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Autore: aki_penn    02/05/2010    4 recensioni
Alberto poteva tollerare un sacco di cose. Poteva tollerare la filosofia yoga di suo zio, il fatto che trenta teppisti dormissero in soggiorno, o che la sua casa avesse un muro in meno del dovuto, di avere una cotta per la sua professoressa, e con un po' di camomilla poteva anche sopportare che il marito geloso tantasse di ucciderlo. Ma c'era una cosa che davvero non poteva tollerare: sbarellare per una ragazzina scialba e decisamente inutile, e per di più "grafocollerica". Non aveva idea di cosa significasse, ma di sicuro, quella era la goccia che faceva traboccare il vaso!
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Salve a Tutti, mi spiace essermi fatta desiderare, ma finalmente ho scritto un nuovo capitolo. Anche se non sono molto convinta di ciò che ne è venuto fuori. Questa storia mi da dei problemi. Non riesco proprio a scriverla. Purtroppo non credo che anche provando a riscriverlo da capo questo capitolo potrebbe migliorare, quindi mi sono tristemente arresa a pubblicarlo, sperando di poter fare meglio con il prossimo.

Nel frattempo ringrazio tutti quelli che hanno letto e in particolare Antinea e Luine che hanno lasciato un commento.

Ne approfitto anche per ringraziare chi ha commentato Soluzioni Rustiche e tutti i voti che mi sono arrivati lì e in Im20mq!!!. Grazie mille davvero ^.^

 

 

 

Nel Dubbio Nega

Capitolo Quarto

L’esorcismo di tempera

 

 

 

 

Alberto fu svegliato ad un orario indecente, da quello che gli sembrò un ululato, si mise a sedere di scatto.

“Un lupo?” esclamò atterrito.

“No, è solo Carlos…” disse la voce pacata di suo zio, Alberto si voltò accaldato verso l’uomo che se ne stava seduto sul tappeto, con una gamba dietro la testa,  in posizione yoga.

“Zio, è notte, che stai facendo?” soffiò aggressivo. Non ne poteva più di stare in quella casa, soprattutto dopo che era capitato in camera con il suo strambo zio.

“Sono le due, ormai è ora di alzarsi, non vedi che è l’alba?”disse accennando al leggero bagliore che penetrava attraverso le assi della serranda.

“Quelli sono i lampioni” sbottò stizzito prima di rinfilarsi sotto le coperte.

Venne svegliato nuovamente nemmeno un’ora dopo dalla voce di Fred Penner che cantava a proposito del ritorno di un gatto.

Il cellulare vibrava rumorosamente a contatto con il legno imbarcato del comodino e Alberto lo afferrò con gli occhi arrossati dal sonno, e se lo portò sotto il piumone.

“Quella suoneria è davvero fastidiosa, Rocco” commentò Mino nella posizione del cane. Suo nipote lo ignorò e rispose assonnato.

“Che cavolo vuoi a quest’ora?” sbottò.

“Come a quest’ora? Sono le otto” rispose Paolo perplesso dall’altra parte.

“Da te sono le otto, da me sono le tre!” esclamò acido suo fratello.

“Ah già…” fece Paolo ricordandosene, ma non preoccupandosene troppo.

“Vabbè, Alberto, già che sei sveglio… se una macchina finisce l’acqua cosa devo fare?”chiese tranquillo ed incurante delle imprecazioni che stavano arrivando al suo indirizzo.

“La aggiungi? Prendi dell’acqua e la metti nel serbatoio apposito, no?” sbottò Alberto scocciato.

“E quale sarebbe scusa?”continuò imperterrito Paolo, ma suo fratello aveva già riattaccato intenzionato a dormire le ultime ore che gli rimanevano prima della sveglia vera e propria.

Paolo sospirò, quel maledetto fuoristrada non voleva partire e nessuno che si preoccupasse del fatto che lui e Morena stavano facendo ritardo alla scuola inglese.

“Qui manca l’acqua!” urlò poi in inglese. Dalla porta d’ingresso della villetta con veranda, in cui erano capitati, spuntò una ragazza bionda e alta, troppo truccata, e troppo poco vestita per quel clima. Zhanna, la figlia più piccola della famiglia presso la quale alloggiava. Nonostante avesse un anno in meno e fosse una ragazza, era più alta di lui. La cosa era più che mai imbarazzante. Ringraziò che almeno Morena non superasse il suo naso.

Paolo aggrottò le sopracciglia vedendo una piccola striscia di pelle che s’intravedeva tra i jeans e il maglione di lana.

Notò che aveva in mano una bottiglia di plastica, s’accigliò ancora di più se possibile.

“Che roba è?” fece poi.

“Questa è per l’auto, идиот *, l’acqua si gelerebbe con questa temperatura, si usa il liquido antigelo!”

“Che vuole dire идиот?” chiese perplesso.

Zhanna alzò le spalle “Niente, è un rafforzativo”

Un’altra cosa decisamente umiliante era che Zhanna, di auto, ne sapesse molto più di lui. Non gli erano mai piaciute. C’era stata sempre una discreta antipatia tra lui e le auto. Ci sarebbe stato da divertirsi, quando gli sarebbe toccato prendere la patente.

E non poteva neanche sperare di farsi scarrozzare in giro a vita dagli amici, perché sua madre avrebbe picchiato su quel tasto peggio di quando rompeva le scatole con le maniglie dell’amore di Alberto.

 Deglutì guardando Zhanna destreggiarsi tra fili e serbatoi.  Poi nel dubbio maledì l’idea di essersi trasferito in Russia.

 

Svariate ore dopo Alberto si svegliò di soprassalto, dall’altra parte della porta venivano rumori inquietanti, come se una tigre del bengala si stesse sbranando un uomo.

Il tutto accompagnato dalla voce di Guendalina che urlava “Almeno le mutande te le devi mettere per andare al lavoro!”

Spalancò la porta trovandosi davanti un Oliveiro in mutande che scalciava e ringhiava mentre Guendalina cercava con scarso successo di infilargli una camicia e Rebecca gli teneva ferma una caviglia, con scarso successo.

“Che diavolo succede qui?”sbottò irritato, quello era decisamente un pessimo modo per svegliarsi, peggio di Paolo che telefonava alle tre di notte.

“Oliveiro devo andare al lavoro, ma non ne vuole sapere di vestirsi! Idris ti prego tienilo fermo!”spiegò Guendalina ansimante.

“Non è che ci aiuteresti?” pigolò Rebecca perdendo gli occhiali. Alberto sbuffò, alzò le spalle e scese in cucina, dove una decina di manovali se ne stavano seduti sul divano a bere tea alla rosa, con aria sporca e composta.

Alberto, a piedi nudi sul parquet, guardò circospetto il telo di nylon che sostituiva la parete abbattuta, oltre al quale suo zio Mino stava parlando con due sconosciuti dai capelli rossi tinti.

Alberto scostò il velo e si avviò in giardino a piedi nudi stropicciandosi un occhio.

“Che cosa succede qui, zio?” chiese a bassa voce perplesso.

“Oh, nulla d’importante Cesare, sono appena stato informato da questi due tecnici”, Alberto lanciò un’occhiata al ragazzo coi capelli rossi, e s’accigliò “che non possiamo ricostruire la parete” concluse tranquillo.

“Che cosa!?!” urlò fuori di sé “Zio, ti rendi conto che  sta arrivando l’inverno? Ci hai pensato?!” continuò a urlare con gli occhi sgranati, come se si fosse bevuto una damigiana di caffè.

“Alfredo calmati!”

“E perché cavolo non potremmo ricostruirla?” continuò senza abbassare il tono.

“Perché sarebbe un abuso edilizio! Non lo possiamo fare, il signore qui mi ha detto che contatterà l’ingegner Trinciapolli e si occuperà della parte burocratica e del calcolo della multa che dovremo pagare e…” spiegò tranquillo lo zio.

“Ma se l’abbiamo tirata giù, almeno ritiriamola su! Cosa cavolo me ne importa dell’ingegner Trinciapolli! È ottobre cavolo! Sta diventando freddo e…”

Il ragazzo con la maglietta idiota cercò d’intervenire dicendo “Signore, secondo il regolamento edilizio…” ma non fece in tempo a finire perché Alberto si girò verso di lui con occhi di brace “NON ME NE FREGA NIENTE DEL REGOLAMENTO EDILIZIO!” e così dicendo come una furia scostò il telo di nylon e se ne tornò in casa.

“Alceste! Se il freddo ti da dei problemi metteremo uno di quei funghi che i bar mettono nelle verande” gli urlò dietro suo zio speranzoso.

Uno dei due rossi aggiunse poi timidamente “Comunque l’ingegnere si chiama Tranciabelli…”

 

 

Quando Alberto, intenzionato a fare colazione al bar, uscì, i due tizi coi capelli rossi erano ancora in giardino che litigavano tra di loro.

Lui li ignorò bellamente e uscì dal giardino sbattendo il cancelletto.

Camminava con un’andatura più veloce del solito, a testa bassa , e c’erano ottime possibilità di beccare un palo da un momento all’altro.

Avevano abbattuto una parete per quello stupido pianoforte, di quella stupida ragazzina! E poi come finiva? Che non potevano ricostruirla perché due idioti coi capelli tinti di rosso si mettevano a parlare di trinciapolli.

E, in tutto questo, l’inverno era alle porte.

Arrivato a destinazione, mollò la borsa per terra e si lasciò cadere su una sedia bianca. All’esterno del suo solito bar.

Una cameriera con un’anella al naso gli si avvicinò con un blocco per le ordinazioni in mano.

“Buongiorno”disse allegra regalandogli un sorriso. Alberto fece un sorriso frettoloso di rimando “Il solito”

La ragazza si morse il labbro “I croissant alla cioccolata li abbiamo finiti” disse dispiaciuta.

“La marmellata andrà benissimo”rispose lui, e la cameriera se ne andò saltellando.

Pensava che fosse carina, una volta si erano anche parlati, si chiamava Silvia? Non se lo ricordava, ma in quel momento di tutto gli importava, tranne della cameriera.

Si passò una mano sulla faccia, prima di mettersi a cercare le sigarette nella borsa, aveva bisogno di fumare. Doveva davvero rilassarsi, la parete era stata davvero la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

“Buongiorno!” esclamarono, Alberto alzò gli occhi dalla fiamma dell’accendino, e per poco non gli cadde la sigaretta dalla bocca.

Elena, la sua professoressa, si stava sedendo al suo stesso tavolo, e lo salutava allegramente.

Sorrise poi afferrò la sedia con le mani e cercò di spingersi più avanti per mettersi meglio con le gambe sotto al tavolo. In un movimento così poco elegante, che Alberto si stupì che si trattasse di una professoressa. Aveva un’aria così umana. Come faceva ad essere un’insegnante?

“Salve, che cosa ci fa qui?” chiese Alberto perplesso.

“Come cosa ci faccio qui! Mi hai detto tu ieri che saresti venuto a fare colazione qui! E poi non darmi del lei, non sono mica vecchia!” esclamò con aria stupita.

Alberto boccheggiò “Non pensavo venissi sul serio” spiegò incerto alzando le spalle.

Elena alzò le spalle a sua volta “Beh, sì, non conosco nessuno in questa città, mi sono trasferita da poco, e quando andavo all’università non mi è mai piaciuto il rapporto distaccato che c’era tra studenti e professori”spiegò, Alberto vide i suoi occhi illuminarsi e lei continuare “Non posso credere di avere una cattedra… cioè, non è una cattedra, ma più o meno, insomma sì, è una quasi cattedra… era il massimo che mi potevo sognare!” sospirò guardando il cielo sognante.

Alberto, senza sapere cosa dire, si mise in bocca la pasta alla marmellata che la cameriera gli aveva appena portato.

“Che ne pensi della mia lezione?” chiese poi. Il ragazzo si accigliò, non capendo subito di che cosa stesse parlando “Eh?”

“Sì, intendo la mia lezione, cosa ne pensi? Sono andata bene?” chiese sovraeccitata.

Alberto non sapeva cosa rispondere. Una lezione di Igiene non era esattamente la cosa più emozionante del mondo, e per di più il giorno prima l’aveva passata a rimuginare sul fatto di averci provato con la sua professoressa. Professoressa che del canto suo invece non sembrava neanche un po’ a disagio.

Dopo una veloce sequenza di considerazioni assolutamente inutili decise che mentire fosse la cosa migliore “Fantastica… sei andata benissimo, davvero. La miglior lezione di igiene alla quale io abbia mai partecipato!” esclamò cercando di essere il più convincente possibile.

Lei parve convinta, fece un sorriso.

“Grazie”

Lui rispose con un sorriso decisamente più tirato  e si passò la mano tra i capelli, un po’ imbarazzato.

“Tu sei di qui?”chiese poi lei curiosa. Alberto scosse la testa “No, sono un immigrato, sono qui per studiare. Fino al mese scorso abitavo a Russi. Non so se lo conosci…” spiegò lui, sentendosi un po’ meno a disagio.

Elena scosse la testa “Anche per me è lo stesso. Mi sento un po’ spaesata qui…” disse guardando il cielo.

Alberto rise “Dovremmo fare un giro turistico”

“Già, ma credo sia meglio farlo in un altro momento, dato che tra poco inizieranno le lezioni” esclamò allegra alzandosi e rischiando di ribaltare la sedia.

Lo salutò con la mano andandosene.

Lui la guardò allontanarsi sui tacchi non troppo alti e sospirò. Se solo fosse stato un po’ più grande.

La lezione di Igiene passò in fretta, anche perché la passò tutta raccontando al suo vicino con l’orrida fascia fucsia, cosa si fossero detti quella mattina lui e la professoressa, chiedendogli cosa ne pensava, ma non dandogli il tempo di rispondere, ricominciando a raccontare di dettagli assolutamente inutili e mortalmente noiosi.

Il tutto frammentato da languide occhiate al cinturino nero delle scarpe col tacco, che dalla distanza alla quale si era messo si vedeva ben poco, ma che nonostante la miopia poteva immaginarsi bene come se lo vedesse sul serio, o  e da commenti alle fossette che le venivano sulle guance quando sorrideva.

Alla fine della lezione si rese conto che il tizio in fucsia, l’aveva passata a dormire dietro agli occhiali da sole, ignorandolo bellamente.

“Ma tu, non mi hai ascoltato tutto il tempo?” sbottò alterato. Il ragazzo gli diede una pacca paterna sulla spalla e se ne andò.

Aveva bisogno di un amico in quel posto. Ne aveva decisamente bisogno.

Soprattutto perché stava per tornare all’ovile. E l’ovile, da quando si era trasferito da suo zio, non era certo un bel posto!

L’isteria non era una casa, era un manicomio. E quando si trovò davanti al cancelletto fu contento di constatare che almeno i due geometri coi capelli rossi se ne erano andati.

Entrò sbuffando, in salotto non c’era nessuno, mentre dal piano di sopra provenivano, tonfi, canti, ringhi e un forte odore d’incenso.

Il ragazzo strinse i denti e decise di andare a controllare. Salì le scale con passo pesante subito dopo aver lasciato distrattamente il giubbotto e la borsa sul divano. Man mano che si avvicinava i rumori si facevano più cupi e i ringhi più profondi. Sulla porta della sua stanza spiccava un post-it giallo.

Stava scritto Lo sai che quando le persone parlano si risponde? Razza di maleducato!

Alberto grugnì e ignorò il messaggio avviandosi a grandi passi verso la stanza da letto di Rebecca e dei monaci.

Aprì la porta con poco garbo, e si trovò immerso in una nuvola d’incenso probabilmente tossica, tossicchiò scocciato, mentre all’interno, s’intravedevano bagliori argentei, provenienti dai contenitori sacrali dell’incenso.

Macchie color del sole indicavano la presenza dei tre monaci, nonostante le tapparelle fossero chiuse.

In un angolo  a braccia conserte e con gli occhiali appannati, se ne stava Rebecca con gli angoli della bocca piegati verso il basso.

Il pittore urlava da sopra il pianoforte e con un braccio sembrava benedire i presenti. Oliveiro del canto suo correva attorno al piano in mutande, ringhiando.

Gli agrumi cantavano, in un cupo rombo, sventolando fumi di fragranze fastidiose, e aumentando la nube che riempiva la stanza.

“Che diavolo fanno?” chiese Alberto  stizzito in un udibilissimo sussurro, chinandosi vicino a Rebecca che aveva l’aria traumatizzata.

“Credo stiano cercando di esorcizzarlo…”azzardò la ragazzina.

Entrambi furono colpiti in piena faccia da qualche cosa di viscido e acquoso.

Alberto fece una smorfia prima di passarsi una mano sul viso e guardarla. Era coperta di un liquido abbastanza denso, di colore blu.

“Tempera? Stanno cercando di esorcizzare Oliveiro con della tempera?” sbottò stizzito togliendosi il colore dalle sopracciglia.

Se ne andò grugnendo, mentre Rebecca cercava di pulire gli occhiali nella maglietta altrettanto imbrattata, sperando di riuscire di nuovo a vedere qualche cosa.

Poco dopo anche lei cercò di seguirlo fuori da quell’inferno idiota, barcollando e procedendo a tentoni.

Scese le scale lentamente, senza vedere nulla di ciò che le si parava davanti, e infine si lasciò cadere mollemente accanto a Guendalina, che silenziosa beveva tea alla rosa seduta sull’ultimo gradino. Con in braccio la sua lampada di perline.

La ragazzina sospirò.

“E’ così carino” disse infine in un soffio triste.

“E non ti guarda neanche un po’” aggiunse Guendalina senza un minimo di tatto. Rebecca s’incupì.

“Non hai nulla da dire per aiutarmi?” piagnucolò. Guendalina scosse la testa disinteressata, mentre occhieggiava Alberto che tirava calci stizziti ai bidoni di plastica abbandonati in giardino dai muratori.

Poi si alzò e le porse la tazza che teneva in mano “Finiscilo tu, io ho un cliente… il tea alla rosa stimola la diuresi, è molto utile”

Zio Mino uscì dalla cucina strepitando e sventolando rabbiosamente una teiera, dalla quale uscì parecchio tea.

“Come sarebbe a dire che hai un cliente? Io sono qui da secoli e non lavoro, tu sei tornata in Italia due giorni fa e hai già del lavoro?”

Guendalina alzò le spalle e se ne andò passando sotto il telo di nylon.

 

 

L’utilitaria sulla quale viaggiava Elena Pagano si fermò a lato di un marciapiede, strisciandosi contro il cerchione.

Da dietro qualcuno suonò impertinentemente il clacson, l’autista in risposta mostrò il dito medio, mentre sua moglie attendeva con una mano sulla maniglia.

“Sei sicura di volerci andare?” chiese lui annoiato “Lo sai che penso che sia una cavolata…cosa hai da dire a uno sconosciuto?”

Elena sospirò “Ne abbiamo già parlato… voglio farlo. È il mio primo lavoro vero, e ci siamo trasferiti in una città nuova, solo io e te e…”cominciò, ma suo marito la interruppe.

“Adesso sarei io il problema?” chiese. Elena scosse la testa “Non ho detto questo”

L’uomo sbuffò, non voleva ascoltare oltre “E va bene, fai quello che vuoi… ti aspetto per cena”

Sua moglie scese, e lui non aspettò nemmeno che fosse entrata prima di ripartire stizzito.

La donna lo guardò mentre se ne andava, poi sospirò e si infilò nel portone dietro di lei.

Una signora grassoccia l’accolse da dietro una scrivania bianca con un gran sorriso.

“Lei deve essere Pagano” fece. Elena annuì.

“Terza porta a sinistra”disse la donna con un sorriso.

Elena si avviò a passi lenti e incerti per il corridoio dai soffitti alti.

Era sempre strano. Non era la prima volta che lo faceva. Anche a casa sua le era capitato. Ma era un po’ come se lo fosse. A suo modo era una prima volta anche quella.

Appoggiò la mano sulla maniglia e l’abbassò. Entrò solo con la testa. Come per spiare. Come se avesse potuto scappare all’ultimo momento.

C’era una scrivania dall’aria squallida, una piantina, e una finestra con le tende tirate.

Al centro della stanza stava una donna, appoggiata alla scrivania, come quella nell’atrio.

In mano teneva una lampada di perline.

 

 

 

* идиот = Idiota

 

   
 
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