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Autore: Korat    21/04/2010    9 recensioni
I vocabolari di greco, che non cambiano di una singola citazione da un decennio all’altro, sono soliti essere oggetto del fenomeno sociale del prestito, che non di rado termina nell’eredità. A parte qualche aoristo segnato su pagine strategiche, rimane ben poco a ricordare chi l’ha posseduto prima, instaurando una relazione di odio totalmente monogama col nuovo proprietario. Ma se vi capitasse per le mani un vocabolario maledetto? Se fosse più pericoloso di un compito in classe?
Genere: Commedia, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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rocci

La maledizione del Rocci

I vocabolari di greco, che non cambiano di una singola citazione da un decennio all’altro, sono soliti essere oggetto del fenomeno sociale del prestito quinquennale, che non di rado termina nell’eredità. A parte qualche aoristo segnato su pagine strategiche, rimane ben poco a ricordare chi l’ha posseduto prima, instaurando una relazione di odio totalmente monogama col nuovo proprietario. Per cinque anni si affrontano insieme participi predicativi, versi omerici e subordinate d’ogni tipo, per poi essere liberi, quel giorno di luglio, di porre fine a un rapporto tanto soffocante. Ci si scorda così di quella mole da cucciolo di ippopotamo appena dopo l’esame di stato.

 

Ad Amelia mancavano ancora più di due anni prima di poter mollare Rocci. Lo chiamava per cognome: non erano molto in confidenza. In greco andava così così, ma d’altronde non aveva intenzione di diventare insegnante né archeologa. Fino ad allora si era soltanto compiaciuta nel riuscire a leggere gli ingredienti dei succhi di frutta anche nei caratteri ellenici.

Quella mattina, mattina di compito in classe, con un sole beffardo che splendeva in cielo senza la minima compassione per gli studenti, la ragazza saliva le scale ripetendo mentalmente i quattro tipi di periodo ipotetico quando sprofondò in un atroce dubbio sul secondo e fece per controllare sul vocabolario, su cui era appuntato alla iota. Le si dipinse sul volto un’espressione allibita nel rendersi conto che non stringeva nulla tra le braccia.

Lo zaino era leggero.

Il Rocci era sul pullman.

Il Rocci era maledettamente rimasto sull’autobus, lei lo aveva lasciato sull’autobus, e non aveva modo di cambiare questo dato di fatto. Si girò su se stessa e scese le scale.

Entrata in biblioteca, non udì risposta al suo buongiorno. La donna che stava lì era impegnata con parecchi  fogli, che scrutava da dietro i suoi occhialetti a farfalla di plastica. Quando Amelia si rivolse a lei, questa la guardò come in preda a una crisi mistica, dopo qualche secondo recepì la richiesta e indicò con la mano ossuta dalle dita agghindate di anelli pacchiani la sua destra. A destra c’era tutto il materiale della biblioteca tranne i tomi di algebra, che erano a sinistra. Astronomia, Botanica, Chimica, Filosofia, Fisica, Geografia, Letteratura americana, francese, inglese, italiana, russa, tedesca, Psicologia, Storia antica, medievale, moderna, contemporanea, osservò ogni scaffale, finché non trovò dietro l’architettura rinascimentale un Rocci dalla copertina blu evidentemente fuori posto. Aveva la faccia posteriore quasi staccata. Affianco al timbro della biblioteca, in prima pagina, il disegno di una luna. Uscendo dalla biblioteca, visti un gran numero di vocabolari di lingue classiche, non udì risposta al suo arrivederci.

Lo stridere delle sedie nello spostamento dei banchi faceva da soundtrack a quella scena da documentario animalistico sul comportamento adolescenziale. Sul banco vocabolario a sinistra, di fianco il foglio di protocollo, una penna e una matita. La matita non aveva un’utilità, era per fare compagnia. La versione raccontava di una mosca caduta in una pentola che era soffocata, stando alla traduzione di Amelia.

«Che stava per essere soffocata» precisò una voce. Alzò lo sguardo di fronte a lei e vide una donna vestita in modo assai improbabile. Sembrava una Statua della Libertà. E nessuno sembrava essersi accorto di lei. Nessuno, anzi, sembrava esistere più: avvertiva la classe come una realtà immobile e lontana.

«Ehm… ciao» fu il discorso più intelligente che riuscì a proporle.

«Benvenuta sull’Olimpo» sorrise l’altra, mostrandole un tunnel risplendente di una forte luce bianca.

«Ah no, non credo a queste esperienze di pre-morte, grazie»

«Non stai affatto morendo, ma ottenendo l’immortalità»

Amelia si lasciò guidare, non avendo altre possibilità, verso la luce, finché non si ritrovò in un luogo ovattato, di una densa impalpabilità, il banalissimo cliché che è una nuvola. Si pizzicò ma non successe nulla.

«Ti aspettavamo un po’ diversa» disse la Statua della Libertà notando finalmente l’estraneità della ragazza a quel mondo divino. I suoi capelli ricci e scompigliati, la postura tutt’altro che maestosa e i jeans non si addicevano a quella nuvola, l’Olimpo.

«Aspettarmi per cosa?» chiese alla Statua, che era chiaro essere la Pallade, Glaucopide, Parthenos e vari altri titoli Atena.

«Per prendere il posto da dea. Prendere il posto qui, da immortale, potente, signora, per sempre»

Sarebbe potuta sembrare la cosa più allettante, oppure la più terrificante, accettare quella posizione, ma Amelia non capiva il perché dell’offerta.

Atena dovette raccontarle cosa aveva determinato la mancanza di una dea, cominciando, come è giusto che sia, dall’inizio: «Molto tempo fa, c’era un bellissimo giovane di nome Endimione, di cui la dea della Luna Selene, affascinata, si innamorò perdutamente. L’umano contraccambiava quest’amore, reso però impossibile dalla natura effimera della sua esistenza in confronto all’eternità della dea. Non tollerando l’idea che il giovane dovesse morire, per la paura e il dolore, Selene lo addormentò in un sonno infinito che ne avrebbe preservato la bellezza e la giovinezza.»

Amelia conosceva già il mito, ma Atena continuò: «Il loro amore fu congelato nello spazio e nel tempo di un sogno, finché la dea non decise di rinunciare alla propria immortalità in favore di una vita, seppure breve, ma piena, per entrambi.

Ma qualcuno doveva prendere il suo posto. Noi dèi decidemmo che chiunque avesse aperto il portale con il mondo antico del mito sarebbe diventato la nuova divinità lunare».

L’immortalità che le stava venendo offerta era una maledizione, una condanna alla rinuncia della libertà. Amelia non voleva venderla in cambio di poteri sovrumani. Preferiva guardare il cielo e immaginare cosa ci fosse dietro piuttosto che esserne padrona.

Ma qualcuno doveva prendere il posto di Selene.

Si guardò intorno, sconsolata. Guardò quella nuvola che era l’Olimpo e si rese conto che il tutto aveva dell’assurdo. L’Olimpo era un prodotto della fantasia umana. Gli dèi erano il frutto di speranze e timori di gente vissuta duemila e settecento anni prima. Esistevano tanti dèi quanti se ne sentì il bisogno, esistevano tante versioni dello stesso dio quante diversi poeti hanno gradito darne. Non erano gli dèi a decidere sugli uomini, ma il contrario. E questa verità doveva valere anche nel suo caso. In quanto umana, solo credendoci, avrebbe potuto ideare una Selene ancora dea della Luna sull’Olimpo parallela alla donna che viveva sulla Terra, così come qualcuno aveva fatto nascere da Zeus e Dione un’Afrodite parallela ad una nata da Urano. E il fatto di essere lì, immune al pizzicotto, le permise di credere.

Ripercorse il tunnel bianco a ritroso finché non si ritrovò in un luogo disordinato, solido e tangibile. Sul banco il dizionario a sinistra, di fianco il foglio di protocollo da riempire con una traduzione.

 

Ancora adesso, Amelia ogni tanto gira sul retro il Tetrapak dei succhi di frutta e si compiace nel riuscire a leggere gli ingredienti nei caratteri ellenici. Un’estate è andata in vacanza ad Olimpia e, nel leggere i cartelli stradali, ha raggiunto il massimo compiacimento. Ciò non toglie che, comunque, si sia persa.  Per il resto, il greco se l’è scordato appena dopo l’esame di stato e ora lavora come astrofisica in Germania; d’estate viene in vacanza qui. Una volta mi ha raccontato la sua storia. Ovviamente non ho creduto a una sola parola. Ci ripensavo stamattina, mentre correvo in biblioteca a prendere in prestito un vocabolario perché mi ero completamente scordata del compito in classe. La vecchia bibliotecaria non mi ascoltava e avevo ho fretta, così ho afferrato un Rocci dalla copertina blu, con la faccia posteriore quasi staccata. Affianco al timbro della biblioteca, in prima pagina, il disegno di una luna. Se la versione è andata male, sono disposta a credere che sia ancora maledetto.

   
 
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