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Autore: RobynODriscoll    05/05/2010    14 recensioni
"Sono stata molte cose nella mia vita. Figlia e assassina, sposa e puttana, sorella e traditrice, amante e spergiura; a volte saggia, a volte folle, a volte sciocca e inerme. Ho creduto e ho dubitato, ho osato e ho fallito. Tante, troppe volte, ho avuto paura, tranne quando avrei dovuto averne per davvero.
Mi chiamo Bianca Auditore, sono figlia di un assassino e di una ladra. Cesare Borgia è stato il mio primo amante: diceva che era la mia purezza a istigarlo al peccato, come una macchia nera sulla mia pelle. Ma sbagliava; perché il peccato non è una macchia. Il peccato è di un bianco accecante. Come la neve e il vuoto, la morte e l’assenza. Come il lutto, la gioia, e la veste degli Assassini."
Genere: Azione, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Claudia Auditore , Ezio Auditore, Leonardo da Vinci , Maria Auditore , Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Filo Rosso del Destino - la storia di Bianca Auditore da Monteriggioni' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Mi dispiace moltissimo di averci messo così tanto, ma l'ultimo mese e mezzo è stato pieno di impegni e progetti che si sono susseguiti come sempre a ritmo mozzafiato...ed io sono ancora qui, con una Bianca di appena sei anni! Pensare che ho già in mente la scena finale dell'ultimo capitolo, dove è decisamente adulta! ^__^ Se voglio arrivarci mi sa che devo aumentare il ritmo :)Ps: L'illustrazione che vedete qui sotto è stata realzzata dalla bravissima Miko!

 

Bianca

 

C’era poca servitù alla villa, e probabilmente quella che c’era era meno solerte di quel che avrebbe dovuto essere. Gironzolavo quasi indisturbata, mentre una balia si prendeva cura di Vanni e mio padre e mia madre erano in giro per il borgo. Sembrava che Ezio avesse trovato per Rosa una perfetta occupazione: da tempo infatti, per mettere al loro posto i piccoli delinquenti che si aggiravano per il borgo, Mario Auditore, signore di Monteriggioni, aveva cercato di organizzare una Gilda dei Ladri. Fino a quel momento gli erano serviti come spie e messaggeri; tuttavia, c’era bisogno del polso e dell’esperienza di mia madre per organizzare quella masnada di ragazzini, e magari cavarne fuori dei buoni aiutanti per l’Ordine.

Ecco, la parola “Ordine” era una di quelle quasi proibite a Monteriggioni, ma che carpivo più spesso dai discorsi degli adulti. La pronunciavano tutti con una frequenza imbarazzante, ma sempre sottovoce; oppure, dopo che era stata accidentalmente tirata in ballo, gli adulti stavano per qualche istante in silenzio. Mi chiesi se parlassero di un ordine di monaci; ma mi pareva strano, perché a Monteriggioni c’era un solo prete, e per lo più era ubriaco.

L’Ordine era come un fantasma, una presenza fisica che si manifestava non appena invocato. Anche quando gli adulti lasciavano cadere l’allusione appena fatta, l’Ordine restava tra di noi come una cosa viva, dotata di anima e respiro.

C’era anche un altro fantasma in quella villa, ed era Nonna Maria.

La vedevo raramente: consumava pasti frugali nelle proprie stanze durante il giorno, e a volte, la sera, si univa a noi per mangiare. Era uno spettacolo penoso. Quasi sempre, le serve la dovevano imboccare: mangiava come un uccellino, poi iniziava a lamentare dolori al capo. Allora, le serve la portavano al piano di sopra, e spariva di nuovo dalla mia realtà, tornando al mondo immateriale a cui apparteneva.

Accadde una mattina di primavera. Mi aggiravo sul retro della villa per raccogliere sassi, che mi divertivo a scagliare contro le statuette di divinità antiche, poggiate su piedistalli bianchi che ornavano il cortile.

Proprio mentre stavo prendendo la mira, il passaggio di una massa scura sullo sfondo mi fece perdere la concentrazione. Oltre la chioma della statua di Apollo, misi a fuoco il gruppo di donne.

Nonna Maria era accompagnata dalle sue serve: vestiva di nero, come sempre, con un velo scuro sul capo. Mio padre diceva che non aveva mai smesso il lutto per il marito e i figli che aveva perduto vent’anni prima.

Sembrava sempre assente. Gli occhi scuri persi lontano, gli angoli della bocca attirati verso il basso dalla malinconia. Ogni ruga del suo volto era un solco di dolore, come se desiderasse gridare ma non potesse farlo.

Spesso Ezio mi aveva detto che le somigliavo. I suoi capelli erano stati dello stesso fiero bruno dei miei, prima di tingersi d’argento per l’età e i dispiaceri. Anche il mio sguardo gli ricordava lei, quando era ancora la forte e fiera Maria Auditore, moglie rispettata di un banchiere della Repubblica di Firenze e madre orgogliosa di quattro splendidi figli.

Forse nonna Maria avvertì il mio sguardo, perché si voltò nella mia direzione. Ne fui spaventata. Era la prima volta che i nostri mondi si toccavano. Compresi che esistevamo sullo stesso piano fisico, e quella semplice constatazione mi mise in petto un misto di curiosità e inquietudine. Poi, lei mi tese la mano.

Mi avvicinai, come soggiogata da un incantesimo. Aveva gli stessi occhi scuri, quasi senza fondo, di mio padre.

“Claudia, tesoro. Chiama i tuoi fratelli, è quasi ora di cena.”

La guardai un po’ storto.

“Non sono Claudia.”

Lei mi fissò, interrogativa. Le sue ancelle, imbarazzate, le spiegarono che ero la figlia di messer Ezio.

Dapprima, lei si strinse nelle spalle e scosse il capo. Poi, posò di nuovo lo sguardo su di me. Strinse gli occhi. Mi ricordò, per un momento, un’aquila…non so perché.

Quindi, sciogliendosi dal braccio delle ancelle, si inginocchiò per guardarmi negli occhi.

“Come ti chiami?”

“Bianca.”

Un breve silenzio. “Quanti anni hai?”

“Quasi sei.”

“Madre!”

La voce di mio padre e quella di zia Claudia si fusero in una sola. Lui stava arrivando dalle scale che portavano in paese, con Rosa accanto. Erano andati a comprare un buon equipaggiamento: mio padre sarebbe partito l’indomani, per raggiungere Leonardo a Milano. Mia zia arrivava dal chiostro sul retro della villa.

I tre adulti si avvicinarono. Mio padre, per un momento, mi fece paura. Aveva uno sguardo torvo in viso, che mi annichilì.

“La bambina vi ha infastidito, madre?” fece zia Claudia.

“Chi è, Ezio?”

Lo sguardo di Rosa si rivolse su di lui, preoccupato. Quello di zia Claudia, invece, era di sfida. Come se gridasse: dille la verità, se ne hai il coraggio!

Lui sostenne lo sguardo di sua sorella, senza vergogna. Mi prese per le spalle.

“E’ Bianca, mia figlia.”

Quindi, guardò mia madre. “E questa donna?”

Rosa fu svelta a dire: “Sono…la moglie di Ezio, madonna.”

Non si erano mai sposati, naturalmente. Ma mia madre sapeva che era meglio fingere che lo fossero, per il bene nostro e delle apparenze.

D’improvviso, nonna Maria parve molto stanca. “Certo, certo” disse, ma sembrava invece molto confusa. Domandò alle ancelle di riaccompagnarla nelle sue stanze, e noi restammo mortificati a guardarla mentre si allontanava da noi, per essere libera di sprofondare di nuovo nel passato.

Il giorno dopo, mio padre partì all’alba, lasciandoci in quella strana atmosfera. Io passai la giornata a pensare alla nonna, a quel momento in cui i suoi occhi mi erano sembrati tanto vivi da ricordarmi un fiero rapace. C’era ancora un barlume di vita in lei, sepolto sotto la nebbia dell’illusione.

A cena, notai che nonna Maria non era scesa. Non lo fece per tutta la settimana, né per quella successiva; tanto che iniziai a disperare di rivederla. Da quel giorno in poi, ogni volta che veniva l’ora di cena chiedevo di lei; mi veniva risposto che preferiva restare sola. Mia madre mi sorvegliava perché non andassi da lei di nascosto. A me non restava che obbedire, anche se a tavola fissavo il posto vuoto quasi senza mangiare. Poi, una volta, ebbi il coraggio di domandare a zia Claudia:

“Perché la nonna è così?”

“Così come?”

“Così…strana. 

La zia mi gettò addosso un’occhiata un po’ fredda. Alzò un sopracciglio, e senza smettere di mangiare spiegò brevemente che, la sera in cui avevano portato via nonno Giovanni e i fratelli di mio padre, nonna Maria aveva opposto resistenza. Mia madre annuì, come se questo spiegasse tutto. Calò il silenzio.

A me, naturalmente, quella spiegazione non bastava.

“Non si annoia a stare sempre nelle sue stanze da sola?”

“Non è sola” replicò zia Claudia “ha le sue dame di compagnia.”

“Posso andare a trovarla?”

“E’ meglio di no.”

“Allora cosa posso fare perché sia meno triste?”

La zia esitò. Io ignorai lo sguardo di mia madre, che mi esortava a tacere.

Infine, zia Claudia scosse il capo. “Portale delle piume, e mettile nello scrigno che tiene nella sua stanza. Sarà molto contenta.”

Presi molto seriamente quel suggerimento. Il problema è che le piume che trovavo a terra o sotto gli alberi erano sempre incrostate di letame, o fango, o erano state mangiucchiate dai gatti che avevano eliminato i loro precedenti proprietari. Mi scervellai a lungo, a zonzo per Monteriggioni, sul luogo più adatto per raccogliere piume. Ero scappata alla balia, approfittando del suo pisolino fuori orario. Dovevo sbrigarmi, perché se al suo risveglio non mi avesse trovata avrei dovuto ascoltare una ramanzina infinita.

Mentre camminavo con il naso per aria, capii improvvisamente che, se volevo piume pulite e belle da portare a Nonna Maria, dovevo per forza andare dove gli uccelli facevano il nido.

In alto, quindi. Ma come?

Presto la soluzione mi si parò davanti al naso. Una scala, appoggiata al retro di una bottega. Mi guardai intorno: nessuno mi avrebbe visto, quel vicolo era poco trafficato.

Mi arrampicai piuttosto velocemente per una bambina di sei anni. Esplorai ogni angolo, mettendo le mani tra resti di travi e i calcinacci nella speranza di trovare uno dei miei tesori. Inutilmente. Poi, intravidi qualcosa sul tetto della bottega i fronte.

Sì, un nido abbandonato. Proprio sopra l’impalcatura di legno. Dovevo soltanto attraversare un ponticello di assi marce per raggiungerlo.

Non provai paura, nemmeno per un momento. L’idea che potessi cadere mi metteva addosso una  specie di brivido di piacere.  Negli anni che seguirono, chi scorgeva la mia figura arrampicata sui palazzi mi dava della folle, o dell’incosciente. Ma non c’è nulla di simile all’incoscienza, quando si sfida il vuoto. Anzi, più si è certi di morire e più il gioco diventa eccitante.

La bambina che ero non capiva ancora tutto questo. Semplicemente, sentiva il richiamo dell’avventura.

Mi bilanciai un momento sulle assi: poi, visto lo scricchiolio lugubre che produssero, capii che potevo soltanto correre prima che si sbriciolassero. Eccome, se corsi! Dopo due falcate il legno marcio si frantumò sotto il mio peso, ma ormai avevo già preso la spinta per l’ultimo salto.

Toccai il bordo del tetto con la punta dei piedi, poi qualcosa andò storto e sbilanciai in avanti, ritrovandomi a rotolare. Mi alzai dolorante, soffiando sui graffi che mi ero procurata alle braccia. L’obiettivo era vicino. Dovevo soltanto arrampicarmi sulla struttura di legno.

Per mia sfortuna, lo scheletro del ponteggio non era più solido delle assi che avevo appena distrutto. Strinsi il palo tra le ginocchia, e puntellandomi con le punte dei piedi cercai di salire. Scivolai, scorticandomi l’interno delle cosce. Tuttavia, decisi di riprovare. Se avessi portato le piume alla nonna, forse l’avrei vista sorridere.

Il secondo tentativo andò meglio. Tesi la mano, per afferrare la piuma che sporgeva dal nido.

Con un lamento, il legno si spezzò, ed io caddi rapidamente verso il suolo.

Non so cosa pensai, mentre precipitavo. In realtà, accadde tutto molto in fretta. Feci appena in tempo ad accorgermi che le braccia forti di un uomo mi avevano preso al volo. Ricordo solo che mi venne da ridere, per il sollievo e la mia incredibile fortuna.

Il sorriso però si spense quando incontrai lo sguardo furente di mio padre. Tra tanti salvatori, dovevo scegliermi proprio lui? E quando accidenti era tornato dal suo viaggio?

“Si può sapere cosa diavolo credevi di fare?”

“Stavo raccogliendo delle piume. Per Nonna Maria. Voglio farla contenta.”

Di colpo, la paura e la rabbia scivolarono via dal suo volto. Per la prima volta vidi sulle sue labbra un sorriso vero, perfino dolce. Gli illuminò il volto per un momento, e lo rese bellissimo. Compresi finalmente perché a mia madre piaceva tanto.

“E’ una buona idea, ma è meglio che venga anch’io con te.  C’è bisogno di qualcuno pronto a prenderti quando cadrai.”

“Io non cadrò più!” risposi, imbronciata.

La voce di mio padre si fece seria. “No, Bianca, non cadrai. Non se io posso impedirlo.”

Fu così, per gioco, che iniziò il mio addestramento. Ezio non sembrava stanco dal viaggio: era agile e veloce, e l’armatura non l’ostacolava nell’arrampicarsi o nel saltare. Salimmo di nuovo sulla scala che portava al tetto della bottega: il conciatore uscì per lamentarsi di tutto quel trambusto, ma appena  vide mio padre sorridere e fargli un cenno rientrò nella sua bottega, con infiniti inchini e tante scuse.

Mio padre mi fece camminare in equilibrio sul cornicione. All’inizio ebbi un po’ di paura, poi decisi che guardare in basso non sarebbe stata la scelta migliore. Fissai la crepa nel muro di un palazzo vicino, inspirai, e misi un piede davanti all’altro.

Lui mi guardava, con le braccia incrociate al petto e un ghigno sulle labbra sfregiate dalla cicatrice.  Mi chiesi quando se la fosse fatta. Sembrava antica.

Quando ebbi terminato il mio giro, Ezio annuì, soddisfatto. “Hai equilibrio. Bene.” Quindi, mi fece cenno di salirgli sulla schiena.

Esitai. Non avevamo mai contatti del genere. Lui si limitava a darmi un buffetto sulla guancia ogni tanto. A volte mi scompigliava i capelli, ma niente di più.

“Coraggio. Non dirmi che hai paura!”

Bastò quella sua risata di scherno a rendermi risoluta. Mi abbrancai alla sua schiena, cingendogli il collo con le braccia e il torso con le gambe. Ezio si accertò che fossi ben assicurata a lui, quindi iniziò ad arrampicarsi sulle mura, afferrando le sporgenze tra un mattone e l’altro e facendo leva con i piedi negli anfratti. Pareva che io non fossi affatto un peso per lui. Poi, una volta raggiunta la cima, si mise a correre sugli spalti merlati. La prima volta che i suoi piedi si staccarono dal suolo mi parve di prendere il volo.

Che uomo straordinario era mio padre, che arrivava sempre al momento giusto e correva sui tetti come un gatto. Forse fu allora che decisi che volevo somigliargli.

“Stiamo tornando a Villa Auditore!” esclamai nel suo orecchio. Lui chinò brevemente il capo, mentre la facciata fatiscente della nostra casa si avvicinava a velocità sostenuta.

Quando finalmente fummo nel cortile della villa, feci per staccarmi da lui; Ezio però mi tenne le caviglie per impedirmi di scendere dalla sua schiena.

“Non è ancora finita, scimmietta” disse, alzando il mento verso il tetto della villa. “Ora andremo lassù.”

Inghiottii a vuoto, e tuttavia non osai contraddirlo.

Se confrontata con le altezze che ho sfidato anni più tardi, Villa Auditore pare una sciocchezza. Eppure, nel mio ricordo quella scalata non finiva mai. I nervi delle gambe fremevano, impazienti di sciogliersi da quella scomoda posizione: dovevo controllare la presa delle mani sudate, perché non scivolassero una sull’altra. Eppure, quando finalmente Ezio mi depositò sulle tegole brunite, sentii il mio cuore allargarsi.

Il tramonto stava inondando la campagna tra Firenze e Siena. Da quell’altezza potevo dominare tutto il territorio circostante con lo sguardo. Aprii le braccia, e l’aria mi scorse addosso. Da lontano, sentii lo stridere di un aquila.

“E’…bellissimo” mormorai. “Voi salite spesso sui tetti?”

Ezio accennò ad un sorriso. “Abbastanza spesso, sì.”

“Quassù siamo così vicini al cielo! Sembra di poterlo toccare!”

Ezio scosse il capo. “E’ solo un’impressione, Bianca. Gli uomini sono vermi, che strisciano sulla terra e affogano nel fango. Qualunque cosa facciamo, il cielo è sempre lontano.”

“Ma cosa dite, padre! Il cielo è qui, non lo vedete?”

Entusiasta, camminai fino all’orlo del tetto, pestando il guano di piccione che lo ricopriva. Io ero un uccello. Io potevo volare.

“Bianca!”

L’aria mi frustò il viso, non appena i miei piedi si staccarono dalle tegole del tetto. Il fiato mi si mozzò. Era stupendo. Stavo precipitando, ma a me pareva di aver spiccato il volo.

Mio padre si buttò subito dopo di me, mi raggiunse e mi afferrò, stringendomi forte al petto. L’impatto fu rapido, ma morbido. Infatti, affondammo nel fieno.

Proprio così. Un carro ricolmo di morbidissimo fieno appena tagliato sembrava aspettare noi, per accoglierci. Eravamo precipitati da un tetto, ed eravamo ancora vivi. Nonché, cosa più incredibile, tutti interi.

Sollevando il capo, mi accorsi che mio padre stava ridendo. Prima iniziò piano, poi il suono si fece sempre più forte e infine scoppiò, contagioso. Mi misi a ridere anch’io. Era la prima volta che lo sentivo tanto vicino.

Non lo sapevo ancora, ma avevo appena eseguito il mio primo Salto della Fede.

 

Grazie millissime a RebyeMiko, Lulla Cullen, CartacciaBianca/Elika95 e Renault per le recensioni, siete state tutte così gentili che mi avete commosso, davvero! I vostri commenti mi danno la voglia di gettarmi subito sul capitolo successivo! Di certo ricambierò la cortesia, anzi scusatemi se non ho recensito le vostre storie finora - rimedierò presto!

Per quanto riguarda il rapporto tra Vanni e Bianca...diciamo solo che la trama dei capitoli centrali si basa MOLTISSIMO su questo ^_^

Un grazie immenso anche a chi legge soltanto. Pensare che qualcuno passi di qui per guardare se la fanfic è aggiornata mi dà una grande carica. 

A (speriamo) presto con il prossimo capitolo!

 

Laura.

   
 
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