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Autore: Shadowolf    18/04/2010    4 recensioni
Io c'ho provato. Sul serio. Ho scritto due capitoli di una ff NON su questi due. Ma non è colpa mia se di notte mi vengono i flash di loro due insieme...
"Grandioso, il 26! Che cavolo faccio dal 22 al 26 in Francia? E perché cavolo c’è la world premiere il 26 in Europa? Il film non doveva uscire il 7 Maggio? Che caspita..."
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tomorrow There'll Be Sunshine And All This Darkness Past'
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Il cellulare aveva preso a squillargli da qualche parte nella tasca anteriore del suo giubbotto poco dopo che aveva finito di fare la doccia, negli spogliatoi della palestra di wing chun dove si era allenato per la solita oretta e mezza quotidiana. Normalmente non porta il telefono con sé, gli dà un terribile fastidio il fatto di poter essere rintracciabile ad ogni momento, ovunque si trovi, e comunque non sa mai dove metterlo, se lo tiene nei jeans o nei pantaloni fa tutto un rigonfiamento esterno, il che è qualcosa di assai poco carino; d’altra parte, se opta per portarlo in una delle tasche della giacca, il più delle volte finisce per cadere per terra come se lo toglie, la qual cosa avviene puntualmente quando se ne va in giro (unico momento in cui in effetti lo obbligano ad avere quell’affare addosso). Ma comunque, alla fin dei conti tra una scelta antiestetica ed una che comporta la possibilità – ma notate bene, solo la possibilità! – di una caduta dell’oggetto in questione non ha mai alcun dubbio su quella per la quale optare. Via, il cellulare si tiene nella giacca.

“Has he lost his smile? Can he see or is he blind?”

Ma dove cavolo l’ho messo!? Mai una volta che lo trovi subito questo diavolo di coso!

Cerca nelle varie tasche, fa cadere qualche centesimo per terra, e nel frattempo la voce dei Black Sabbath continua ad uscire dal telefonino; gli casca anche l’asciugamano che si era appoggiato intorno alle spalle, si china per raccoglierlo con una mano mentre con l’altra cerca ancora a tentoni tra il tessuto del giubbino. Ah, ecco dove eri andato a finire, maledetto cellulare del cavolo! Legge il nome apparso sul display, fa un sorriso a mo’ di smorfia e poi risponde.

“Hope you have a very good reason to call me, Hogan.”

Sente l’altro ridacchiare al di là dell’apparecchio.

“I do, Mr. Stark. We’ve just finished to settle down the promotional tour for the movie. Pick up a pen and a post-it, write down these dates.”

“Let’s do a game instead. I just came out of shower, I got a towel ‘round my belly and I don’t see any pen here… Can you guess where I am?”

“Oh, I see, you’re in that gym, doing that boxing of yours…”

“It’s NOT boxing, it’s wing chun! I’d like to show you what difference does it take between the two of them.”

“Yeah, I’m sure you want to. Alright, I’m gonna call you again then. When are you supposed to be home?”

“Don’t know, Susan wanted to go out for dinner, you know, I’m gonna fly back in Europe tomorrow night and she wanted to spend some time with me, since she’s not gonna come along there…”

“No?”

“Nope. She’s gonna have a meeting with her studio for all that week long, so it doesn’t make any sense to her to come with me, stay just few days and then fly back here in L.A. all by herself.”

“I see… So, how are we gonna do?”

“Tell you what. It’ll take me few more minutes here, I’m gonna catch you up when I’m done. Where exactly are you right now?”

“At the studio, where the hell do you think I could be?”

“Well, you could have been in Malibu at my residence, for instance. Polishing up the chrome of my wonderful…”

“Robert, cut that out and come here.”

“Oh, c’mon, I’m not gonna cut L.A. in half just to come there, it would take me the whole afternoon! Can’t we meet in that bar in Bel-Air?”

“But I’d… Oh, never mind, you’re always the one who wins…”

“That’s why I’m Iron Man, you know.”

“Whatever. See you there in…?”

“Half an hour?”

“Alright. Bye!”

“Jon, wait a minute…”

“What else?”

“When is the world premiere?”

“It’s on… Let me check… April 26th, in…”

Bip-bip-bip. Ma che cavolo...? Si scosta il cellulare dall’orecchio, lo fissa: lo schermo è diventato tutto nero. Batteria scarica, elementare Watson. Susan glielo avrà ripetuto un centinaio di volte, di assicurarsi che quel disegnino con le tacche in alto a destra sul display sia completo, prima di uscire. Tutto inutile, è già tanto se si ricorda di portarselo dietro, figuriamoci se si deve mettere a controllare il livello di batteria...

Grandioso, il 26! Che cavolo faccio dal 22 al 26 in Francia? E perché cavolo c’è la world premiere il 26 in Europa? Il film non doveva uscire il 7 Maggio? Che caspita...

Poi una voce dentro di sé – che stranamente assomiglia a quella di Jon – si fa largo nella sua testa e gli dice: “Sai, se prestassi un po’ più di attenzione quando le persone parlano di cose che a priori reputi non interessanti, forse ti ricorderesti di una conversazione a cui eri presente anche tu in cui tra le altre cose dissi che il film sarebbe uscito una settimana prima dall’altra parte dell’oceano, così da poter sfruttare non so che festa europea che hanno da quelle zone...”. Sì, in effetti se ne era completamente scordato, ma una ragione – una buona ragione – c’era.

Era ad un party noiosissimo dato come raccolta fondi per chissà quale organizzazione, la Marvel l’aveva letteralmente pregato in ginocchio a più riprese di parteciparvi, lo vedevano come il perfetto modello di riscatto ed altre stronzate simili; lui aveva resistito finché aveva potuto, ma poi si era dovuto arrendere per mancanza di ulteriori giustificazioni valide e/o convincenti. Aveva sperato fino all’ultimo che lo annullassero, poi aveva cominciato a cercare di persuadere Susan ad accompagnarlo, ma lei (che si rompeva ancor più di lui, se possibile) gli aveva detto che avrebbe tanto voluto, ma per quella sera aveva già un impegno, doveva assolutamente partecipare alla conferenza stampa di presentazione di un film che il suo studio stava producendo a cui tutti si erano sottratti, e che no, lui non poteva andare con lei dando così buca alla serata di beneficenza perché aveva già promesso loro che ci sarebbe andato, e “i patti si mantengono in questa casa!”. Così alla fine aveva chiamato Jon e gli aveva chiesto di passare da casa sua a prenderlo, giusto per avere qualcuno con cui entrare e rimanere a parlare per il tempo stretto necessario che dovevano restare lì; sfortunatamente si era dimenticato di quanto il suo amico andasse a nozze con questo genere di feste, perciò dopo neanche dieci minuti che erano arrivati aveva cominciato a trascinarlo di gruppetto di persone in gruppetto di persone, tutta gente che lui non sopportava minimamente, troppo ricchi, troppo menefreghisti delle opinioni altrui, troppo perbenisti, troppo cattolici, troppo con la puzza sotto il naso. E loro lo guardavano di rimando e nei loro occhi era arcisicuro di poterci riconoscere quel disgusto tipico di “so-chi-sei-cosa-hai-fatto-e-non-me-ne-frega-assolutamente-niente-se-dici-di-essere-pulito-ora-rimani-un-cazzo-di-drogato”, non tuttavia senza una punta di curiosità maliziosa, quella domanda che sempre, sempre rimaneva inespressa quando qualsiasi tipo di conversazione che avevano con lui toccava quel nervo che pensavano lui potesse avere scoperto: “Come hai fatto?”. A lui non importava se avevano paura di rivolgergliela, avrebbe avuto una risposta pronta, come al solito, ma loro preferivano tacere, e così si limitava a stringere mani, sorridere, scambiare qualche banale e retorica battuta di circostanza, e poi lentamente eclissarsi, sparire dalla conversazione, fin quando Jon non la piantava, lo riprendeva sottobraccio e lo trascinava al gruppetto successivo. Doveva esser stato in una di queste simpatiche chiacchierate che, per un motivo o per l’altro, era saltato fuori prima Iron Man (ed ora, arrivato a questo punto nel filo dei suoi ricordi, riesce anche a ricordare benissimo lo sguardo investigativo e malizioso che una signora anziana con addosso circa quattro milioni di dollari in gioielli gli aveva lanciato quando Jon le aveva confidato uno dei più grandi segreti di questo mondo, e cioè che lui era Tony Stark – no, davvero, aveva detto proprio così quell’idiota) e poi, chissà perché, il discorso sulla release europea anticipata. Se ne stava un po’ in disparte, ma aveva avvertito ugualmente quei due occhi gelidi posarsi dapprima sulla sua faccia e poi scivolargli su tutto il corpo, squadrandolo da capo a piedi, ed infine, quando era diventata troppo insistente, lui aveva alzato lo sguardo e aveva incrociato quello della donna, le aveva sorriso mentre mentalmente la mandava a farsi fottere. Lo aveva fatto apposta, anche con un pizzico di cattiveria, cosa assai insolita per lui, ma il party di quella sera gli faceva ancora più schifo del solito, troppe risate, troppo rumore, troppa voglia da parte sua di non voler stare a sentire nessuno, di starsene da solo anzi, e così facendo, inevitabilmente, i suoi pensieri gira e rigira avevano trovato un porto da qualche parte ed erano finiti per approdare a...

“Hey, champ, going away?”

Alza lo sguardo dalle scarpe che si stava allacciando, era sovrappensiero e non aveva sentito arrivare il suo allenatore, la cui testa ora è per metà dentro lo spogliatoio, guardando nella sua direzione.

“Yep. I have a meeting in Bel-Air with Jon, he called me few minutes ago. I gotta hurry up or he’ll go nuts, you know him…”

Butta alla rinfusa le robe sporche nel borsone, si alza, va davanti allo specchio e si dà un’ultima controllata ai capelli, se li scombussola un po’, si gira prima verso destra e poi verso sinistra per sincerarsi che ogni cosa sul suo corpo sia in ordine; quando è soddisfatto ritorna al suo posto, ripone per bene tutte le varie creme e i diversi flaconcini ognuno al proprio posto nel suo beauty, che con estrema delicatezza viene appoggiato nel borsone proprio in cima alla montagna di vestiti, e chiude la cerniera.

“You know, everytime I see you going through all of this I think there must be something wrong deep inside you…”

“Yeah, that’s what I think of myself as well.”

Prende il giubbino di pelle dall’attaccapanni, lo indossa, afferra il cappello, torna davanti allo specchio e se lo prova in quattro o cinque posizioni diverse, prima di decidere definitivamente come metterselo; quando pensa sia a posto prende il borsone, se lo mette in spalla e si avvia verso l’uscita, oltrepassando l’altro che ancora lo tiene d’occhio.

“Has my girl finished to dress herself up for the ballroom?”

“Goodbye, sifu, see you in a couple of weeks. I’m leaving for Europe tomorrow.”

“Again!? You’re just come back!”

“This time is for an interview with a French TV and then it’s the Iron Man 2 promotional tour. Don’t miss me that much, okay? I’ll be back, I promise.”

Gli batte una pacca sulla spalla ed esce, chiudendosi la porta alle spalle; raggiunge la sua auto, la apre e mette in moto, abbassa entrambi i finestrini, poggia il braccio di lato, alza il volume della radio e prosegue ad andatura neanche troppo accelerata come suo solito verso Bel-Air, che è a soli quindici minuti di strada (traffico compreso) dalla palestra. Il vento fresco di Aprile entra nell’abitacolo, gli accarezza lievemente la pelle ancora calda di doccia, raffreddandola man mano e dandogli un’istantanea sensazione di felicità, che non sa a cosa attribuire esattamente, così lascia solamente che esista, come dice quella famosa canzone dei Beatles.

Arriva che neanche se ne accorge, lascia la macchina al solito parcheggio, copre a piedi il miglio scarso che lo separa dal luogo dell’appuntamento; non ne hanno parlato al telefono, ma entrambi sanno a quale bar si vedranno, perché è da quando si conoscono che per loro a Bel-Air esiste soltanto quel posto, che in verità non è neanche chissà cosa, intendiamoci, ma ci si sentono come a casa. Entra nel bar, saluta il vecchio proprietario che l’attimo dopo gli sta già porgendo il suo drink analcolico (sono le cinque di pomeriggio, che vi aspettavate?), si gira verso la tv accesa e rimane a guardare l’incontro di baseball per qualche minuto, fin quando una mano non gli si poggia sulla schiena, facendolo girare nell’altra direzione.

“You’re being lazy lately, Hogan.”

“Shut up, Robert, highway was a hell…”

“And you wanted me to go through it. This is called justice, you know.”

Arriva subito il bicchiere anche davanti ad Hog... Ehm, sorry, volevo dire Jon.

“Got a pen now?”

“Oh, c’mon, I’m right from the gym, where was I supposed to get a pen from?”

“Jim, do you have a pen?” Lo guarda per un attimo e poi continua: “And a piece of paper too, thanks.”

“Are you in a hurry or what?”

You told me you have to go out with Susan.”

“Yeah, but for dinner, if I’m not wrong. And hey, you know what?, take a look at your watch… You see? It’s five and twenty now, dinner time is later, usually, at my place…”

Jon lo fissa incredulo – dopotutto gli ha fatto fare di corsa tutta quella strada – lui gli restituisce lo sguardo e gli fa quel mezzo sorriso alla Stark. L’altro scuote piano la testa e prende un sorso dal proprio bicchiere, ma sta già sorridendo a sua volta.

“Tell me, what happened to your phone?”

“Oh, I don’t know, charge ended I guess… It suddenly went off, I just put it back in my jacket.”

“Unbelievable, you’re the only one person I know who is incapable to use a goddamn cell! I mean, it’s not even that hard!”

“I know, it is just I don’t give a damn about it, that’s all. I don’t like it.”

“How are you going to call Susan now?”

“What, did they remove all the public phones in the city?”

“Pretend I didn’t say anything…  It’s easier to get a kid understand some stuff than you, sometimes…”

“You’re just jealous, that’s all.”

“Jealous!? And what the hell for?”

“For I have JARVIS and you don’t.”

Gli scoppia a ridere in faccia, Jon abbassa lo sguardo sul suo drink e scuote la testa, quasi fosse sconcertato.

“Come on, just kidding. Tell me about the tour… April 26th, the world premiere, right? See, this time I was actually listening to you. Where will it be?”

“London.”

“Aga… Wait, LONDON!?”

Non è che il campanellino d’allarme gli fosse risuonato da subito, in testa... Gli ci sono voluti quattro o cinque secondi in più per realizzare il significato più nascosto di quelle sei lettere, un significato che è noto solo a sé stesso, e a nessun altro, ed ora che, sentendolo uscire dalla sua stessa bocca, l’ha colto appieno, è come se nella sua testa si stiano incastrando tutti i diversi pezzi di un puzzle formato da date. Ovviamente la sua reazione esterna, pur se di un decimo inferiore a quella interna, è stata comunque spropositata per seguire ad un semplice nome di città qual è... Londra! “Meglio Londra di L.A., ho tanti bei ricordi di Londra...” aveva risposto di recente ad una domanda. Già.

Jon lo guarda perplesso.

“Yeah, London. What’s wrong with you?”

“Gimme your phone, I have to make a call.”

“No, you don’t like cells, don’t you remember?”

“Cut this off! I need your fucking phone, I have to make a fucking call and I have to make it NOW!”

Ha gridato e non se n’è nemmeno accorto. Gli altri due avventori del bar lo guardano. Lui tiene gli occhi puntati su Jon, gli porge la mano, cerca di abbassare la voce e di controllarsi.

“Please…”

L’amico si mette la mano nella tasca anteriore dei jeans e ne tira fuori il cellulare, ma prima di darglielo cerca di capire cosa diamine gli stia passando per la testa. Ora è preoccupato.

“Robert, are you alright?”

Lo sarei se mi dessi questo benedetto telefono!

“Yeah, I… I just have to make this call…”

Jon scruta ancora un momento nei suoi occhi ora accesi e quasi brillanti, poi appoggia piano il telefonino sul palmo proteso.

“I owe you one. I’ll be right back.”

Esce dal locale, si dirige verso il parcheggio quasi correndo, si precipita su per le scale, ogni gradino salta il successivo, in un primo momento non ricorda dove ha lasciato l’auto, poi la scorge dalla parte opposta a dove si trova in questo momento e copre la distanza in pochi secondi; disinserisce l’antifurto, apre la portiera, si butta letteralmente sul sedile posteriore lungo disteso, poi si tira su e con una mano afferra la maniglia e richiude lo sportello. Tira fuori il cellulare dai jeans, compone il numero a memoria e cerca di riprendere fiato frattanto che parte la chiamata, respirando a fondo come gli ha insegnato a fare sifu. Nell’orecchio cominciano a susseguirsi quegli odiosi bip, sono talmente tanti ormai che respira normalmente e nessuno dall’altro capo della comunicazione ha ancora sollevato la cornetta. Andiamo, rispondi a ‘sto maledetto telefono, non lo senti? Andiamo, sta squillando da cinque minuti, che cazzo stai...

“Yes? Who is this?”

   
 
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