Salve a Tutti, mi
spiace essermi fatta desiderare, ma finalmente ho scritto un nuovo capitolo.
Anche se non sono molto convinta di ciò che ne è venuto fuori. Questa
storia mi da dei problemi. Non riesco proprio a scriverla. Purtroppo non credo
che anche provando a riscriverlo da capo questo capitolo potrebbe migliorare,
quindi mi sono tristemente arresa a pubblicarlo, sperando di poter fare meglio
con il prossimo.
Nel frattempo
ringrazio tutti quelli che hanno letto e in particolare Antinea e Luine che hanno
lasciato un commento.
Ne approfitto anche
per ringraziare chi ha commentato Soluzioni
Rustiche e tutti i voti che mi sono arrivati lì e in Im20mq!!!. Grazie mille davvero ^.^
Nel Dubbio Nega
Capitolo Quarto
L’esorcismo di
tempera
Alberto fu svegliato ad un orario indecente, da quello che
gli sembrò un ululato, si mise a sedere di scatto.
“Un lupo?” esclamò atterrito.
“No, è solo Carlos…” disse la
voce pacata di suo zio, Alberto si voltò accaldato verso l’uomo
che se ne stava seduto sul tappeto, con una gamba dietro la testa, in posizione yoga.
“Zio, è notte, che stai facendo?”
soffiò aggressivo. Non ne poteva più di stare in quella casa,
soprattutto dopo che era capitato in camera con il suo strambo zio.
“Sono le due, ormai è ora di alzarsi, non vedi
che è l’alba?”disse accennando al leggero bagliore che
penetrava attraverso le assi della serranda.
“Quelli sono i lampioni” sbottò
stizzito prima di rinfilarsi sotto le coperte.
Venne svegliato nuovamente nemmeno un’ora dopo dalla
voce di Fred Penner che cantava a proposito del ritorno di un gatto.
Il cellulare vibrava rumorosamente a contatto con il legno
imbarcato del comodino e Alberto lo afferrò con gli occhi arrossati dal
sonno, e se lo portò sotto il piumone.
“Quella suoneria è davvero fastidiosa,
Rocco” commentò Mino nella posizione del cane. Suo nipote lo
ignorò e rispose assonnato.
“Che cavolo vuoi a quest’ora?”
sbottò.
“Come a quest’ora? Sono le otto” rispose
Paolo perplesso dall’altra parte.
“Da te sono le otto, da me sono le tre!”
esclamò acido suo fratello.
“Ah già…” fece Paolo
ricordandosene, ma non preoccupandosene troppo.
“Vabbè, Alberto, già che sei
sveglio… se una macchina finisce l’acqua cosa devo
fare?”chiese tranquillo ed incurante delle imprecazioni che stavano
arrivando al suo indirizzo.
“La aggiungi? Prendi dell’acqua e la metti nel
serbatoio apposito, no?” sbottò Alberto scocciato.
“E quale sarebbe scusa?”continuò
imperterrito Paolo, ma suo fratello aveva già riattaccato intenzionato a
dormire le ultime ore che gli rimanevano prima della sveglia vera e propria.
Paolo sospirò, quel maledetto fuoristrada non
voleva partire e nessuno che si preoccupasse del fatto che lui e Morena stavano
facendo ritardo alla scuola inglese.
“Qui manca l’acqua!” urlò poi in
inglese. Dalla porta d’ingresso della villetta con veranda, in cui erano capitati,
spuntò una ragazza bionda e alta, troppo truccata, e troppo poco vestita
per quel clima. Zhanna, la figlia più piccola della famiglia presso la
quale alloggiava. Nonostante avesse un anno in meno e fosse una ragazza, era
più alta di lui. La cosa era più che mai imbarazzante.
Ringraziò che almeno Morena non superasse il suo naso.
Paolo aggrottò le sopracciglia vedendo una piccola
striscia di pelle che s’intravedeva tra i jeans e il maglione di lana.
Notò che aveva in mano una bottiglia di plastica,
s’accigliò ancora di più se possibile.
“Che roba è?” fece poi.
“Questa è per l’auto,
идиот *, l’acqua si gelerebbe con questa
temperatura, si usa il liquido antigelo!”
“Che vuole dire
идиот?” chiese perplesso.
Zhanna alzò le spalle “Niente, è un
rafforzativo”
Un’altra cosa decisamente umiliante era che Zhanna,
di auto, ne sapesse molto più di lui. Non gli erano mai piaciute.
C’era stata sempre una discreta antipatia tra lui e le auto. Ci sarebbe
stato da divertirsi, quando gli sarebbe toccato prendere la patente.
E non poteva neanche sperare di farsi scarrozzare in giro
a vita dagli amici, perché sua madre avrebbe picchiato su quel tasto
peggio di quando rompeva le scatole con le maniglie dell’amore di
Alberto.
Deglutì
guardando Zhanna destreggiarsi tra fili e serbatoi. Poi nel dubbio maledì
l’idea di essersi trasferito in Russia.
Svariate ore dopo Alberto si svegliò di
soprassalto, dall’altra parte della porta venivano rumori inquietanti,
come se una tigre del bengala si stesse sbranando un uomo.
Il tutto accompagnato dalla voce di Guendalina che urlava
“Almeno le mutande te le devi mettere per andare al lavoro!”
Spalancò la porta trovandosi davanti un Oliveiro in
mutande che scalciava e ringhiava mentre Guendalina cercava con scarso successo
di infilargli una camicia e Rebecca gli teneva ferma una caviglia, con scarso
successo.
“Che diavolo succede qui?”sbottò
irritato, quello era decisamente un pessimo modo per svegliarsi, peggio di
Paolo che telefonava alle tre di notte.
“Oliveiro devo andare al lavoro, ma non ne vuole
sapere di vestirsi! Idris ti prego tienilo fermo!”spiegò
Guendalina ansimante.
“Non è che ci aiuteresti?”
pigolò Rebecca perdendo gli occhiali. Alberto sbuffò, alzò
le spalle e scese in cucina, dove una decina di manovali se ne stavano seduti
sul divano a bere tea alla rosa, con aria sporca e composta.
Alberto, a piedi nudi sul parquet, guardò
circospetto il telo di nylon che sostituiva la parete abbattuta, oltre al quale
suo zio Mino stava parlando con due sconosciuti dai capelli rossi tinti.
Alberto scostò il velo e si avviò in
giardino a piedi nudi stropicciandosi un occhio.
“Che cosa succede qui, zio?” chiese a bassa
voce perplesso.
“Oh, nulla d’importante Cesare, sono appena
stato informato da questi due tecnici”, Alberto lanciò
un’occhiata al ragazzo coi capelli rossi, e s’accigliò
“che non possiamo ricostruire la parete” concluse tranquillo.
“Che cosa!?!” urlò fuori di sé
“Zio, ti rendi conto che sta
arrivando l’inverno? Ci hai pensato?!” continuò a urlare con
gli occhi sgranati, come se si fosse bevuto una damigiana di caffè.
“Alfredo calmati!”
“E perché cavolo non potremmo
ricostruirla?” continuò senza abbassare il tono.
“Perché sarebbe un abuso edilizio! Non lo
possiamo fare, il signore qui mi ha detto che contatterà
l’ingegner Trinciapolli e si occuperà della parte burocratica e
del calcolo della multa che dovremo pagare e…” spiegò
tranquillo lo zio.
“Ma se l’abbiamo tirata giù, almeno
ritiriamola su! Cosa cavolo me ne importa dell’ingegner Trinciapolli!
È ottobre cavolo! Sta diventando freddo e…”
Il ragazzo con la maglietta idiota cercò
d’intervenire dicendo “Signore, secondo il regolamento
edilizio…” ma non fece in tempo a finire perché Alberto si
girò verso di lui con occhi di brace “NON ME NE FREGA NIENTE DEL
REGOLAMENTO EDILIZIO!” e così dicendo come una furia scostò
il telo di nylon e se ne tornò in casa.
“Alceste! Se il freddo ti da dei problemi metteremo
uno di quei funghi che i bar mettono nelle verande” gli urlò
dietro suo zio speranzoso.
Uno dei due rossi aggiunse poi timidamente “Comunque
l’ingegnere si chiama Tranciabelli…”
Quando Alberto, intenzionato a fare colazione al bar,
uscì, i due tizi coi capelli rossi erano ancora in giardino che
litigavano tra di loro.
Lui li ignorò bellamente e uscì dal giardino
sbattendo il cancelletto.
Camminava con un’andatura più veloce del
solito, a testa bassa , e c’erano ottime possibilità di beccare un
palo da un momento all’altro.
Avevano abbattuto una parete per quello stupido
pianoforte, di quella stupida ragazzina! E poi come finiva? Che non potevano
ricostruirla perché due idioti coi capelli tinti di rosso si mettevano a
parlare di trinciapolli.
E, in tutto questo, l’inverno era alle porte.
Arrivato a destinazione, mollò la borsa per terra e
si lasciò cadere su una sedia bianca. All’esterno del suo solito
bar.
Una cameriera con un’anella al naso gli si
avvicinò con un blocco per le ordinazioni in mano.
“Buongiorno”disse allegra regalandogli un
sorriso. Alberto fece un sorriso frettoloso di rimando “Il solito”
La ragazza si morse il labbro “I croissant alla
cioccolata li abbiamo finiti” disse dispiaciuta.
“La marmellata andrà benissimo”rispose
lui, e la cameriera se ne andò saltellando.
Pensava che fosse carina, una volta si erano anche
parlati, si chiamava Silvia? Non se lo ricordava, ma in quel momento di tutto
gli importava, tranne della cameriera.
Si passò una mano sulla faccia, prima di mettersi a
cercare le sigarette nella borsa, aveva bisogno di fumare. Doveva davvero
rilassarsi, la parete era stata davvero la goccia che aveva fatto traboccare il
vaso.
“Buongiorno!” esclamarono, Alberto alzò
gli occhi dalla fiamma dell’accendino, e per poco non gli cadde la
sigaretta dalla bocca.
Elena, la sua professoressa, si stava sedendo al suo
stesso tavolo, e lo salutava allegramente.
Sorrise poi afferrò la sedia con le mani e
cercò di spingersi più avanti per mettersi meglio con le gambe
sotto al tavolo. In un movimento così poco elegante, che Alberto si
stupì che si trattasse di una professoressa. Aveva un’aria
così umana. Come faceva ad essere un’insegnante?
“Salve, che cosa ci fa qui?” chiese Alberto
perplesso.
“Come cosa ci faccio qui! Mi hai detto tu ieri che
saresti venuto a fare colazione qui! E poi non darmi del lei, non sono mica
vecchia!” esclamò con aria stupita.
Alberto boccheggiò “Non pensavo venissi sul
serio” spiegò incerto alzando le spalle.
Elena alzò le spalle a sua volta “Beh,
sì, non conosco nessuno in questa città, mi sono trasferita da
poco, e quando andavo all’università non mi è mai piaciuto
il rapporto distaccato che c’era tra studenti e
professori”spiegò, Alberto vide i suoi occhi illuminarsi e lei
continuare “Non posso credere di avere una cattedra… cioè,
non è una cattedra, ma più o meno, insomma sì, è
una quasi cattedra… era il massimo che mi potevo sognare!” sospirò
guardando il cielo sognante.
Alberto, senza sapere cosa dire, si mise in bocca la pasta
alla marmellata che la cameriera gli aveva appena portato.
“Che ne pensi della mia lezione?” chiese poi.
Il ragazzo si accigliò, non capendo subito di che cosa stesse parlando
“Eh?”
“Sì, intendo la mia lezione, cosa ne pensi?
Sono andata bene?” chiese sovraeccitata.
Alberto non sapeva cosa rispondere. Una lezione di Igiene
non era esattamente la cosa più emozionante del mondo, e per di
più il giorno prima l’aveva passata a rimuginare sul fatto di
averci provato con la sua professoressa. Professoressa che del canto suo invece
non sembrava neanche un po’ a disagio.
Dopo una veloce sequenza di considerazioni assolutamente
inutili decise che mentire fosse la cosa migliore “Fantastica… sei
andata benissimo, davvero. La miglior lezione di igiene alla quale io abbia mai
partecipato!” esclamò cercando di essere il più convincente
possibile.
Lei parve convinta, fece un sorriso.
“Grazie”
Lui rispose con un sorriso decisamente più tirato e si passò la mano tra i capelli,
un po’ imbarazzato.
“Tu sei di qui?”chiese poi lei curiosa.
Alberto scosse la testa “No, sono un immigrato, sono qui per studiare.
Fino al mese scorso abitavo a Russi. Non so se lo conosci…”
spiegò lui, sentendosi un po’ meno a disagio.
Elena scosse la testa “Anche per me è lo
stesso. Mi sento un po’ spaesata qui…” disse guardando il
cielo.
Alberto rise “Dovremmo fare un giro turistico”
“Già, ma credo sia meglio farlo in un altro
momento, dato che tra poco inizieranno le lezioni” esclamò allegra
alzandosi e rischiando di ribaltare la sedia.
Lo salutò con la mano andandosene.
Lui la guardò allontanarsi sui tacchi non troppo
alti e sospirò. Se solo fosse stato un po’ più grande.
La lezione di Igiene passò in fretta, anche
perché la passò tutta raccontando al suo vicino con l’orrida
fascia fucsia, cosa si fossero detti quella mattina lui e la professoressa,
chiedendogli cosa ne pensava, ma non dandogli il tempo di rispondere,
ricominciando a raccontare di dettagli assolutamente inutili e mortalmente
noiosi.
Il tutto frammentato da languide occhiate al cinturino
nero delle scarpe col tacco, che dalla distanza alla quale si era messo si
vedeva ben poco, ma che nonostante la miopia poteva immaginarsi bene come se lo
vedesse sul serio, o e da commenti
alle fossette che le venivano sulle guance quando sorrideva.
Alla fine della lezione si rese conto che il tizio in
fucsia, l’aveva passata a dormire dietro agli occhiali da sole,
ignorandolo bellamente.
“Ma tu, non mi hai ascoltato tutto il tempo?”
sbottò alterato. Il ragazzo gli diede una pacca paterna sulla spalla e
se ne andò.
Aveva bisogno di un amico in quel posto. Ne aveva
decisamente bisogno.
Soprattutto perché stava per tornare
all’ovile. E l’ovile, da quando si era trasferito da suo zio, non
era certo un bel posto!
L’isteria non era una casa, era un manicomio. E
quando si trovò davanti al cancelletto fu contento di constatare che
almeno i due geometri coi capelli rossi se ne erano andati.
Entrò sbuffando, in salotto non c’era nessuno,
mentre dal piano di sopra provenivano, tonfi, canti, ringhi e un forte odore
d’incenso.
Il ragazzo strinse i denti e decise di andare a
controllare. Salì le scale con passo pesante subito dopo aver lasciato
distrattamente il giubbotto e la borsa sul divano. Man mano che si avvicinava i
rumori si facevano più cupi e i ringhi più profondi. Sulla porta
della sua stanza spiccava un post-it giallo.
Stava scritto Lo sai
che quando le persone parlano si risponde? Razza di maleducato!
Alberto grugnì e ignorò il messaggio
avviandosi a grandi passi verso la stanza da letto di Rebecca e dei monaci.
Aprì la porta con poco garbo, e si trovò
immerso in una nuvola d’incenso probabilmente tossica, tossicchiò
scocciato, mentre all’interno, s’intravedevano bagliori argentei,
provenienti dai contenitori sacrali dell’incenso.
Macchie color del sole indicavano la presenza dei tre
monaci, nonostante le tapparelle fossero chiuse.
In un angolo a
braccia conserte e con gli occhiali appannati, se ne stava Rebecca con gli
angoli della bocca piegati verso il basso.
Il pittore urlava da sopra il pianoforte e con un braccio
sembrava benedire i presenti. Oliveiro del canto suo correva attorno al piano
in mutande, ringhiando.
Gli agrumi cantavano, in un cupo rombo, sventolando fumi
di fragranze fastidiose, e aumentando la nube che riempiva la stanza.
“Che diavolo fanno?” chiese Alberto stizzito in un udibilissimo sussurro,
chinandosi vicino a Rebecca che aveva l’aria traumatizzata.
“Credo stiano cercando di
esorcizzarlo…”azzardò la ragazzina.
Entrambi furono colpiti in piena faccia da qualche cosa di
viscido e acquoso.
Alberto fece una smorfia prima di passarsi una mano sul
viso e guardarla. Era coperta di un liquido abbastanza denso, di colore blu.
“Tempera? Stanno cercando di esorcizzare Oliveiro
con della tempera?” sbottò stizzito togliendosi il colore dalle
sopracciglia.
Se ne andò grugnendo, mentre Rebecca cercava di
pulire gli occhiali nella maglietta altrettanto imbrattata, sperando di
riuscire di nuovo a vedere qualche cosa.
Poco dopo anche lei cercò di seguirlo fuori da quell’inferno
idiota, barcollando e procedendo a tentoni.
Scese le scale lentamente, senza vedere nulla di
ciò che le si parava davanti, e infine si lasciò cadere
mollemente accanto a Guendalina, che silenziosa beveva tea alla rosa seduta
sull’ultimo gradino. Con in braccio la sua lampada di perline.
La ragazzina sospirò.
“E’ così carino” disse infine in
un soffio triste.
“E non ti guarda neanche un po’”
aggiunse Guendalina senza un minimo di tatto. Rebecca s’incupì.
“Non hai nulla da dire per aiutarmi?” piagnucolò.
Guendalina scosse la testa disinteressata, mentre occhieggiava Alberto che
tirava calci stizziti ai bidoni di plastica abbandonati in giardino dai
muratori.
Poi si alzò e le porse la tazza che teneva in mano
“Finiscilo tu, io ho un cliente… il tea alla rosa stimola la
diuresi, è molto utile”
Zio Mino uscì dalla cucina strepitando e
sventolando rabbiosamente una teiera, dalla quale uscì parecchio tea.
“Come sarebbe a dire che hai un cliente? Io sono qui
da secoli e non lavoro, tu sei tornata in Italia due giorni fa e hai già
del lavoro?”
Guendalina alzò le spalle e se ne andò
passando sotto il telo di nylon.
L’utilitaria sulla quale viaggiava Elena Pagano si
fermò a lato di un marciapiede, strisciandosi contro il cerchione.
Da dietro qualcuno suonò impertinentemente il
clacson, l’autista in risposta mostrò il dito medio, mentre sua
moglie attendeva con una mano sulla maniglia.
“Sei sicura di volerci andare?” chiese lui
annoiato “Lo sai che penso che sia una cavolata…cosa hai da dire a
uno sconosciuto?”
Elena sospirò “Ne abbiamo già
parlato… voglio farlo. È il mio primo lavoro vero, e ci siamo
trasferiti in una città nuova, solo io e te
e…”cominciò, ma suo marito la interruppe.
“Adesso sarei io il problema?” chiese. Elena
scosse la testa “Non ho detto questo”
L’uomo sbuffò, non voleva ascoltare oltre
“E va bene, fai quello che vuoi… ti aspetto per cena”
Sua moglie scese, e lui non aspettò nemmeno che
fosse entrata prima di ripartire stizzito.
La donna lo guardò mentre se ne andava, poi
sospirò e si infilò nel portone dietro di lei.
Una signora grassoccia l’accolse da dietro una
scrivania bianca con un gran sorriso.
“Lei deve essere Pagano” fece. Elena
annuì.
“Terza porta a sinistra”disse la donna con un
sorriso.
Elena si avviò a passi lenti e incerti per il
corridoio dai soffitti alti.
Era sempre strano. Non era la prima volta che lo faceva.
Anche a casa sua le era capitato. Ma era un po’ come se lo fosse. A suo
modo era una prima volta anche quella.
Appoggiò la mano sulla maniglia e
l’abbassò. Entrò solo con la testa. Come per spiare. Come
se avesse potuto scappare all’ultimo momento.
C’era una scrivania dall’aria squallida, una
piantina, e una finestra con le tende tirate.
Al centro della stanza stava una donna, appoggiata alla
scrivania, come quella nell’atrio.
In mano teneva una lampada di perline.
* идиот = Idiota