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Autore: fri rapace    05/05/2010    14 recensioni
Severus ha otto anni, un padre buono a nulla e una madre che per tirare avanti vende pozioni inutili ai Babbani, sfruttando la loro ingenuità.
Ma questa volta a bussare alla loro porta non è uno di loro, ma una strega in cerca di una cura per il figlio malato.
Genere: Generale, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Remus Lupin, Severus Piton
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Giochiamo? “Giochiamo?”
Severus, seduto sul filo di una sedia storta, osservava la madre mettere nel sacco l’ennesima sciocca signora cercando di ignorare i continui, fastidiosissimi inviti che il moccioso che c’era con lei si ostinava ad indirizzargli.
“E questa volta è persino una strega!” pensò, orgoglioso dell’astuzia materna.
Ma Eileen Piton non era un’imbrogliona come si vociferava nella loro via, doveva sfruttare le sue capacità per poter comprare il cibo e i vestiti per loro due e anche per quel buono a nulla del marito, a cui non piaceva mai niente, compreso il lavorare.
Severus spostò l’attenzione sulla strega che si era presentata come Silvie Lupin: aveva dei morbidi capelli chiari, lo sguardo dolce e un sorriso particolare. Non avrebbe saputo come definirlo perché non ne aveva mai visto uno così tendere le labbra dei pochissimi adulti che frequentava; sua madre, ad esempio, non sorrideva mai.
La parola che cercava era “bello”, ma rammentava l’esistenza di tale vocabolo solo quando pensava a Lily, la bambina che andava sempre a spiare al parco giochi.
“La sua pozione funzionerà, me lo sento,” mormorò la signora Lupin, speranzosa. “Il mio Remus finalmente guarirà.”
“Sì, stai fresca!” pensò Severus. Sua madre era sì abile con le pozioni, ma non aveva alcuna formazione come Guaritrice. Della maggior parte delle malattie per cui veniva contattata dai Babbani non sapeva neppure pronunciare il nome, sospettava che fossero circa dei raffreddori più o meno intensi e come tali cercava di curarli, di solito senza molto successo.
I Babbani, d’altronde, erano tutti delle grandi lagne, avendone un esemplare in giro per casa lo sapevano bene sia lei che Severus.
Severus si chiese svogliatamente quale fosse il problema del moccioso che le stava attaccato alla veste insistendo con le sue noiose richieste di giocare con lui. Oltre alla brutta faccia sfregiata, ovviamente.
Con orrore seguì l’indice del bambino alzarsi e puntarsi su di lui. “Mamma, intanto che parlate, io posso…?”
La signora Lupin guardò preoccupata la madre di Severus. “Solo se la signora Piton vi dà il permesso di giocare assieme,” gli rispose, per poi rivolgersi all’altra adulta guardandola orgogliosamente dritta negli occhi, come per sfidarla a contraddirla. “Non farà del male al suo bambino.”
Sua madre non ci pensò sopra molto, stava già valutando con lo sguardo le ampolle ordinatamente disposte nel vecchio mobile tarlato al suo fianco, riflettendo, immaginava, su quante sarebbe riuscita a rifilarle mentre lui intratteneva suo figlio.
“Va con lui”, disse distrattamente a Severus, spingendolo piano giù dalla sedia.
Severus non aveva alcuna voglia di collaborare, ma non voleva neppure mettersi a discutere davanti a quei due. Inoltre non era solito disobbedire, sua madre aveva già troppi problemi senza che ci si mettesse anche lui.
Il moccioso, felice di aver ottenuto quello che voleva, mise in mostra le gengive nude con qualche dente a ridosso dei lati della bocca in quello che, immaginò, sarebbe dovuto essere un sorriso.
Severus si passò istintivamente la lingua sugli incisivi, per fortuna erano già ricresciuti e non si guardava sufficientemente spesso allo specchio da aver sorpreso la propria bocca ridotta in quello stato pietoso.
“La ringrazio, non è da tutti il suo gesto e Remus è un bambino così solo…” sentì dire alla signora Lupin, che sembrava sollevata ed estremamente stupita dalla facilità con cui aveva ottenuto il consenso di sua madre.
A malincuore, si decise a intimare allo sdentato: “Muoviti!” avviandosi verso il giardino incolto dietro casa sua, senza voltarsi a controllare se l’altro lo stesse seguendo e desiderando ardentemente che così non fosse.
Si accomodò su uno dei prismi abbandonati tra l’erbaccia in una scomposta fila indiana, quelli con cui suo padre avrebbe dovuto erigere un muretto per impedirgli di rotolare nel fiume che scorreva lì sotto. Barriera ormai del tutto inutile, non era più un poppante e aveva imparato da solo quanto fosse pericoloso il fiume. Una volta aveva osato camminare lungo la riva in un punto dove l’acqua era bassa e il fango gli aveva risucchiato via le scarpe. Erano trascorsi mesi prima che gliene venisse comprato un altro paio e aveva pagato caro il girovagare per il quartiere con le ciabatte sfondate del padre in pieno inverno: due settimane di ricovero all'ospedale e tre mesi di ritorsioni paterne per la seccatura.
Purtroppo, quando si decise ad alzare lo sguardo, si ritrovò il moccioso a un palmo da lui.
“Giochiamo?” gli propose sputacchiando a causa della dentizione carente, con l’aria di non stare più nella pelle.
“Levati e fammi respirare!” lo apostrofò sgarbatamente, studiandolo come avrebbe fatto con un insetto. “Che malattia hai?” indagò, spostando i capelli troppo lunghi e tagliati tutti storti dietro le orecchie, mentre si riempiva di risentimento nel notare che quelli dell’altro erano corti, da maschio.
“Una”, fu la laconica risposta che ottenne, che lo fece subito indispettire.
Lo stava forse prendendo in giro? Gli avrebbe insegnato che era capace di farla pagare cara a chi ci provava con lui, un modo lo trovava sempre.
Remus - così lo aveva chiamato la sua mammina - si distrasse maneggiando uno dei rami secchi che si accumulavano da anni dietro casa per l’incuria del padre di Severus. Alla fine optò per usarlo per fendere l’aria senza alcun costrutto.
“Una quale?” insistette con impazienza.
Remus si mostrò del tutto impermeabile al suo tono acido. “Una… due, tre. Ah!” esclamò entusiasta. “Ci sono! Giochiamo a nascondino? Io conto.”
“Nascondino?” ripeté Severus con una smorfia. Non aveva idea di cosa fosse, ma non intendeva mostrare al moccioso con i capelli da maschio la propria ignoranza, perché era mille volte superiore a lui e non voleva che gli venissero dubbi in merito.
“È un gioco Babbano,” proseguì tranquillamente Remus. “Un bel gioco, gli altri bambini del mio quartiere ci giocano.”
Pensò di spiegargli cosa fosse un sinonimo e di come andasse usato per evitare di rendere la propria sputacchiante parlantina ancora più irritante, ma era davvero troppo scemo per capirlo, così gli rispose scocciato: “E allora giocaci con loro!” sperando di ferirlo.
Se lo meritava, era colpa sua se sua madre l’aveva obbligato a stare all’aperto a farsi pizzicare dalle zanzare.
Ma il moccioso, contro ogni logica, non solo non perse il sorriso, ma tornò a proporgli: “Giochiamo?”
Era evidente che non doveva avere un problema al mondo.
Sicuramente i suoi genitori non litigavano mai e passavano le loro giornate a coccolarselo e a spuntargli i capelli alla perfezione in modo che si capisse chiaramente che era un maschio. In quanto alla pozione che la madre stava comprando per lui, ovviamente serviva solo a soddisfare qualche suo stupido capriccio, come rendere più docile l’animale domestico che gli aveva fatto a fette la faccia.
Aveva già deciso di rifiutarsi categoricamente di imparare il suo stupido gioco, quando un’idea gli lampeggiò nella mente. “È un gioco Babbano?” si sincerò.
“Sicuro.”
Poteva valere la pena di dargli retta, magari avrebbe potuto affascinare Lily con la sua destrezza nel “nascondino” alla prima occasione. Saperlo fare lo avrebbe fatto sentire più sicuro di sé e forse lei, quando finalmente si fosse deciso a parlarle, non avrebbe notato i suoi vestiti e i capelli che lo facevano sembrare una femmina.
Era necessario che capisse che era un maschio, perché la voleva sposare e una femmina non si sposava con un’altra femmina.
“Cosa devo fare?” chiese scontrosamente. Doveva mettere in chiaro che non aveva alcuna voglia di giocare con lui, che era stato obbligato a farlo.
“Io conto,” gli spiegò Remus. “E tu ti devi nascondere. Poi, finito di contare, ti vengo a cercare: se ti trovo vinco io, se mi scappi e riesci a toccare la tana della conta hai vinto tu.”
Sembrava una cosa molto semplice, e non avrebbe permesso che fosse lui a dettare le regole. “No. Io conto e tu vai a nasconderti. O così o niente.”
Remus alzò le spalle. “Ok.”
Severus saltò la pianta che il moccioso aveva scelto come tana, ignorandolo mentre quello ridacchiava qualcosa di incomprensibile sul fatto che lo capiva se non gli piaceva “la tana del lupo” e preferiva “quella del maghetto”.
Si appoggiò al tronco successivo, chiuse gli occhi e iniziò a contare.
“Conta fino a dieci!” gli urlò Remus.
“No, fino a venti”, replicò Severus, solo per il gusto di contraddirlo e senza pensare che in quel modo gli stava dando un vantaggio.
Non era ancora arrivato a quindici che la voce rauca di suo padre lo raggiunse: “Severus, vieni subito qui!”
Abbandonò il gioco all’istante, sperando che qualunque cosa avesse in mente, fosse veloce e indolore.
Non che gli avesse mai messo le mani addosso, quello no, ma sapeva farlo stare male abbastanza lo stesso.
Il padre lo aspettava in soggiorno, Severus vide con la coda dell’occhio la signora Lupin - probabilmente attirata dalle urla - affacciarsi dalla stanza accanto con il figlio nascosto dietro di lei.
Un senso di trionfo lo invase, lo aveva trovato prima che lui raggiungesse la tana! Aveva vinto!
“Severus!” lo mise sull’attenti il padre grattandosi una basetta grigia, la pancia prominente e assurdamente pelosa che sbucava da sotto la maglietta macchiata di sudore.
“Sì?”
“Quante volte ti ho detto di non correre per casa?”
Severus ci pensò su, la risposta corretta era: “Neppure una volta”, dato che non gli era mai passato per la mente di correre senza motivo, né in casa, né fuori. Perché avrebbe dovuto fare una cosa tanto inutile, poi?
Ma intuiva che non era la risposta giusta da dare, così tacque.
Seppe di aver agito con intelligenza quando vide l’espressione soddisfatta assunta dal padre.
“Non fai altro che disobbedirmi, non è così? Se solo tu fossi normale, sono certo che non ti comporteresti a questo modo,” tirò solennemente aria tra i denti e con un gesto stranamente plateale attirò la sua attenzione sul tavolino accanto alla televisione . “La mia birra. L’hai urtata e se l’è bevuta il tappeto, ora come la mettiamo?”
Severus capì che si stava facendo bello agli occhi della signora Lupin, sfoggiando tutta la sua autorità.
“Non sono stato io”, sussurrò flebilmente, pur sapendo che non sarebbe stato creduto. Non gli andava di dargliela vinta così facilmente davanti ai Lupin.
“Cosa?”
“Non sono stato io”, ripeté un po’ più forte.
“Non ti permettere di…”
Severus cercò la madre con lo sguardo in una muta richiesta d’aiuto, ma a intromettersi nella discussione non fu lei.
“Le ha già detto che non è stato lui, mi sembra.”
Suo padre scrollò il capo con biasimo. “E lei è tanto sciocca da credere alla parola di un moccioso?”
La madre di Remus non si scompose per il tono maleducato della risposta, né mostrò alcuna paura mentre incoraggiava il figlio a farsi avanti. “Io conosco qualcuno che si ostina a correre per casa malgrado sappia che non si deve fare,” gli disse clemente. “E non si chiama Severus.”
Remus, con il mento schiacciato sul petto, si strinse nelle spalle con un sussulto spaventato. “Scusa, non volevo farti v-v-ergognare. Ma io… io…” balbettò agitandosi tutto.
“Non devi chiedere scusa a me, ma a Severus. Vedi, il suo papà l’ha sgridato perché tu hai combinato un guaio.”
Tobias Piton gonfiò il pancione. “È a me che deve chiedere scusa, non al moccioso. E mi aspetto di essere risarcito da qualcosa di più che due parole prive di valore.”
Remus prese a respirare con la bocca aperta mentre il padre di Severus avanzava verso di lui, non arrivando a capire che la mancanza dei denti davanti gli avrebbe permesso di farlo semplicemente schiudendo le labbra.
Ma non era scemo del tutto, se non altro aveva compreso, pur non conoscendolo, quanto l'uomo potesse essere pericoloso.
“No!” urlò terrorizzato.
“Remus, piccolo, cos’hai?” si preoccupò subito la signora Lupin, con una dolcezza del tutto sconosciuta a Severus.
“È il lupo mannaro, mamma! L’ho riconosciuto… il lupo mannaro…” deglutì lui, prendendo a tremare violentemente e facendosi pallidissimo.
Lei lo accolse senza indugio tra le braccia anche se era troppo grande per quelle cose, sollevandolo e controllando il suo tremito stringendolo forte a sé. “Ma no, piccolo, è solo il papà del tuo amico”, cercò di tranquillizzarlo.
Severus sentì il padre scoppiare in una fragorosa risata. “Un lupo mannaro? Io? Ragazzino, i lupi mannari non esistono, sono solo dei mostri inventati dalla tv.”
“Esistono.”
La madre di Severus apparve come un fantasma accanto all’altra donna, e lui si immaginò sollevato tra le sue braccia, con le lunghe mani magre ad accarezzargli i capelli neri che nel suo sogno a occhi aperti erano tagliati come si deve.
Naturalmente lei non allargò le braccia invitandolo ad avvicinarsi, anzi, le serrò ancora più strettamente al petto.
Tobias non si lasciò sfuggire l’occasione di prendersi gioco di lei. “Certo, come no, c’è un lupo mannaro qui in salotto anche in questo momento. Severus, va a nasconderti sotto il divano, su.”
Lo fissò con insistenza e Severus notò le briciole che cadevano a terra mentre lui si grattava la barba lunga di giorni. “Ho detto vai!” tuonò, e lui non indugiò oltre, obbedendo repentinamente all’ordine.
Dalla sua nuova postazione, osservò il viso della madre di Remus rabbuiarsi.
“I lupi mannari esistono”, sputò con disprezzo, fissando l’uomo senza alcun timore. “Ma in questo salotto il mostro non è certo il lupo mannaro.”
Severus sollevò il capo dal pavimento, tendendo l’orecchio.
No, suo padre non aveva osato controbattere, non era stata solo la sua immaginazione a zittirlo.
Era ancora troppo piccolo e fragile per arrivare a scoprire che Tobias Piton era un vigliacco in grado di farsi forte solo con la moglie che, amandolo malgrado tutto, finiva sempre con il piegarsi al suo volere, e con lui che era solo un bambino.
Si atteggiava a grand’uomo con loro perché era sicuro di vincere sempre.
Remus era un povero sciocco, rifletté, aver paura dei lupi mannari a Spinner's End e con il sole alto nel cielo… ma la signora Lupin aveva capito tutto: c’era di molto peggio, e lei lo aveva messo a tacere.
“Giochiamo?” sfidò mentalmente non Remus, ma suo padre. Aveva imparato che un giorno avrebbe potuto vincerlo.






Eccomi qui con una nuova one-shot ^^ devo prima di tutto ringraziare chi è stato così gentile da leggere e commentare le mie ultime storie: grazie ^^

Questa ff era nata come una versione di HP di quelle persone che sfruttano il dolore della gente per lucrarci sopra, vendendo finti rimedi per malattie gravissime... ma poi, non so come, mi è venuta in mente Eileen Piton. Perché in qualche modo avrà provveduto alla sua famiglia, giusto? E vista la povertà di Severus escludo che avesse un lavoro vero.
Non voglio giustificare chi guadagna sulla sofferenza altrui, ma in questo caso la strega ha davvero bisogno e non intendevo dare di lei una visione troppo negativa (in fondo non ha idea di cosa siano le malattie che finge di saper curare) si fanno molte cose sbagliate per aiutare le persone a cui si vuol bene. Spero che la famiglia Piton, Severus e i Lupin siano risultati credibili e IC ^^ (vi assicuro che scrivere di Severus a otto anni non è stato affatto facile!)
ciao ciao
Fri


   
 
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