning:
Le probabilità che il pane
cada sul lato imburrato
sono direttamente proporzionali al
valore del tappeto.
[Arthur
Bloch; La Legge di Murphy (vol.1)]
Nella
sua personale classifica dei “giorni in cui farei volentieri
altro”, il martedì occupava sicuramente il primo posto su sette.
Motivazioni?
Diverse. La più importante? Le quattro ore ininterrotte, e specifichiamo
mattutine, di analisi fattoriale che
si era beccato come pacchetto regalo per avere scelto una facoltà come
Matematica alla Cleveland University.
Certo,
c’era entrato con una sonora borsa di studio per meriti sportivi, e
avrebbe fatto meglio a spegnere il cervello e smettere di lamentarsi per la
grazia ricevuta che gli permetteva di non pagare la retta... ma quattro ore con
il professor Wilson, che dire anziano era scherzarci sopra con leggerezza,
avrebbero probabilmente portato al suicidio anche un praticante eremita sulla
via del Nirvana.
Fu
solo per scrupolo, infatti, che alzò per un istante gli occhi azzurri
dal foglio a quadretti alla lavagna piena di numeri e calcoli. Il suo cervello
ci mise poco per capire a che punto del problema il vegliardo era arrivato e,
compreso che aveva ancora circa cinque minuti per tirare il fiato,
ritornò a concentrarsi sugli affari suoi.
Non
era sua abitudine finire i problemi prima del professore, davvero. Sul serio.
Dai... Wilson era praticamente con un piede nella fossa (facciamo con entrambi...)
ed era lento, per questo lui riusciva ad applicare il teorema prima
dell’insegnante. Pura fortuna, pura fortuna!
Peccato
che non ci credesse nessuno. Nemmeno lui.
Sospirò
sommessamente, appoggiando il gomito sinistro al banco e la testa sulla
relativa mano. Con sguardo schifato, poi, guardò assottigliando gli
occhi le varie cifre numeriche ordinatamente scritte sul suo quaderno... e si
diede dell’imbecille.
Probabilmente
sarebbe entrato con una borsa di studio anche senza il suo talento nel calcio.
Era quella la considerazione che lo mandava in bestia più di tutti i
problemi che un adolescente americano medio poteva avere durante la propria
vita.
Schifosa
Matematica.
« Signor Collins! » si sentì
improvvisamente chiamare, e come un macigno percepì l’attenzione
di tutti i frequentanti del corso concentrarsi su di un unico punto: la sua
schiena.
« Sì? » rispose dunque al
professore, rimettendosi diritto con movimenti lenti e calcolati.
Osservò l’insegnante guardarlo con un ghigno, poi indicare la
lavagna con la mano rugosa. « Dato che sembra così interessato a
questa lezione, potrebbe cortesemente dirmi la soluzione al problema? » domandò con
tono furbo, picchiettando con la nocca sulla superficie verde.
La
sua mente rispose per lui. 6∏r/x-2. Aveva trovato quella soluzione quasi
venti minuti prima, dopotutto.
« Mi spiace
professore, ero distratto e non ho seguito » rispose però, portandosi la
mano dietro la nuca e ridacchiando sommessamente. Dal resto della classe si
levò una risatina.
Vide
Wilson sospirare rassegnato, portando la stessa mano sporca di polvere di gesso
ai capelli altrettanto bianchi: « signor Collins, smetta di pensare a
palloni da calcio e stia attento, per cortesia. La borsa di studio non sta in
piedi da sola, lo sa? » lo redarguì,
per poi tornare con calma al calcolo dell’ultima equazione.
Andrew
Collins, diciannove anni compiuti in ritardo rispetto al resto dei coetanei,
ridacchiò a sua volta e tornò con gli occhi sul quaderno.
Ignorò alla grande un ciuffo castano scuro che aveva avuto il coraggio
di scivolargli davanti al naso, provvedendo a scribacchiare per finta qualche
numero finché ognuno degli sguardi non fu tornato al proprio posto verso
la cattedra.
Non
gli ci volle molto sforzo per riassumere la posizione precedente e perdersi
nuovamente fra le pieghe di pensieri inconcludenti. Anzi, forse sarebbe stato
meglio definirli di “autonegazione”.
Già...
probabilmente non sarebbe stato capace di definire numericamente per quanto
tempo si era ripetuto in testa il mantra “non sono un secchione”.
Così tanto e tanto a lungo, che il solo pensare quelle parole gli faceva
passare la fame.
Aveva
sempre pensato che la capacità di fare lunghi calcoli a mente e capire
facilmente il funzionamento di un calorifero, o di un computer, non fosse
qualcosa che aveva imparato a scuola. Lui non stava nemmeno a sentire quello
che gli insegnanti blateravano, a scuola.
Doveva
essere per forza qualcosa che suo padre, ragioniere che coi numeri ci aveva
avuto a che fare per una vita intera, doveva avergli passato tramite
eredità genetica.
Una
cosa impossibile, a sentire dalla sua ex professoressa di Biologia delle
superiori... ma la speranza era l’ultima a morire in ogni caso.
Lui
non voleva essere un fottuto secchione.
La
fatidica frase “ci vediamo giovedì” che Wilson
pronunciò poco dopo fu la sua ancora di salvezza dall’essere,
probabilmente, ripreso di nuovo. Sorrise soddisfatto della fine della tortura,
stiracchiandosi per bene prima di alzarsi e rimettere con la dovuta calma del
caso tutta la roba all’interno della borsa. Le prossime due ore buche la
dicevano lunga su cosa avrebbe fatto: si sarebbe impegnato in un lussurioso
giro del campus in cerca dell’ultima ragazza che gli aveva attaccato
pezza alla festa del sabato precedente. Non era male, e con l’aiuto degli
insegnamenti del maestro Giacomo Casanova sarebbe caduta ai suoi piedi in meno
di una settimana.
Anche
se, in realtà, cominciava a pensare che la sua fama lo precedesse, e che
le ragazze si presentassero da lui con la ferma intenzione di togliersi la
biancheria intima non appena possibile.
Bah,
donne. Ancora non trovava possibile che alcuni ragazzi le definissero “di
una razza a parte”. Era così facile trattare con loro!
Si
diresse fischiettando all’uscita dell’aula, borsa in spalla,
diretto al campus davanti all’edificio centrale.
Ultimamente,
dato l’autunno decisamente mite che sembravano avere quell’anno,
parecchi studenti approfittavano degli ultimi raggi di sole per passare un
pomeriggio bazzicando all’aperto.
Bene,
era deciso: giardino del campus!
« Dove credi di
andare, punta di diamante? » sentì però da un angolo
infimo e nascosto alle sue spalle, e solo al suono di quella voce i suoi
gradevolissimi programmi per la pausa pranzo andarono a farsi benedire
amabilmente. Sì, anche quelli (soprattutto
quelli) che prendevano in considerazione una serrata lavorazione della ragazza
sopracitata.
Chiuse
gli occhi, mordendosi il labbro inferiore e dandosi al contempo del cretino.
Com’era possibile che si facesse incastrare ogni volta in quel modo da
babbeo rincoglionito, come?!
« Ah, capitano... » bofonchiò
poi, girandosi. « Io dove vado? Ma
ovviamente al campo di allenamento, no? Dobbiamo preparare gli schemi per la
prossima partita, non mi sono mica dimenticato! » cercò di
rimediare in extremis, rendendosi però conto di essere più che
altro ridicolo in quella farsa mal recitata.
Mike
Connors, terzo anno di Biologia, lo guardò dall’alto del suo metro
e novanta con la faccia di uno che non solo non credeva ad una parola di quello
che si sentiva dire, ma aveva anche visto al di là di ogni possibile
cazzata che ti saresti inventato pur di avere la pausa pranzo libera da
impegni. Soprattutto se questi “impegni” consistevano nel chiudersi
con il proprio capitano negli spogliatoi maschili del campo di calcio a
disegnare omini e lineette su di una lavagna a pennarello.
Il
che, permettete, confrontato con la visione di dieci ragazze piene di buone
intenzioni che ti fanno una corte spietata non è la maggior aspirazione
di nessun teenager con la sindrome dell’ormone scattante.
Mike
ghignò, trapassandolo completamente con quei suoi maledetti occhi color
oltremare. « Impara a mentire in
modo decente e forse ti riconoscerò qualcosa che valga, oltre il tuo
talento nel calcio » si riservò
di dirgli: « e ora in marcia,
altrimenti mi sentirò libero di suggerire al coach una decina in
più di giri di campo » minacciò, nascondendo quella stessa
minaccia sotto un sorriso da finto angelo.
Maledetto.
Era in occasioni come quella che Andrew capiva come l’altro fosse diventato
capitano già dal primo anno di corso. Era un mafioso, ecco la
verità. Una cosa come il Padrino;
gli mancava solo il gessato, il cappello a testa larga e l’accento
siculo-americano.
« Allora Collins,
come vanno le lezioni? » domandò Mike
mentre si avviavano verso l’uscita nord, in direzione dei campi sportivi
dietro il complesso universitario.
« Insomma » rispose Andrew,
portandosi le braccia dietro la testa a mo di cuscino: « diciamo che riesco
a stare al passo, ecco tutto. Anche se credo che Wilson mi odi, la sua voce mi
induce follemente alla disattenzione » aggiunse, sorridendo
rassegnatamente.
A
dire il vero si distraeva perché non aveva letteralmente niente da fare,
ma erano dettagli trascurabili per la sua sanità mentale... e per la sua
immagine sociale.
« Normale, quello
farebbe addormentare anche un assiduo della caffeina » rispose
l’altro, per poi aggiungere: « ma non sarà troppo difficile
Matematica? Solitamente quelli che entrano con una borsa di studio per meriti
sportivi scelgono materie più facili » buttò lì, osservandolo
per traverso facendo amabilmente finta che la domanda fosse del tutto
disinteressata.
Si
vedeva lontano un miglio, però, che i suoi occhi dallo stranissimo color
azzurro-grigio erano più interessanti del solito alla risposta.
Andrew
aveva sempre ammesso a tutti che la sua era stata una scelta dettata dalla
famiglia, quando chiedevano. A dire il vero, suo padre e sua madre non
c’entravano assolutamente niente. Aveva scelto quella facoltà per
il semplice motivo che, secondo lui, era effettivamente
la più facile.
Anche
se, agli altri come a sé stesso, non lo avrebbe ammesso mai.
« Mio padre è
un fan del calcolo numerico » rispose infatti, cancellando dalla mente
la prima possibilità di risposta che prevedeva un “io la trovo fattibile”.
« Ah, capisco... » si limitò
ribattere Mike, scostandosi dagli occhi un ciuffo biondo di capelli lisci come
seta.
Andrew
sospirò sommessamente. L’aveva scampata per l’ennesima
volta.
La
sua fama era ancora salva.
Tre
fischi si alzarono da centro campo, determinando la fine della breve partita di
fine allenamento.
«
Bell’allenamento ragazzi! » urlò il mister una volta che
l’ultimo fischio si fu spento nell’aria: « andate a cambiarvi
e sparite, non voglio vedervi prima di domani! » ironizzò
poi, dando finalmente il via libera ai suoi esausti giocatori di sperare in una
cena e in un letto morbido pronti a raccogliere le loro stanche membra.
Andrew,
dal canto suo, si sentiva praticamente sfinito. Non era una cosa comune, di
solito; aveva sempre avuto una buona resistenza per gli allenamenti di calcio.
Ma quella sera il mister ci era andato particolarmente pesante, e non voleva
assolutamente attribuire la scelta dei cinquanta giri di campo ad una parola di
troppo di Mike.
Passandosi
la mano fra i capelli fradici di sudore, osservò di sottecchi il biondo
poco distante, intento a parlare con una ragazza alla ringhiera delle tribune.
Carina,
considerò. Doveva essere per forza la sua tipa.
Se
non fosse stato che, per regola personale, non ci provava con le ragazze degli
altri (a meno che non fossero state loro a provarci con lui) ci avrebbe anche
fatto un pensiero sopra.
Anzi,
no, considerò subito dopo. Non ci avrebbe provato con l’eventuale
ragazza di Mike Connors nemmeno sotto tortura. Avrebbe potuto comparirgli in
camera dall’ombra puntandogli un mitra alla tempia.
« Ehi Collins! » si sentì
chiamare dalle spalle, e non poté evitare che quel treno merci di Jake
lo investisse in tutta la sua infinita voglia di fare casino. « Scoop, bello!
Scoop! » gli urlò nell’orecchio,
e nemmeno a dirlo rischiò di perdere il timpano.
Jake
non era un cattivo ragazzo, anzi. Era una di quelle persone che sembrano nate
per tramutarsi in un personaggio di Walt Disney da un momento all’altro.
Non lo aveva mai visto arrabbiato, triste o anche solo un po’
malinconico... e dire che avevano frequentato le stesse scuole superiori e
giocavano nella stessa squadra da allora. Insomma, di tempo ne aveva avuto per
conoscerlo.
No,
Jake era uno che aveva sempre stampato in faccia un sorriso strafottente da
persona fin troppo felice, per stare a badare le piccolezze del mondo.
Chissà,
magari era un illuminato del Nirvana in incognito. Oppure faceva uso di
sostanze stupefacenti.
« Jake, ti sarei
grato se mi lasciassi portare l’udito fino alla vecchiaia. Sono quasi
convinto che potrebbe servirmi per un’altra cinquantina d’anni » scherzò
appena, dandogli una lieve gomitata nelle costole mentre l’altro,
immancabilmente ridendo, gli circondava le spalle con il braccio.
Nei
suoi due centimetri di altezza con cui lo superava, Jake era l’unico che
riuscisse a lasciargli almeno un briciolo di buon umore dopo il massacro
spartano che il loro coach faceva passare per “allenamento”.
« Le sai le
novità? » cominciò poi
l’altro, parlando con un tono decisamente più basso: « pare che prima
della prima partita di campionato affronteremo in amichevole gli Sharks » gli rivelò,
ridacchiando furbescamente subito dopo.
« Stai scherzando? » ribatté
Andrew incuriosito, tenendo il tono basso a sua volta. « Non sono quelli che
l’hanno suonata di santa ragione alla squadra dell’anno scorso? ».
«
Eeeeeeeeesattamente! » gongolò
Jake, indicando con un cenno del capo l’allenatore e Mike parlottare fra
loro: « li ho sentiti
parlare nello spogliatoio prima dell’allenamento. Stanno pensando di
tenerti come punta per il secondo tempo, così che gli Squali avranno una
bella sorpresina in attacco » spiegò velocemente ciò che
aveva sentito, aprendo poi la porta dello stesso spogliatoio.
L’interno,
una volta che i giocatori cominciavano ad entrare in doccia, diventava una
sottospecie di sauna. E non era nemmeno da dire che le grida sboccate che
provenivano dalle docce coprivano molto bene le loro cospirazioni.
« Sul serio Jake » si ritrovò a
dire Andrew togliendosi la maglietta con il numero nove e mettendola nei cesti
per la lavanderia: « dovresti piantarla
di origliare, se ti becca il coach ti stacca le braccia a forza di flessioni » aggiunse,
osservando l’altro con un sopracciglio sollevato.
« Nah, non mi
beccheranno mai, sono troppo bravo » gli rispose Jake, battendosi la mano
destra sul petto snello. Si tolse a sua volta la numero tre, facendola volare
nel cesto insieme a tutte le altre maglie; sciolse poi l’elastico che
teneva fermi i capelli scuri, che ricaddero spettinati e sudati a sfiorare le
spalle nude.
« Se lo dici tu... » fece spallucce
Andrew, legandosi l’asciugamano in vita ed entrando nel locale delle
docce insieme al compagno.
Per
un pelo scansò, e fece scansare anche a Jake, una saponetta volante che
aveva tutta l’intenzione di volergli rompere il naso. Urlò
qualcosa a chi l’aveva lanciata, che gli rispose con una sonora
linguaccia, per poi dirigersi nel suo solito cubicolo e aprire l’acqua.
Il
sollievo fu istantaneo. Gli sembrò che tutti i muscoli prima tesi si
stessero pian piano distendendo, e non seppe quantificare per quanti istanti
rimase immobile sotto il getto nel tentativo di isolare il mondo da sé.
Tentativo
che durò molto poco, in realtà.
« Ehi Collins, hai
dato un’occhiata al forum di squadra ultimamente? » gli chiese qualcuno
da qualche parte della stanza, che ovviamente Andrew non si diede pena di
guardare direttamente. Stare immobile in quella posizione era troppo
rilassante...
« No, non ci vado da
un po’ » rispose dunque
tenendo gli occhi chiusi, riservandosi di prendere a tentoni la bottiglia di
bagnoschiuma per versarsene un po’ sulla mano. Cominciò a
massaggiarsi energicamente i capelli, creando una piccola massa di schiuma dopo
solo due passate.
« Facci un salto
questa sera, ti sei perso il meglio delle chiacchiere »
« Certo, sempre che
mister playboy non sia occupato a portare fuori a cena la sua seicentomillesima
ragazza! »
« Secondo me fra poco
comincerà ad uscire anche con tua nonna, O’Connor! »
« Ehi! »
« E piantatela, non
sono così disperato! » si sentì in dovere di intervenire
Andrew, facendo scoppiare a ridere l’intera squadra.
Rise
a sua volta, riservandosi finalmente di riaprire gli occhi sul mondo.
« Dico sul serio
Collins » intervenne poi Jeremy
dal cubicolo a fianco: « sei entrato tu in
questo fottuto college, e a tutte le femmine paiono esplosi gli ormoni. Sei un
cazzo di culone, te lo ha mai detto nessuno? » domandò
retoricamente, appoggiandosi con le braccia al muretto in piastrelle bianche che
separava un cubicolo dall’altro.
Fortuna?
Mah, era solo logica.
« Nessuno nelle
ultime ventiquattrore, ma comunque sì, lo so » rispose lui
vantandosi per finta, chiudendo l’acqua e recuperando
l’asciugamano. Si asciugò innanzi tutto la faccia, passando poi
alle braccia e al petto.
« Spiegami come fai! » si lamentò
al contempo Jake, chiudendo l’acqua a sua volta: « quelle sono alieni,
esseri intrattabili! Sembra di parlare una lingua diversa quando ti avvicini a
loro! » brontolò
scontento, beccandosi quasi subito una saponetta in faccia unita ad un « non paragonarci a
te, sfigato! » arrivato dalla
direzione di O’Connor.
Andrew
rise, frizionandosi i capelli con forza. « Non è difficile » rivelò poi,
legandosi l’asciugamano in vita: « basta avere occhi solo per loro.
Complimentatevi per i vestiti, il trucco, i capelli... anche se non ci capite
niente, fatelo comunque. La maggior parte è abbastanza vanitosa per
sciogliersi in brodo di giuggiole » rivelò il suo “trucco
del mestiere”, anche se lui pensava in effetti che fosse solamente buon
senso.
Ovvio
che se si voleva rimorchiare la base era complimentarsi.
Qualcuno
commentò, ma lui non rimase lì ad ascoltare. Un’occhiata
all’ora gli fece capire che non aveva molto tempo per stare a parlare del
suo mestiere preferito.
Sua
madre era una persona che teneva alle tradizioni; se non tornava a casa per
cena, erano guai.
Una
cosa di cui non avrebbe mai smesso di ringraziare il fato, era di averlo fatto
nascere da una donna che amava cucinare e lo faceva pure bene.
Certo,
c’erano i lati negativi nella figura di sua madre: odiava i ritardi e
quando litigavano era capace di non rivolgergli la parola per svariate
settimane, ma almeno se era di buon umore creava cene a dir poco luculliane a
base di tutti i suoi piatti preferiti. E chissà perché, aveva
notato Andrew ad un certo punto, prima di partite importanti sembrava portata
ad aumentare il quantitativo di roba cucinata.
Probabilmente
aveva ricevuto notizia della vicina amichevole con gli Sharks.
Rebecca
Wisely in Collins era professoressa di Letteratura alla scuola superiore di
Eastlake. Prendeva il treno tutte le mattine molto presto e tornava nel primo
pomeriggio, eppure aveva una tale organizzazione lavorativa che trovava il
tempo di pulire la casa, fare la spesa, cucinare e correggere una cinquantina
di compiti nel giro di due o tre ore. Era una capacità che Andrew le
invidiava spesso e volentieri.
Aveva
sposato suo padre, Nick Collins, quando era ancora un semplice impiegato in una
piccola azienda di import-export; di cui poi era diventato primo ragioniere e
vicepresidente. Ora quell’azienda era una delle principali compagnie di
esportazione del pescato di tutto l’Ohio.
Doveva
ammettere che la sua famiglia non era poi così male, dopotutto.
Rientrò
in camera verso le nove e mezza, dopo una doccia rigenerante e un altrettanto
apprezzato bicchiere di aranciata. Si stiracchiò ben bene, si
infilò i pantaloni della tuta da casa e una maglietta a mezze maniche
con lo stemma dell’università, poi si premurò di sedersi
finalmente alla scrivania.
Teoricamente
avrebbe dovuto dare un’occhiata a qualche funzione, giusto per prepararsi
un po’ in anticipo al test del mese successivo. Considerò le varie
opportunità: erano le nove e mezza, e lui sarebbe crollato di sonno
massimo a mezzanotte, come ogni sera. Il che voleva dire che aveva all’incirca
due ore e mezza di tempo per fare qualsiasi cosa avesse in testa di fare.
Pensieroso,
osservò il pc. No, di studiare non ne aveva voglia neanche di striscio.
E poi, suvvia, lui non era mai stato puntuale nelle consegne nemmeno alle
elementari; se non studiava tutto gli ultimi due giorni non poteva definirsi un
vero Collins!
Motivo
per cui scartò anche solo l’idea di aprire lo zaino, accendendo
invece il notebook e collegando ad esso il filo del modem. Aspettò la
carica e poi, finalmente, si connesse ad internet.
Prima
diede un’occhiata a Facebook, impiegando qualche minuto a leggere i vari
messaggi che gli avevano lasciato e a dare una controllata alle sempre troppe
richieste di amicizia. A parte quella di qualche ragazza che ricordava di avere
incrociato nei corridoio della facoltà, tutte le altre erano da parte di
sconosciuti.
Le
accettò tutte comunque.
Una
volta terminato lasciò aperta la pagina, attivando Messenger. Dei suoi
quasi cento contatti ne erano in linea una marea, ma era una di quelle serate
in cui gli tirava pesantemente chiacchierare con chicchessia; così si
mise occupato, scrisse come messaggio istantaneo un vago “contatto
io”, e scorse l’elenco dei nomi fino a trovare quello che
interessava a lui. Cliccò due volte sul nick “illustre e
indiscusso re del Football ~ Ben the Ripper” (ma un nickname meno pietoso
no?!) e scrisse un “’sera bro” ignorando lo stato “non
al computer” che l’altro sembrava essersi messo. Col cavolo che non
era al computer, era una finta: se Benedict veramente non era piantato davanti
allo schermo non si sarebbe disturbato di tenere aperto msn.
Infatti
gli rispose in pochissimo, esordendo con un “ehi fratellino! Come
butta?”.
Ancora
con questa mania...
“Quando
la smetterai di darmi del moccioso, Ben?” rispose subito, digitando a
media velocità per la poca abitudine che aveva di scrivere a tastiera.
Attese
qualche istante, poi lesse a bassa voce la successiva risposta: « “mai, io ho
sempre e comunque un anno in più di te”. Maledetto...! » sghignazzò,
rispondendogli una parolaccia a caso in tono scherzoso e riducendo per un
secondo la finestra di conversazione.
Benedict,
detto “Big Ben”, era il suo migliore amico da quando ne aveva
memoria. Avevano sempre abitato l’uno accanto all’altro, avevano
frequentato le stesse scuole fino al liceo e le loro due mamme erano migliori
amiche a loro volta dai tempi del college. Le finestra della sua stanza era di
fronte a quella di Ben, così che aveva letteralmente passato
l’infanzia condividendo con l’altro qualsiasi cosa.
Tanto
che erano divenuti fratelli, e così ancora si chiamavano.
Successivamente,
però, Ben era diventato un giocatore di football professionista, e con
le varie turnee della sua squadra non avevano più la possibilità
di vedersi come un tempo.
Tornò
su internet e, con una piccola ricerca su Google, seguì ciò che i
compagni di squadra gli avevano consigliato nemmeno qualche ora prima.
Il
forum della squadra dell’Università di Cleveland era una sezione
di un altro foro molto più ampio, dedicato a tutte le squadre sportive
che rappresentavano la città e le varie scuole nelle più
disparate discipline. Ogni sport praticato aveva la sua sezione, e non era raro
che più squadre facessero parte di una stessa area.
La
conseguenza più intuibile, date le premesse, era quella di avere
argomentazioni di cui discutere talmente varie da sfiorare l’assurdo.
Uno
dei topic più in voga al momento (soprattutto per le squadre femminili,
a quanto vedeva dai nicknames dei partecipanti) riguardava il mondo delle
fanfiction.
Andrew,
dal canto suo, non vedeva cosa ci fosse di così interessante in una
discussione del genere. Lui non era amante della normale lettura, figuriamoci
se si metteva a leggere lavori di autori anonimi, molte volte anche più
piccoli di lui, con forme lessicali raramente decenti e più spesso
decisamente vergognose.
E
sì, ci aveva provato per decretare una cosa simile. Per fare contenta
una ragazza aveva provato a leggere ciò che scriveva, con il risultato
di aver peggiorato la sua già poco sviluppata propensione alla parola scritta.
Rimase
a guardare il topic per qualche istante, indeciso se mettersi o no a
leggiucchiare qualcosa di ciò che era stato detto. Quella discussione
contava una cosa come venti pagine di botta e risposta, e a meno che non
fossero tutte robette da due righe ciascuna, leggerle tutte non era nemmeno da
prendere in considerazione.
Fu
la curiosità che lo spinse, in definitiva. Solamente perché una
persona in vista, se vuole mantenere la visibilità sociale (che lui
francamente aveva fin troppo), deve quantomeno sapere di cosa si parla negli
ambienti che frequenta; per ciò che lo riguardava, il calcio in primis.
Lesse
il primo post, abbastanza lungo, in cui una ragazza della squadra femminile
delle superiori parlava di una fanfic che, a quanto sembrava, stava spopolando
nel settore. Gli sfuggì il titolo, a dire la verità, ma
continuò comunque a leggere la spiegazione senza scomodarsi a cercarlo.
Non
lo sorprendeva il fatto che una femmina andasse matta per una storia
d’amore. Assolutamente no. Era uno degli assoluti della sua vita (e forse
della vita di tutti): storia d’amore = letture prettamente femminili.
Quello
che lo lasciava interdetto, se piacevolmente o meno non gli era dato
comprenderlo, era che ne tesseva le lodi ad un livello tale che sembrava come
assuefatta dalle parole che uscivano dalle mani - e dalla testa - di quella
persona.
Preso
dalla voglia di capire, continuò la lettura. E ne venne fuori che quella
fanfic, così come quel particolare autore, era seguita e/o adorata non
solo da lettrici, ma anche da lettori. E, colpo di scena, almeno quattro delle
risposte provenivano da persone che giocavano nella sua stessa squadra. Ma soprattutto, uno di loro era il suo capitano, che si diceva un fan dell’autore in questione.
A
dir poco stravolto, staccò gli occhi dallo schermo e li fissò su
un punto qualsiasi della stanza. Erano troppi colpi di scena in una sera, aveva
la sensazione che le sue coronarie non avrebbero retto una parola di
più.
Per
evitarsi altre sviolinate, tornò alla prima pagina e andò a recuperarsi
il nome dell’autore.
Sakurai.
Rimase
qualche istante in pensierosa contemplazione di quelle sette lettere. Non gli
dicevano niente, il nulla più assoluto.
Era
anche vero che lui e Internet non erano esattamente come due fili di canapa
intrecciati, certo... ma i suoi viaggi ogni tanto se li faceva pure, in Rete, e
non aveva mai sentito parlare di nessun “Sakurai”.
Beh;
in casi come questi, bisognava chiedere agli esperti.
“Ehi
fratello” scrisse dunque sulla finestra msn di Ben: “sai qualcosa
di un certo Sakurai?” domandò.
Quando
non giocava a Football Ben era perennemente su internet. Aveva sviluppato un
attaccamento ai giochi di ruolo on-line che rasentava il ridicolo, dal suo
punto di vista, e per questo era quasi sempre super informato su persone e
avvenimenti. Se la Rete ne parlava, Ben lo sapeva.
Di
fatti, la risposta non fu deludente anche se giusto un po’ criptica:
“se parli del Sakurai di Ragnarok, lo conoscono tutti” scrisse.
Andrew
aggrottò le sopracciglia, fissando lo schermo LCD del portatile come se
ci fosse sopra un testo in babilonese antico. “Prendi, per esempio, che
una persona non sappia cosa sia Ragnarok...” digitò poi, lasciando
in sospeso e aspettando la replica.
“Cristo
Andy, ma dove vivi?” si vide rispondere, e la frase che disse a mezza
voce (« nella
realtà, tipo ») gli provenne
proprio dal profondo del cuore e con tutto l’affetto che sentiva per Ben
quando si esprimeva in certe uscite. Decise di sorvolare, chiedendo
semplicemente spiegazioni.
“E’
un gioco di ruolo on-line” - chissà perché non aveva dubbi
– “e se il Sakurai che dici tu è lo stesso che conosco io,
è un fottuto genio. Possiede uno dei personaggi più forti di
tutto il gioco; è un livello 78, Cristo santo! La gente comune ci mette
delle ere geologiche intere solo a superare il livello 50!”
esclamò, cominciando a riempire di punti esclamativi ogni frase.
Si
stava facendo prendere. Ovvio, parla di giochi da computer e Benedict si
trasformerà in uno che mangia latte e manuali di strategia, a colazione.
Sospirò,
interrompendo il fiume di spiegazioni che sicuramente l’altro era in
procinto di scrivere dall’altra parte: “dunque questo è tipo
una di divinità dei giochi di ruolo” ipotizzò.
“
Una sorta” affermò Ben: “però non si sa niente di
quel player, niente di niente di niente. Né se sia uomo o donna, quanti
anni abbia, dove abiti o di che nazionalità sia. Il buio”
rivelò, attirando l’attenzione di Andrew come la calamita attira
un pezzo di ferro.
Poco
prima, nei topic stracolmi di complimenti, ci si rivolgeva sempre a Sakurai
come se fosse una “lei”. Ben gli stava dicendo, invece, che
nell’ambiente dei MMORPG(*1) il pensiero comune era
che fosse un “lui”.
Chi
accidenti era, allora, Sakurai?
Ignorò
la finestra msn di Ben continuare ad illuminarsi ad intermittenza, e tornando alla
pagina principale di Google lanciò una ricerca con il nome
“Sakurai”. Vennero fuori un sacco di nomi giapponesi, probabilmente
di qualche personaggio di quei fumetti che si leggono al contrario... i manga,
ecco; ma ciò che attirò la sua attenzione fu un link in terza
pagina che rimandava ad un forum dedicato a Dungeons and Dragons.
E
scoprì che Sakurai, maschio o femmina che fosse, aveva le mani in pasta
anche nei semplici giochi da tavolo. Questa volta però non come
giocatore: alcuni suoi disegni erano stato utilizzati come basi per le
illustrazioni dei manuali di gioco di D&D.
Rimase
del tutto colpito dal profilo che a seconda dei contesti si faceva di quella
persona. La Rete era piena zeppa di informazioni su di lei - o lui - se si sapeva
dove guardare, ma ogni cosa che veniva detta non superava mai il livello di
semplice supposizione.
Di
Sakurai, in definitiva, si sapeva tutto e non si sapeva niente.
Lo
irritava.
Tutte
quelle ipotesi, tutte quelle voci sparse per la rete, tutte quelle parole di
profonda ammirazione per qualunque cosa quel Sakurai facesse... gli
stuzzicavano i nervi, giocandoci, e in cuor suo non sapeva nemmeno per quale
motivo.
Cosa
aveva di speciale? Cosa c’era di così particolare? Era forse
l’aura di mistero che circondava quel misero nickname a mandare tutti i
brodo di giuggiole a quel modo?
Si
sentiva forse inferiore? Ma inferiore a
chi? Ad un nome, senza nemmeno essere poi tanto sicuro che quella persona
fosse o meno una persona? Inferiore
perché?!
Strinse
i pugni al fianco della tastiera del portatile, tornando velocemente sul forum
sportivo per riuscire a recuperare il link di quella fanfic
“fantastica”, a detta di tutti.
L’avrebbe
letta. Oh sì. Avrebbe aperto la pagina, si sarebbe annoiato appena
finito il primo capitolo e avrebbe dimostrato che Sakurai non era niente di
così speciale. Avrebbe messo in chiaro che “Unseen” –
questo era il titolo della fanfic
in questione – non era meritevole né più né
meno di quelle altre poche che gli era capitato di sfogliare molto tempo prima.
E
così fece.
I
numeri digitali dell’orologio di Windows variarono allo scadere del
minuto, scoccando le cinque del mattino.
Andrew
deglutì, portandosi una mano alla bocca. Incapace di formulare un
pensiero che fosse anche solo lontanamente coerente, lasciò che il suo
sguardo si perdesse nello spazio bianco fra la conclusione e le note di
chiusura del capitolo che aveva appena terminato avidamente di leggere.
A
occhi sgranati e bocca socchiusa davanti al monitor del computer, aveva appena
letto l’ultima frase del quindicesimo capitolo, l’ultimo
pubblicato, di “Unseen”.
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*1:
MMORPG, ovvero “Massive Multiplayer Online Role Playing Game”; sono
giochi di ruolo giocati on-line, solitamente a pagamento di un abbonamento. I
più famosi, di cui uno è citato nel testo, sono sicuramente World
of Warcraft (WoW) e Ragnarok Online (RO).