Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    02/05/2010    3 recensioni
Secondo volume della saga "I Signori dell'Universo" seguito della serie "Nadia: il mistero della pietra azzurra". Nadia, Jean e gli altri sono partiti alla ricerca del significato della pietra che Kurtag ha affidato alla ragazza prima di morire. Winston è impegnato a trovare Nadia, prima che l'Ordine riesca a raggiungerla. Lisa, Michael e Hunter non riescono a rassegnarsi all'idea che la loro amica è là fuori, da sola... e intanto, i misteriosi assalitori che avevano raggiunto Nadia al porto sono ancora a piede libero...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Ehi? C'è qualcuno?»

Con le mani incollate alla parete metallica, Sanson si alzò faticosamente in piedi. Aveva un mal di testa tremendo, e non ricordava nulla. Tutto quello che sapeva, era che si trovava in gabbia, completamente buio. E la cosa non gli piaceva per nulla.

Maledizione...

Non che avesse paura; ma doveva ammettere che risvegliarsi da solo, in quella specie di buco, gli aveva gettato addosso una certa agitazione. Il cuore batteva convulsamente, una sensazione scomoda perché piuttosto nuova per lui, per nulla abituato a simili attacchi di panico. Di solito non aveva difficoltà a mantenere il controllo, o almeno era bravo a dare quest'impressione; ma stavolta, sentiva che le cose avrebbero preso una piega del tutto diversa.

«Ehi! Volete decidervi a rispondermi? C'è qualcuno?»

Tanto per cominciare, non riusciva a controllare le proprie emozioni. Era più forte di lui. Qualcosa, in seguito all'incidente, doveva averlo scosso. O forse era proprio il fatto che non ricordava nulla di quanto fosse successo a lui e agli altri, che lo rendeva tanto ansioso. Perché non ricordava? Ricordare gli avrebbe permesso di capire come fosse finito in quella cella. Ma tutto quello che gli era rimasto, dei momenti terribili che avevano preceduto lo schianto, era il rumore assordante del dirigibile che precipitava, e le grida, tutt'intorno a lui. Solo a pensarci, sentiva ancora il corpo scosso dai brividi e dell'adrenalina. Ma per il resto, niente di niente. Per quanto ne sapeva, poteva benissimo essere morto; e magari quel buco orrendo e pieno di buio in cui si trovava non era nient'altro che il suo personalissimo inferno.

«Hanson! Rebecca! Qualcuno riesce a sentirmi? Jean!» gridò. Ma più urlava, più la sua voce gli suonava debole e ovattata, come se qualcosa in quella stanza, forse il buio stesso, facesse di tutto per risucchiarla. E più chiudeva gli occhi, rifugiandosi contro la parete, nella vana speranza di sottrarsi così a quel buio opprimente, più cresceva l'impressione che qualcosa di invisibile fosse in agguato nell'ombra, qualcosa di strisciante che lentamente lo stava circondando per poi schiacciarlo, inesorabile, tra le sue spire.

Ok, datti una calmata.

Doveva cercare di stare tranquillo. E di pensare.

Forza, fai un bel respiro. Dopotutto, sei ancora vivo.

Aprì gli occhi. Ma il buio che lo circondava da ogni dove lo costrinse dolorosamente a serrarli di nuovo. Odiava il buio. Era l'unica cosa di cui aveva paura, fin da quando era bambino.

Non è niente, non è niente...

Un rumore improvviso lo fece trasalire. Sudava. E la testa gli pulsava da far male.

Si rannicchiò lentamente, portandosi le mani alle orecchie e serrando strettamente gli occhi.

Stai calmo...

Quel rumore...

È solo la tua immaginazione. Devi stare calmo.

Sanson si racchiuse su se stesso, coprendosi la testa con le mani e ravvicinando le ginocchia al petto. Immobile, tremante, combatteva nel suo cuore una battaglia solitaria, contro un nemico invisibile. Ma per quanto lottasse, per quanto cercasse in tutti i modi di chiudere la mente ai propri spettri, essi erano sempre lì, davanti ai suoi occhi e più che mai vivi, a nutrirsi del buio in cui lui si sentiva sempre più sprofondare. E sebbene cercasse disperatamente di sfuggirvi, con gli occhi sbarrati che annaspavano in cerca di una luce qualsiasi, tutto quello che continuava a trovare era solo buio, e ancora buio. E in quel buio, come gli accadeva ogni volta che chiudeva gli occhi da quando era bambino, vide uomini vestiti da soldati irrompere dalla porta di casa sua, tra le grida e il suono secco e perentorio degli spari; e suo cugino, accanto a lui, che trattiene i singhiozzi, mentre lo stringe forte tra le braccia. Al buio, dentro un ripostiglio puzzolente, gli preme forte una mano sulla bocca, quasi soffocandolo.

Zitto, Sanson! Non devi fare rumore.

«Sanson? Ehi, Sanson... sei tu?»

Sanson trasalì. Si volse, cercando di capire da dove provenisse quella voce.

«Hanson?» fece, improvvisamente pieno di speranza. Si terse le lacrime dagli occhi. «Dove sei?»

Un rumore sordo gli giunse dalla parete alle sue spalle. Sanson si volse, tendendo le mani e avanzando con passo incerto finché le sue dita non arrivarono a toccare la liscia parete metallica, proprio di fronte a lui.

«Hanson? Ci sei ancora?»

«Sì, sono qui» rispose l'altro in un sussurro, la voce impastata come se qualcuno l'avesse appena sbattuto giù dal letto. Sanson si avvicinò alla parete dietro la quale si trovava Hanson, tastandola in ogni sua parte. Non c'era traccia di aperture o di maniglie. La voce gli giungeva dall'alto: forse c'era una bocchetta per l'areazione ma era impossibile vederla, con tutto quel buio. Sanson provò ad allungarsi, ma per quanto si sforzasse non trovò nulla.

«Dove siamo?» mugolò Hanson, oltre la parete. «Mi fa male la testa...»

«Siamo in trappola, direi» mormorò Sanson in tutta risposta. Dall'altra parte del muro, sentì le mani di Hanson sfregare ansiose contro la parete.

«Mi sa che hai ragione» ammise Hanson. «Comunque, sono contento di sentirti. Per un attimo, ho avuto paura di essere rimasto solo. Ho anche pensato di essere diventato cieco, pensa un po'».

«Cieco? E perché?» scherzò Sanson, ormai rinvigorito. Continuava a cercare qualcosa lungo la parete, anche se non sapeva bene nemmeno lui cosa.

«Per il buio, no? Che domanda!» fece Hanson. Sanson rise, accorgendosi della preoccupazione che suo cugino tentava di dissimulare.

«Ma quale buio? Non è che sei diventato cieco per davvero?»

Dall'altra parte del muro, Hanson prese ad agitarsi. «Cosa?» gridò, portandosi le mani agli occhi. «O mio dio! Sono cieco? Sono cieco davvero?»

Sanson scoppiò a ridere di gusto. Per quanto la situazione non fosse delle migliori, prendere in giro suo cugino gli aveva fatto riacquistare gran parte della sua consueta spavalderia. Ora che aveva dimenticato tutte le sue paure, si sentiva decisamente meglio.

«Sanson? Sanson, rispondimi... sono cieco? Sono cieco davvero?»

«Smettila di frignare» fece Sanson, ridendo. «Sei proprio un idiota. Ti stavo solo prendendo per i fondelli».

«Razza di cretino» bofonchiò Hanson, decisamente sollevato. «Solo una bestia come te può trovare divertente una situazione simile».

«D'accordo, ora sta' zitto e ascoltami» tagliò corto Sanson. «Vedi se riesci a trovare una porta, o qualcosa del genere».

Per quanto cercassero, né Sanson né Hanson riuscirono a trovare la minima fessura. Le pareti delle celle erano come fuse insieme in un unico, resistentissimo blocco. In preda all'ira, Sanson scagliò un pugno contro il muro, producendo un gran frastuono metallico, che risuonò tutt'intorno in modo assordante. Hanson sussultò, sorpreso.

«Ma che diavolo hai in quella testa?» esclamò. «Vuoi metterci ancora più nei guai?»

«Odio stare qui» ringhiò Sanson, appoggiato alla parete con i pugni stretti «chiusi in questa maledetta gabbia, come fossimo cavie».

«Lo so, io...» Hanson abbassò la voce. «Senti» domandò, titubante «che ne sarà degli altri? Voglio dire... pensi che stiano bene?»

Sanson si prese un po' di tempo prima di rispondere. Quella era una cosa a cui effettivamente non aveva ancora pensato. L'eventualità che potesse essere accaduto loro qualcosa non l'aveva nemmeno sfiorato, almeno fino a quel momento.

«Certo che stanno bene» fece, elusivo. «Perché non dovrebbero?»

«E allora perché non sono qui con noi?»

«Forse non si sono ancora svegliati. Ma che domande mi fai?» rispose Sanson, piuttosto seccamente. «Cosa vuoi che ne sappia...»

Effettivamente era molto strano, ma il fatto che gli altri del gruppo non fossero lì con loro, non significava nulla. Magari era vero che non si erano ancora svegliati, e che erano lì, in qualche cella accanto alla loro, sani e salvi. Solo che lui e Hanson non potevano sentirli.

«Sarà» fece Hanson, poco convinto. «Ma se...»

«E smettila di pensare a queste scemenze» lo interruppe Sanson, con una foga che suonò eccessiva persino a lui. «Vedrai che stanno tutti bene. Per il momento il nostro problema è un altro, e cioè come uscire di qui».

Con un improvviso scatto metallico, la porta della cella si aprì e una violenta luce bianca investì Sanson in pieno. Lui chiuse gli occhi, sollevando istintivamente il braccio, a cercare riparo da quella luce abbagliante.

Deglutendo nervosamente, Sanson si costrinse a guardare: ferma sulla soglia, intravide quella che gli pareva una figura sottile, niente più che un'ombra affilata che tagliava in due la luce. Fu solo quando dei fari si accesero all'improvviso, illuminando la cella di una fredda luce giallognola, che Sanson, sbattendo confuso le palpebre, riuscì a distinguere in quell'ombra allungata il corpo elegante di una giovane e bellissima donna. Smarrito, rimase a guardarla come paralizzato dalla sua stupefacente bellezza: ma più la osservava, più notava che quel suo volto all'apparenza così pallido e delicato risultava, allo stesso tempo, duro e freddo come porcellana. Solo i suoi occhi, per quanto lei si mostrasse lontana e irraggiungibile nella sua compostezza, tradivano il segreto di un'anima profondamente inquieta, che lui riconobbe subito perché così simile alla sua. E se ad un primo sguardo anche quei suoi occhi straordinari potevano sembrare fissi e inespressivi come il resto del volto, ecco che un improvviso bagliore arrivava allora a colpirli, facendoli così splendere come vetro fuso, dietro il velo di apparente ritrosia a cui si nascondevano.

Lei entrò, seguita da due uomini in uniforme: e Sanson, nel trovarsela improvvisamente così vicina, avvertì qualcosa di strano emanare da quel corpo tanto perfetto, ma vuoto. Un'aura di mistero e di inflessibile solitudine aleggiava attorno a quella donna dall'aspetto inespugnabile. Era solo una sensazione, ma di quelle che da sempre Sanson aveva imparato ad ascoltare, fin da quando si era trovato, ancora bambino, a dover lottare per poter sopravvivere. E anche in quel momento, il suo istinto gli fece vedere ciò che altre volte in passato lo aveva spinto a voltarsi e fuggire, senza pensarci due volte. C'era qualcosa di strano in quella donna, qualcosa che puzzava terribilmente di morte e di sofferenza e che gli ricordava tutto ciò che di più terribile aveva vissuto, nella sua vita disordinata. Lo avvertì chiaramente: e mentre lei lo fissava in quel modo inesplicabile, quasi si trovasse di fronte a un oggetto inanimato e senza valore alcuno, Sanson indietreggiò di un passo, desiderando con tutto se stesso di sottrarsi a quello sguardo gelido e terrificante al tempo stesso.

«E voi chi diavolo siete?» ringhiò, come una bestia in trappola. «Si può sapere perché ci avete rinchiuso qui come cani?»

«Érkou» rispose lei, quasi in un sussurro. Davanti a quella voce inaspettatamente rassegnata, Sanson socchiuse gli occhi scuotendo il capo, sorpreso.

«Cosa?»

«Kinou!» disse lei, di nuovo. E i lineamenti del suo volto si fecero all'improvviso più duri e taglienti.

«Io non...»

«Sfò» fece la donna, rivolgendo alle due guardie un'occhiata annoiata ma decisa. «Labeté auton».

Lei si fece da parte, lasciando che i soldati entrassero nella cella. In men che non si dica, Sanson si ritrovò completamente immobilizzato e trascinato fuori per le braccia a viva forza. Dall'altra parte della parete, Hanson, al buio, continuava a premere l'orecchio contro il muro, cercando disperatamente di capire cosa stesse accadendo.

«Sanson! Ehi, Sanson» gridò allarmato, picchiando a mani aperte contro la parete. «Cosa succede? Chi c'è lì con te? Sanson!».

«Lasciatemi!» ruggiva Sanson. «Dove credete di portarmi, maledetti?»

Senza alcun preavviso, la donna estrasse qualcosa dalla cintura, un piccolo oggetto metallico dalla forma affilata. Con un movimento veloce e aggraziato lo puntò al collo di Sanson fissandolo dritto negli occhi. Non appena lui ne avvertì il tocco gelido, una fortissima scossa gli attraversò più e più volte tutto il corpo. Gli occhi freddi e spenti di lei furono l'ultima cosa che vide, prima di cadere svenuto.


*


«Signora?»

Nadia si volse. Una giovane donna che non aveva mai incontrato prima se ne stava in piedi davanti a lei, con la testa china sul petto e lo sguardo fisso a terra. Nadia le rivolse uno sguardo tra il sorpreso e il curioso. Aveva appena terminato di vestirsi: era ancora piuttosto debole, ma non ce la faceva più a restare confinata a letto. Voleva incontrare i suoi amici.

«Oh, salve... non mi ero accorta che fosse entrata» disse. «Mi chiedevo...».

«Il comandante mi ha pregato di portarvi i suoi saluti e le sue felicitazioni per la vostra riacquistata salute».

«Sì... ringraziatelo e...»

«Mi è stato ordinato di assistervi per tutto il tempo necessario. Sono ai vostri ordini».

Nadia scosse nervosamente la testa. Perché quella donna non la lasciava parlare?

«Mi ascolti, io...»

«Prego, voglia seguirmi da questa parte».

Lei restò a fissarla senza parole. Il suo era senz'altro uno strano concetto di disponibilità... sembrava del tutto decisa a non rispondere a nessuna delle sue domande, anzi: probabilmente non le avrebbe nemmeno permesso di porle qualche domanda. Piuttosto seccata, Nadia si risolse comunque a seguirla. E mentre camminavano in silenzio lungo uno stretto e tortuoso corridoio, Nadia osservava pensierosa quel suo procedere a piccoli passi veloci, con la testa perennemente rivolta verso il basso. Persino quelle poche volte in cui riusciva a farla parlare, lei non alzava mai gli occhi: ma se era possibile chinava ancora più la testa, quasi avesse paura di incrociare lo sguardo di chi aveva di fronte; e rispondeva elusivamente, con voce morbida e lenta, quasi volesse soppesare con attenzione ogni parola ed evitare di dirne una più del necessario.

«Ecco, vogliate entrare» disse ad un tratto. Nadia si sporse a guardare: una porta si aprì all'improvviso davanti ai suoi occhi, emettendo solo un leggero sbuffo, come se scivolasse sull'aria.

«Dove mi ha portato?» chiese. La ragazza si fece da parte, inchinandosi e indicando l'entrata.

Nadia varcò la porta. Esterrefatta, si rese conto di trovarsi in quello che era senza dubbio uno splendido bagno, il più bello che avesse mai visto. Un'enorme vasca dalle pareti riccamente decorate con fili d'oro campeggiava al centro della stanza, e da essa si levava un denso vapore profumato, che calava come una morbida cappa voluttuosa su tutta la stanza. Era talmente fitto che era quasi impossibile scorgere le finissime e particolari decorazioni che adornavano tutta la stanza: ma Nadia intravide chiaramente i raffinati interni di marmo pregiato, le mattonelle di ceramica lavorata, e l'elegante mosaico con cui era decorato tutto il pavimento. Si volse a fissare la ragazza, a bocca aperta.

«Non capisco...»

«Il comandante vi cede con umiltà il suo bagno privato, nella speranza che vi piaccia utilizzarlo» disse lei con deferenza. «Ho provveduto a fornirvi asciugamani puliti e alcuni vestiti che spero possiate apprezzare, sebbene siano molto miseri e del tutto inadeguati alla vostra persona. Vi chiedo umilmente scusa, ma a bordo non possediamo nulla di meglio, al momento».

Nadia non seppe cosa rispondere. Continuava a guardare alternativamente la ragazza e il bagno, letteralmente senza parole.

«Per qualunque cosa, resto a vostra disposizione. Il comandante Atys Nepheptim si augura che possiate trovare ristoro e che una volta riposata, se ne avrete voglia, possiate raggiungerlo sul ponte principale».

«Io...»

«Attenderò qui fuori, in caso abbiate bisogno».

Nadia fissò ammutolita la ragazza, che fece per uscire senza voltarsi, mantenendo la testa china.

«Un momento».

La ragazza si arrestò di colpo, profondendosi velocemente in un tale inchino che fu come se si fosse spezzata su se stessa. Nadia le sgranò gli occhi addosso, profondamente scossa da quel suo timore quasi reverenziale.

«Dove sono le persone che erano con me?» domandò, piuttosto turbata. «Credevo mi avreste portato da loro».

«Stanno bene e sono trattate come ospiti di massimo riguardo» disse, inchinandosi ancora di più. «Il comandante mi ha pregato di assicurarvi che incontrerete i vostri amici non appena lo raggiungerete sul ponte».

«E la donna?» chiese Nadia. «La donna che mi ha curato... dov'è? Vorrei ringraziarla».

«Porgerò personalmente i vostri ringraziamenti al tenente Anuri» disse lei, con la massima deferenza. «Sono certa che ne sarà lusingata».

Dunque è così che si chiama.

«Avete bisogno di altro?» chiese la ragazza, senza alzare gli occhi. Nadia la squadrò, seccata. Quell'atteggiamento di esagerata ed estrema umiltà cominciava a darle parecchio sui nervi. Trovava detestabile che qualcuno potesse spingersi a trattare un altro essere umano con tale deferenza, arrivando a perdere completamente il senso della propria dignità.

«Sì» rispose, secca «vorrei che non si inchinasse in quel modo davanti a me, mi mette a disagio. Sono solo una donna, non un'imperatrice. E per di più sono vostra ospite. Dovrei essere io a ringraziare, non voi».

La ragazza sollevò gli occhi, in silenzio. Nel vederla confusa, Nadia si chiese se non fosse stata troppo brusca nel riprenderla.

«Per favore» aggiunse, giungendo le mani quasi a volersi scusare. La ragazza si riscosse e distolse subito lo sguardo.

«Come desiderate» disse, umilmente. «Vi chiedo sinceramente perdono».

E senza alzare la testa né voltarsi, uscì.


*


Marie fissava con curiosità l'oblò alla sua porta. Ogni tanto vedeva qualcuno passarvi davanti, un'ombra veloce che si trascinava dietro parole incomprensibili e qualche risata. Ma nella monotonia dell'attesa, anche quello rappresentava pur sempre una specie di novità.

Si trovava rinchiusa insieme ad Alex e Rebecca in una stanza che, a dire il vero, era piuttosto piccola per tutte e tre; ma almeno avevano due brandine e una caraffa d'acqua, sul tavolo. Tuttavia, nessuna di loro aveva ancora osato toccarla: e sebbene Marie stesse morendo di sete, sia Rebecca che Alex le avevano proibito di bere, perché temevano entrambe che nell'acqua vi potesse essere disciolto qualcosa di pericoloso.

Rebecca stava seduta sulla branda alle spalle di Marie. Le gambe accavallate, faceva ondeggiare ritmicamente la gamba destra, provocando il fruscio sordo e costante delle sue sottane, con cui riempiva tutta la stanza, per il resto avvolta da un totale silenzio. Alex se ne stava a capo chino, seria e con il volto tirato, seduta sul pavimento accanto a Marie. La bambina le rivolse una rapida occhiata, senza volgere la testa. Poi tornò a fissare l'oblò, con gli occhi fissi, come stregata.

Una persona passò. Qualcuno si fermò a parlare, fuori dalla porta. Marie ne vedeva l'ombra proiettata sul muro e ne sentiva la voce, che le giungeva attutita dal vetro e dall'acciaio. Il volto di un uomo si affacciò all'oblò: scrutò all'interno con scarsa attenzione, per poi sparire velocemente così com'era apparso. Gli occhi di Marie si dilatarono. Sentiva che stava per accadere qualcosa.

Ci fu un vociferare, e alcune persone risero. Qualcuno canticchiava qualcosa. Marie chinò la testa di lato, incuriosita. Improvvisamente, tutto tacque. Si avvertì un rumore fitto di passi e alcune persone sfrecciarono velocemente davanti al vetro. Dopo poco, la serratura scattò.

Rebecca si rianimò, irrigidendosi e drizzando il busto. Alex sollevò lentamente lo sguardo, stringendo gli occhi verso la porta.

Una giovane donna, accompagnata da due guardie, si affacciò sulla soglia, squadrando distrattamente i presenti. Fissò prima Rebecca e poi Alex; quindi si soffermò su Marie, che la fissava seduta sul pavimento, con la bocca stretta e lo sguardo affilato.

«Humeis» disse la donna con un sospiro «eparkòustze».

Rebecca e Alex si scambiarono uno sguardo interrogativo. La donna le fissò a turno, quindi «akolùze!» fece, con il volto tirato.

«Senti, carina, non capiamo una parola di quello che dici» fece Rebecca, muovendo annoiata la mano. «Quindi o ti spieghi a gesti, o sarà meglio se ti cerchi un interprete».

«Ek podòn, dùle!» sibilò la donna, livida, avventandosi su di lei e levando una mano per colpirla al volto. Rebecca, stupefatta, si volse istintivamente, alzando il braccio per proteggersi con il gomito. Ma il colpo non arrivò mai. Marie era balzata in piedi a frapporsi tra le due, le mani alzate, e fissava con occhi che le brillavano di determinazione il volto della giovane donna.

«Bàinomen» disse. La donna abbassò lo sguardo su di lei, incredula, gli occhi dilatati per la sorpresa e la mano ancora levata a mezz'aria. Marie aveva i muscoli del volto ancora contratti, perché aveva parlato con una certa insicurezza. Ma non appena vide la reazione positiva della donna, si fece coraggio; e con un sospiro «Hemeis... Hemeis bàinomen» ripeté.

Rebecca e Alex si scambiarono uno sguardo sorpreso. La donna restò a fissare la bambina, che aveva ancora le mani levate e uno sguardo vivido e deciso. Il volto le tremava per l'emozione, ma sembrava molto sicura di sé.

La donna abbassò la mano, lentamente. E con un lieve cenno di assenso, restò a fissare Marie, con gli occhi socchiusi. Quindi si volse verso Rebecca, e il viso si fece subito duro.

«Vuole che la seguiamo» disse Marie. Rebecca la fissò esterrefatta, ma si alzò in piedi, senza aggiungere nulla. La donna, allora, si volse e uscì dalla stanza, fermandosi sulla soglia per assicurarsi che la seguissero. Alex, Rebecca e Marie si mossero dietro di lei, seguendola lungo uno stretto corridoio, illuminato da fredde lampade dalla luce incandescente.

«Si può sapere dove hai imparato a parlare la loro lingua?» sussurrò Rebecca all'orecchio di Marie. Anche Alex rivolse alla bambina uno sguardo obliquo.

«Sembra greco antico» fece Marie, in un sussurro. «Quando l'ho sentita parlare, mi è subito venuta in mente suor Genéviéve, e le sue orrende lezioni di greco».

Rebecca si raddrizzò, sorpresa. «Credevo che andassi male, in greco» disse. Marie scosse il capo, senza distogliere gli occhi dalle spalle della donna che li guidava.

«Non sono mai andata male. Facevo finta. Era suor Genéviéve che non mi piaceva, ma io in greco sono sempre stata brava. Suor Caterina mi passava di nascosto i libri delle commedie di Aristofane. Alla fine ero diventata capace di leggerli in greco da sola... erano divertenti».

«Ma pensa un po'» borbottò Rebecca.

«Eis odòn» fece all'improvviso la donna, indicando una porta. «Kinòuesze».

«Vuole che entriamo qui, in fretta» fece Marie. Rebecca, Alex e la bambina si affacciarono alla porta. Era tutto buio. Vennero spinte dentro a forza e la porta sbattuta alle loro spalle. Impaurite, si strinsero tra di loro, facendo vagare inutilmente gli occhi nel buio della stanza, senza sapere cosa aspettarsi. Si accesero dei fari: le tre si ripararono gli occhi, feriti dall'inattesa intensità della luce; e quando li riaprirono, videro con sorpresa una grande vasca, colma d'acqua calda. Rebecca lanciò un grido, percorsa da un brivido di eccitazione.

«Ci hanno preparato il bagno!» esclamò. E in men che non si dica, era già immersa nella vasca.


*

Di nuovo sola, Nadia si avvicinò alla vasca e si chinò, sedendosi sul bordo e sfiorando l'acqua con la punta delle dita. Era piacevolmente calda, ed emanava un intenso profumo di essenze floreali. Nadia aspirò, sorridendo. Era così invitante...

Si spogliò e si immerse. Il corpo le doleva ancora, e lo sentiva tutto indolenzito. Ma non appena l'acqua arrivò a lambirle i fianchi e la schiena, si sentì subito meglio. Si sedette sul fondo, e reclinò la testa all'indietro, appoggiandola sul bordo. Chiuse gli occhi. Era come rinascere a una nuova vita.

Non seppe quanto restò lì. Si era lentamente abbandonata a quel tepore avvolgente e rassicurante, finché il sonno non l'aveva colta all'improvviso. Fu un sogno inaspettato a svegliarla, bruscamente. In quel sogno, aveva visto Jean. Non era durato molto, ma fu sufficiente a farla svegliare di soprassalto, decisamente turbata. Si era completamente dimenticata che lui era scomparso. Come aveva potuto farsi un bagno, rilassarsi, o anche solo stare bene, quando lui poteva essere ovunque, solo e ferito...

O forse persino...

Nadia chiuse gli occhi e volse la testa, disgustata dal suo stesso pensiero. Si rifiutava di pensare una cosa simile. Ma fu allora che, nel profondo del suo cuore, un pensiero inaspettato ed orribile le si affacciò alla mente, sorprendendola e scioccandola.

La fine. La fine di tutte le sue pene. Con la sua morte, lui la lasciava libera.

No...

Eppure era così. Negli ultimi cinque anni, Nadia si era progressivamente liberata dal peso ingombrante di lui. Era riuscita a trovare se stessa, e a capire cosa voleva dalla propria vita. Si era resa conto che se era rimasta così a lungo con Jean, era solo per senso di gratitudine, per quello che lui aveva fatto per lei, e perché era stato l'unico ad averla mai amata per quello che era. Almeno finché non aveva incontrato Jonathan. Era stato lui a svegliarla, e a riportarla alla vita. Alla sua vita.

No, non è così...

E invece, per quanto odiasse ammetterlo, era così. Non amava Jean, gli voleva bene, certo... ma l'amore? L'amore era diverso, era quello che provava per John. Ma era consapevole che non avrebbe mai potuto abbandonarsi liberamente a quel sentimento, se prima non si fosse scaricata del peso della gratitudine che doveva a Jean. Lui aveva abbandonato tutto per lei. Era qualcosa che la soffocava, ogni giorno, facendola sentire in dovere di contraccambiare, e in colpa se non lo faceva.

Se è morto, il suo pensiero non ti tormenterà più. Sarai libera di dimenticare, libera di vivere senza sentirti in colpa...

«Basta!» gridò, prendendosi il volto tra le mani. In preda all'orrore, Nadia picchiò i pugni chiusi sull'acqua, schizzandola ovunque. Come poteva anche solo pensare una cosa del genere?

La verità è un'altra, e la sai bene.

Nadia aprì lentamente gli occhi, fissando il pallido riflesso del suo volto nell'acqua. Quei pensieri non erano che il vano tentativo di nascondere una verità molto più scomoda, e lei lo sapeva. Stava fuggendo, ancora una volta; anche se stavolta aveva scelto un modo davvero orribile, che le provocò il disgusto di se stessa.

Le tue sono solo scuse...

Improvvisamente triste, sorrise. Lei lo amava. Era inutile negarlo. Se n'era accorta dal primo momento in cui l'aveva rivisto. Anzi, era più esatto dire che era stato il suo corpo ad accorgersene. Era solo la sua razionalità che continuava ad opporsi. Ma il corpo non mentiva. E quello sconvolgimento misterioso e segreto, che la attanagliava ogni volta che incrociava il suo sguardo, scuotendola e scaldandola come terra riarsa dal sole, non potevano essere solo menzogne, o una sua semplice illusione. Il suo cuore, il corpo tutto si risvegliava, pulsante come la terra, forte come la terra, schiacciato sotto il fuoco vivo dei suoi occhi. Era quella, la vita. La sola che lei voleva conoscere. Una vita impossibile, e sublime al tempo stesso.

Nadia si coprì il volto con le mani. Quanto avrebbe voluto averlo lì, di fronte a lei... chiuse gli occhi, cingendosi tra le braccia e sprofondando lentamente nell'acqua. Immaginò che quelle braccia che la stringevano fossero le sue, quelle di lui: e sue le mani che le sfioravano le spalle nude, e il collo...

Era tutto così nuovo, e strano. Avrebbe voluto stringerlo tra le braccia, tra le gambe, fino ad abbracciarlo con tutto il corpo e con tutta se stessa; e placare finalmente quell'arsura che la torturava con tutti i baci che il tempo aveva loro malvagiamente rubato.

Ma cosa mi sta succedendo?

Il cuore le batteva all'impazzata. Sentiva la gola secca. Sembrava che il suo corpo vivesse una vita sua, che lei non poteva controllare, ma solo assecondare o combattere. Ma era così dolce il solo pensiero di lui, che se solo lui fosse stato lì, lei gli si sarebbe abbandonata senza riflettere, anche se la paura la attanagliava e la scuoteva, pur inebriandola nel mistero di quell'estasi.

Ma lui non c'è.

Con un sospiro, Nadia cercò di scacciare quei pensieri dalla sua mente. Ritrovare Jean, dopo tutto quel tempo, era stato come ritrovare se stessa. Ma era troppo tardi per tornare indietro. Lui era così diverso e anche lei... e poi, c'era John e le sue responsabilità verso di lui. Ma soprattutto, lei aveva un dovere verso se stessa. Scegliere Jean significava compiere un passo indietro. E lei lo sapeva.

Ma Jean è sparito. Ed è solo colpa mia.

Quel pensiero la tormentò, agitandola e riscuotendola definitivamente. Non poteva più restare lì, come se nulla fosse. Doveva rivedere gli altri, assicurarsi che stessero tutti bene; poi avrebbe chiesto a quella brava gente che li aveva salvati di aiutarla a cercare Jean. Li avrebbe supplicati in ginocchio, se fosse stato necessario. Era quello ciò che il suo cuore le suggeriva.

Ma la paura di ciò che sarebbe successo, sia che l'avesse ritrovato, sia che non l'avesse ritrovato, le tolse ogni respiro.


*


Sanson si risvegliò bruscamente. Scosse la testa, sputando l'acqua che gli si era infilata in bocca e su per il naso.

«Ek podòn, dùle. Pros ton téikon».

Sanson alzò gli occhi, rabbioso. Tre guardie lo fissavano ridacchiando dall'alto. Una di loro aveva un secchio in mano e lo agitava tenendolo per il manico.

«Tode bòule eti?» lo irrise quello, mostrandogli il secchio. Per tutta risposta, Sanson sputò per terra, fissandolo dritto negli occhi. L'uomo si rabbuiò e levò il secchio, colpendolo al volto con violenza.

Sanson si rialzò lentamente a sedere, tendendo le corde che gli bloccavano le mani dietro la schiena. Sentiva il sapore ferrigno del sangue sulle labbra e vi passò lentamente la lingua, ridendo, e senza mai distogliere gli occhi dal volto di quell'uomo.

«Slegami e vedrai, maledetto vigliacco» sibilò. L'uomo fece per colpirlo ancora, ma uno degli altri lo fermò. Qualcuno stava facendo il suo ingresso. Sanson, che non si era nemmeno accorto del luogo in cui si trovava, ne approfittò per guardarsi intorno: era una specie di lavatoio, ricoperto da piastrelle sbeccate ma pulite. C'erano delle fosse per l'acqua e un grosso lavabo. Sembravano le docce di un reggimento.

Con sua grande sorpresa, Sanson vide entrare Hanson e John. Entrambi avevano le mani legate dietro la schiena, ma non sembravano messi male. Solo Hanson pareva piuttosto scosso, e si guardava intorno con i lucidi occhi bovini, evidentemente disorientato. John, al contrario, sembrava perfettamente lucido e calmo. Fissava discretamente intorno a sé, senza soffermarsi mai troppo a lungo sul volto di qualcuno. Era evidente che sapeva come comportarsi in casi come quello e che conosceva la prima regola di sopravvivenza in galera: mai dare al proprio carceriere l'occasione di arrabbiarsi.

«Sanson! Ma che ti hanno fatto?» esclamò Hanson, avvicinandosi preoccupato al cugino, che sedeva per terra zuppo e con il volto sporco di sangue. Una guardia gli sferrò un calcio a una gamba, facendogli perdere l'equilibrio: Hanson cadde, lanciando un grido di sorpresa.

«Lascialo stare, capito?» ringhiò Sanson, che fece per alzarsi. Ma una guardia fu più veloce e lo colpì con il piede allo sterno. Sanson si afflosciò a terra, senza respiro.

«Ek podòn! Katatìze ta èimata».

«Vogliono che ci spogliamo» mormorò John. Hanson si rialzò faticosamente, rivolgendogli uno sguardo corrucciato.

«E tu che ne sai?»

«Guardati intorno» sibilò John, a denti stretti. «Siamo nelle docce. Mi sembra ovvio che vogliano lavarci, no?»

«Katatìze ta èimata!» fece una guardia, afferrandosi la giacca dell'uniforme e strattonandola.

«Sembra che tu abbia ragione» fece Hanson. «Speriamo solo che sia davvero così».

Le guardie fecero alzare Sanson, quindi slegarono i tre, tenendoli sotto tiro con delle armi simili a dei lunghi bastoni, sulla cui punta si trovava un aggeggio simile a quello che era stato usato contro Sanson. Lui rabbrividì, tenendosi a distanza.

«Ne ho già avuto abbastanza di quello» disse sommessamente agli altri, mentre si spogliava, ed indicando con la testa verso una delle lance elettriche. «Vi consiglio di fare in modo di non costringerli ad usarlo».

«Kinòuesze!» ruggì una guardia. I tre si affrettarono e non appena furono completamente nudi, vennero spinti contro il muro. Una delle guardie afferrò un manicotto d'acqua e aprì il rubinetto, indirizzando il getto contro di loro. Una colonna d'acqua ad altissima pressione arrivò a colpirli in pieno. Era fredda gelata; e il getto era talmente violento, che sembrava strappasse via la pelle. I tre lanciarono un grido soffocato sotto lo sguardo divertito delle guardie, che fecero loro segno di girarsi mimando un balletto.

«Prima o poi me la pagherete anche per questo, maledetti» gridò Sanson, prima che uno spruzzo in pieno volto gli chiudesse la bocca.


*


«Signore, è tutto pronto».

Atys si volse. Faloe era in piedi davanti a lui, e aspettava che il suo comandante le impartisse nuovi ordini.

«Bene» rispose. Sospirò. Con le mani dietro alla schiena, percorse a passo deciso il ponte di comando, andando a raggiungere la grande vetrata alle sue spalle. Oltre il vetro, e più in basso, poteva osservare non visto i suoi nuovi ospiti. Erano stati fatti ricongiungere secondo i suoi ordini, dopo essere stati lavati e rivestiti con abiti puliti.

«Quell'uomo è ferito» fece con una smorfia, notando il volto tumefatto di Sanson. «Chi è il responsabile?»

«Una delle guardie» rispose Faloe, che intanto aveva raggiunto in silenzio il suo posto accanto a lui. «È già stata punita».

«Ottimo».

Atys restò in silenzio a fissare i loro volti. Sembravano felici. Nonostante si trovassero in una situazione spiacevole, il semplice fatto di essersi rincontrati sembrava riempirli di gioia.

«L'emozione...» mormorò «...è qualcosa di così strano e prevedibile». Faloe sbatté le palpebre, fissandolo sorpresa.

«Come dice?»

Lui scosse il capo. «Nulla. Stavo solo riflettendo».

«Signore, la bambina che è con loro parla la lingua degli schiavi» confessò Faloe all'improvviso. Atys inarcò un sopracciglio, e si mise a cercare la bambina con gli occhi. La vide che sorrideva, mentre parlava animatamente con una giovane donna dai lunghi capelli scuri.

«Davvero?»

«Non molto bene, a dir la verità. Ma è in grado di capire quello che le viene detto».

«Questo potrebbe esserci utile» commentò lui. Faloe abbassò lo sguardo su Marie. C'era qualcosa in quella bambina che la incuriosiva. O forse si stava solo ingannando. Comunque, sentiva il bisogno di avvicinarla, prima che...

«Vorrei poter parlare con lei, se me lo consente».

«Perché?» fece lui, voltandosi deciso.

«Potrebbe dirci qualcosa sul suo mondo, e...».

Atys gonfiò il petto, voltando le spalle ad esaminare alcune carte che l'ufficiale di bordo gli stava porgendo in quel momento.

«Non è sua sorella, Faloe» disse, freddamente. «Sua sorella è morta».

«Lo so, signore» fece lei, abbassando gli occhi con un brivido.

«È stata gente come quella ad ucciderla. O se n'è già dimenticata?»

«No, signore».

«Allora vuole spiegarmi il perché della sua richiesta?»

Lei fissò Marie, con gli occhi che le brillavano. «È una bambina...»

«No, è una schiava».

«Certo, signore, ma...»

«Ora basta, Faloe. La bambina subirà la sorte degli altri. Questo è fuori discussione. Il solo motivo per cui sono ancora vivi è che possono tornarci utili, e questo lei lo sa meglio di me».

Lei annuì. «Certamente, signore. Perdoni la mia impudenza. Sono stata una sciocca».

«Non c'è nulla da perdonare» fece lui sbrigativo, riconsegnando le carte all'ufficiale di bordo e allontanandolo con un cenno della mano. «Lei forse penserà che io non comprenda i suoi sentimenti, ma invece li comprendo benissimo. Proprio per questo le proibisco di fare quello che mi chiede».

Lei sorrise, mesta, nascondendo il pallore che aveva assunto il suo volto dietro un inchino rispettoso. «La ringrazio, comandante» disse semplicemente.

In quel momento, la porta principale si aprì all'improvviso e Atys si volse giusto in tempo per vedere la figura slanciata di Nadia fare il suo timido ingresso sul ponte. Non appena lei ebbe varcato la soglia, tutto l'equipaggio si alzò in piedi come ad un preciso comando, volgendosi a guardarla e inchinandosi prontamente. Nadia, stupefatta, si guardò intorno disorientata, fissando uno per uno i membri dell'equipaggio. Ma non appena incontrò lo sguardo di Atys, che le sorrideva fiero e orgoglioso dal suo posto accanto alla plancia di comando, i suoi occhi si dilatarono, e lei sbiancò.

«Lei!» esalò, terrea.

«Lieto di rivedervi» fece Atys, sinceramente. Nadia indietreggiò. Fece per voltarsi, ma due guardie le bloccarono il passaggio, evitando tuttavia di guardarla in volto in segno di rispetto. Lei si voltò, indirizzando ad Atys uno sguardo rabbioso.

«Dunque è così» disse. «Alla fine è riuscito nel suo intento. Sono sua prigioniera».

In tutta risposta, Atys fece un cenno con la mano e le due guardie si dileguarono. Nadia restò comunque ferma al suo posto a fronteggiarlo, fiera.

«Non volete vedere i vostri amici?» le disse lui.

«Che gli avete fatto?» domandò Nadia, furiosa. «Lasciateli andare, subito».

«Venite» fece Atys, con un sorriso tranquillo. «Venite a vedere».

Nadia si avvicinò titubante. Camminava lentamente, con le mani giunte, senza perderlo di vista; ma non appena raggiunse la vetrata, perse ogni residua riluttanza; e appoggiandosi al vetro spesso e freddo con le mani aperte, rimase come incantata a guardare i suoi amici. Erano tutti lì, davanti a lei, riuniti nella stessa stanza. Sembravano sereni e mangiavano seduti tranquillamente attorno a un tavolo, serviti e riveriti. Nel vederli così rilassati, Nadia si sentì subito sollevata. Un sorriso le si allargò sul volto e alcune lacrime le rigarono le guance.

«Come potete vedere, stanno tutti bene» sussurrò Atys. «Se vorrete, più tardi vi porterò ad incontrarli».

Nadia lo fulminò con lo sguardo.

«Cosa c'è dietro? Che razza di trappola sta tramando?»

Lui aggrondò, e un lampo balenò nei suoi occhi color del ghiaccio. «Non c'è nessuna trappola, ve lo assicuro».

«Ma per favore!» sbuffò lei. L’uomo sospirò profondamente, come rassegnato. Quindi fece un rapido cenno; e un attimo dopo un soldato apparve, recando tra le mani un vassoio ricolmo di antipasti dall'aspetto delizioso.

«Gradite qualcosa da mangiare? Dovete avere molta fame, immagino».

Nadia lo fissò stupita. Quindi «Non voglio niente da lei, maledetto assassino» sibilò, livida.

«Non capisco la vostra ostilità» disse lui, chinando il capo e scacciando con un gesto ruvido il soldato, che si dileguò in silenzio.

«Capire?» fece lei, scuotendo il capo. «Cosa c'è da capire?»

«Se solo mi permettete di spiegare quali ragioni...»

Senza alcun preavviso, Nadia si scagliò contro di lui, schiaffeggiandolo. Atys, gelato da quel gesto tanto rapido quanto inaspettato, restò a fissarla immobile, profondamente sorpreso. Faloe, accanto a lui, osservava i due con gli occhi sgranati.

«Non c’è nulla di quello che può dirmi che possa interessarmi» sibilò Nadia. «Lei è solo un assassino, un mostro. E io la disprezzo».

«Voi mi offendete, Maestà» affermò lui, teso. Si sentiva sotto pressione. Non era abituato ad essere trattato così, e detestava che accadesse davanti ai suoi uomini. Ma più guardava Nadia, più restava sorpreso di trovare nei suoi occhi un'energia e una forza per lui del tutto sconosciute. Si chiese da dove lei le tirasse fuori, con un fisico così delicato, e dopo tutto quello che le era successo. Sembrava non essere per nulla spaventata dalla situazione in cui si trovava, e questo lo colpì profondamente più di qualsiasi altra cosa: forse, per la prima volta in vita sua, aveva finalmente trovato qualcuno che poteva ritenere alla sua altezza, qualcuno che non aveva paura di lui e che osava affrontarlo da pari a pari; ed era proprio quella ragazza così apparentemente fragile e inconsapevole che ora gli si trovava davanti, e che lo guardava con l'autorità e il distacco propri di un re, o di dio.

«La offendo?» rispose Nadia, sogghignando. «No, è lei che offende me con la sua presenza. Lei ha ucciso un uomo, un mio amico, e ha persino tentato di uccidere me! E ora ha la faccia tosta di venirmi a parlare di spiegazioni?»

«Voi non mi lasciate spiegare...»

«Io so già tutto quello che c’è da sapere!» gridò lei. «Voglio andarmene da qui, subito! E voglio farlo insieme a quelle persone!»

Atys la fissò duramente. «Sono desolato, ma questo non è assolutamente possibile».

Nadia sembrò calmarsi improvvisamente, ma il respiro ancora affannoso continuava a sollevarle pesantemente il petto. Fissava l’uomo di fronte a sé con occhi simili a braci incandescenti.

«Ha fatto presto a cambiare il suo atteggiamento, non è così?» fece poi, sorridendo beffardamente. «Dov'è finita tutta la sua cortesia?» Lui indurì il volto.

«Siete stata voi a costringermi» rispose, asciutto. «Io avrei voluto che questa conversazione potesse svolgersi ben diversamente; ma continuo a trovare il vostro atteggiamento alquanto insolente e capriccioso».

«Quindi, dal momento che non sono disposta a fare quello che vuole, non trova nulla di meglio che impedirmi di andarmene?» ironizzò Nadia.

«Il mio dovere mi impone di trattenervi» fu la sua risposta secca. «E mi scuso per questo».

Nadia gli si avvicinò allungando il volto verso di lui, le labbra leggermente dischiuse a un centimetro dalle sue. Gli era tanto vicina, che lui poteva sentire il profumo della sua pelle.

«Ci si strozzi, con il suo dovere» gli sussurrò lei, con gli occhi splendenti di fierezza e dignità fissi nei suoi e un sorriso sprezzante dipinto sul volto. Atys sorrise. Trovava estremamente affascinante quella sua presunzione. La ammirava, ne ammirava la regalità e la bellezza disarmante. Era una donna fiera, caparbia, che non aveva paura di nulla. Un essere strano e quasi sovrannaturale, a cui avrebbe potuto tranquillamente giurare fedeltà eterna.

É davvero questa la nostra dea.

«Vi chiedo nuovamente perdono» si scusò lui, riacquistando un tono di voce più conciliante, «ma obblighi precisi verso il mio popolo mi impediscono di lasciarvi andare».

«Obblighi? Di quali obblighi parla? E di quale popolo sta parlando?»

«Del popolo di Atlantide, naturalmente» fece lui. «Del vostro popolo».

Nadia inorridì.

«No... non è possibile...»

«Noi non siamo che i vostri umili servi, venuti fin qui per riportarvi a casa».

Nadia scosse la testa incredula. Spostò lo sguardo da Atys a Faloe e poi su ogni membro dell'equipaggio, uomini e donne, nella speranza che quello fosse solo un sogno. Ma nel vedere che tutti si inchinavano al suo cospetto con tale deferenza e umiltà, si accorse di stare vivendo in realtà un orribile incubo.

«No!» indietreggiò, impaurita. «Non voglio avere nulla a che fare con voi!»

Atys la fissò incredulo. «Perché dite così? Maestà, il vostro popolo...»

«La smetta di chiamarmi Maestà!» gridò lei rabbiosa, con gli occhi velati di lacrime. «Io non sono la vostra regina, e voi non siete il mio popolo! Io vi detesto, vi detesto tutti! Non siete che un popolo di assassini, manipolatori e disgustosi schiavisti. Avete assoggettato questo pianeta per millenni, ammorbandolo come la peste, schiavizzando il genere umano e portandolo sull'orlo della distruzione, finché non vi siete annientati da soli in una guerra fratricida. Questa è la verità! E non c'è nulla che lei possa venirmi a raccontare del nostro popolo, senza che io provi nausea o vergogna per il solo fatto di appartenervi».

Atys la fissò, visibilmente colpito dalla durezza delle sue parole. «Chi vi ha detto queste cose?» mormorò.

«Ho visto quello che gli Atlantidi sono capaci di fare. La mia intera famiglia è morta a causa di gente come lei, l'intera popolazione della mia città... uomini, donne, bambini... gente innocente, che non aveva la minima consapevolezza di avere a che fare con dei mostri come voi».

«Mostri come noi... e come voi, allora» fece lui. Nadia rabbrividì.

«Si sbaglia. Io non sono come lei».

«Oh, sì, invece» fece lui. «Voi siete la nostra legittima sovrana, la legittima erede al trono di Atlantide. Siamo venuti qui a cercarvi nella speranza che poteste portare aiuto al nostro popolo e ripristinare così l'Antico Regno. Ma noto con disappunto che avete vissuto nella menzogna, lontano dalla verità che vi lega a noi e al nostro comune destino».

«Io non ho nessun destino da condividere con voi!» sibilò lei.

«Vi sbagliate anche in questo» ribatté Atys, tagliente. «Dimenticate la Pietra».

Nadia sussultò. Si era completamente dimenticata della pietra. Si rese conto solo allora che da quando si era risvegliata non l'aveva più avuta con sé. Come aveva potuto essere tanto sciocca?

«Quella pietra non le appartiene» fece, tradendo tutta la sua preoccupazione. «Dove l'ha messa?»

«È vero, appartiene a voi, in quanto legittima erede al trono. Eccola».

Atys alzò la mano e una guardia gli pose un involto di panno, da cui lui estrasse la pietra. Nel vederla, Nadia percepì un brivido, e tese la mano per afferrarla; ma Atys la ritrasse, prima che lei potesse anche solo sfiorarla.

«Perché dovreste volerla, in fondo?» le chiese. «Il vostro odio per noi è così smisurato, che non vedo ragione per cui possiate desiderare di avere questa Pietra».

«Mi è stata affidata da un amico, l'uomo che avete ucciso» confessò lei, dura. «E io ho promesso che avrei fatto di tutto per proteggerla».

«Con tutto il rispetto, ma voi non potete nulla» rise Atys. «Il suo amico si è impossessato della Pietra casualmente, senza che gli appartenesse. Siamo noi che l'abbiamo perduta nel momento in cui giungemmo sulla Terra, quando sparì nell'oceano insieme alla nave ammiraglia che la custodiva a bordo. Il suo amico l'ha trovata per caso, e noi abbiamo fatto quello che dovevamo per riprendercela, visto che lui l'aveva nascosta».

«Cioè l'avete ucciso!»

«Se ci avesse consegnato la Pietra, non sarebbe successo».

«E tutto questo, tutte quelle persone morte... tutto è successo solo per quella dannata pietra?» esclamò lei. Atys socchiuse gli occhi.

«Questa Pietra è parte di ciò che possediamo di più sacro. È il simbolo e la vita stessa del nostro popolo: e voi siete la persona chiamata a custodire e a dominare il suo tremendo potere. Solo a voi è concesso: la Pietra ha scelto voi fin dalla vostra nascita, anzi, fin dall'inizio dei tempi. Essa già sapeva di voi, e di tutti noi, prima ancora che nascessimo e che sorgesse il glorioso Regno di Atlantide. La vostra vita appartiene alla Pietra; e quello che è successo, è successo solo perché la Pietra ha scelto di raggiungervi, per dimorare in voi».

«La mia vita appartiene a me» ringhiò lei. «Se è un tempio, quello che cercate, vi consiglio di andarlo a cercare altrove. Io non sono in vendita».

Atys sospirò. Quindi si volse, mettendosi a passeggiare lentamente per il ponte.

«Ditemi, Maestà» domandò all'improvviso «Voi fate dei sogni, vero? Sogni strani...»

Nadia sussultò.

«Come fa a saperlo?»

«Lo so per lo stesso motivo per cui voi riuscite a parlare la nostra lingua, la lingua sacra» disse. «Scommetto che non vi siete nemmeno accorta che state tranquillamente parlando in una lingua che fino a ieri era per voi del tutto sconosciuta, non è così?»

Nadia si irrigidì. «Io... non capisco... come potrebbe essere possibile?»

«È la Pietra» fece lui, avvicinandosi a lei e chinandosi a fissarla con il volto animato da un'evidente eccitazione. «Tutto è legato ad essa. Voi, io, Atlantide... Vi rifiutate di accettarlo, ma voi appartenente al nostro mondo, non a questo. La nostra vita, la nostra cultura: tutto è inscritto nel vostro sangue, tutto, in voi, parla di noi. E i sogni che fate non sono che messaggi lanciati al vostro inconscio dalla Pietra, nel suo desiderio di comunicare e di ricongiungersi con voi. È stata la pietra a guidarci fino a voi e al vostro pianeta, in un viaggio che per tutti appariva quasi senza speranza. Voi siete l'ultima discendente rimasta della casa regnante di Atlantide: dovevamo assolutamente trovarvi, anche se non sapevamo nulla di voi, né di questo mondo».

«Perché?» domandò, Nadia. «Perché avreste dovuto fare tutto questo... solo per trovare me?»

«Perché voi siete la nostra sola speranza» ammise lui. «Ecco perché».

Nadia tacque un istante, sconvolta. Poi «io non vi aiuterò comunque» rispose, ostinatamente. Atys abbassò lo sguardo, torvo.

«In tal caso» disse «sarò costretto a minacciare di uccidere tutti i vostri amici».

«Dunque avevo ragione» esclamò Nadia. «Lei non è che un volgare assassino».

«Pensate quello che volte. Io ho il dovere di convincervi a fare quello che è necessario, e userò ogni mezzo a mia disposizione».

«Necessario?» obiettò lei. «A chi? A voi, forse. Di certo non a me, o a quelle povere persone che si trovano oltre quel vetro!»

«La scelta è solo vostra» ribatté Atys. «Siete libera di fare quello che credete. Ma ogni scelta comporta delle conseguenze. Sta a voi accettarle».

Nadia scoppiò a ridere. «Scelta? Lei chiamerebbe questa una scelta? Non c'è nessuna libertà in una scelta del genere. Lei non è che un pazzo maniaco: ed è ancora più pazzo se crede di ottenere il mio aiuto così. Anche se dovesse costringermi, prima o poi troverò il modo per sfuggire a voi e a tutto questo, dovessi anche uccidermi con le mie mani!».

«Io non sono pazzo!» sibilò lui, afferrandola per le braccia e scuotendola rabbiosamente. Nadia ne fissò sconcertata il volto, segnato da un livore incontenibile. La ferocia che splendeva terribile nel suo sguardo la terrorizzò, ma lei si sforzò di non darlo a vedere, sostenendo decisamente il suo sguardo e opponendogli tutta la fierezza di cui era capace. «Voi mi giudicate tale solo perché non conoscete nulla delle mie motivazioni» riprese lui, «ma io ho dei doveri riguardo al mio popolo che voi ancora non capite e non volete capire, tutta presa come siete dal vostro odio personalissimo e accecante. Io vi guardo e mi chiedo: è davvero tanto l’odio che nutrite per la vostra gente? Cosa vi abbiamo mai fatto noi, noi che siamo il vostro popolo e siamo giunti fin qui per riportarvi a casa, perché abbiamo il disperato bisogno di voi, del vostro aiuto e della vostra guida?»

Nadia fissava Atys senza parole. Nel suo sguardo leggeva una convinzione e una fede incrollabile nei segreti valori che lo guidavano, ma anche un tormento interiore che derivava da abissi del suo animo e della sua storia che le risultavano completamente insondabili. Lei non sapeva nulla di lui, nulla di quella gente e del perché fossero lì per lei. Ma il peso della responsabilità che quell'uomo le stava riversando addosso, la fece sentire completamente oppressa, e smarrita. Nel vederla così atterrita, Atys la lasciò andare, tremante.

«Vi confesso» riprese più calmo, ma mantenendo una certa durezza nel tono della voce «che sono pronto a condannare persino me stesso, pur di convincervi a seguirmi: non mi tirerò indietro, se questo significherà salvare la mia gente. Sono consapevole di aver commesso il più alto oltraggio alla mia fede e alla vostra persona, comportandomi in questo modo con voi. Ma sono qui per riportarvi ai vostri doveri e lo farò, con o senza il vostro aiuto e la vostra comprensione, e sia di me quello che deve essere. Non avete scelta, dite: ma sono io, Maestà, io, che a differenza di voi non ho alcuna scelta, anche se a questo mi sono ormai rassegnato. Devo fare quello che faccio, non esiste alternativa. Quindi, non venitemi a parlare di libertà e necessità: per me sono la stessa cosa. Non ho la fortuna di poter decidere cosa fare o non fare. Io non sono come voi, non sono un re, né un dio; proprio per questo, io non conosco che una sola cosa: il mio dovere. Ed è tutto ciò che intendo fare, fino alla fine dei miei giorni».


  
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