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Autore: scandros    11/11/2003    6 recensioni
Si tratta di una one shot originale tratta da una mia esperienza realmente vissuta. Quando il sorriso di qualcuno riesce a colmare il vuoto che hai dentro.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Pavel, puro come la neve

Pavel, puro come la neve

 

Le vie del centro erano così affollate che si camminava a tentoni. Tutti intenti a vedere le vetrine e gli addobbi natalizi in attesa del Natale che di lì a due settimane sarebbe giunto. Si fermò dinanzi la vetrina di un boutique d’alta classe. Il freddo era arrivato pungente e frettoloso quella settimana. Alzò gli occhi al cielo rimirando le nubi compatte e bianche. L’aria era così gelida che entro sera sicuramente sarebbe nevicato.

Poi abbassò lo sguardo in cerca di qualcosa che attirasse la sua attenzione in quella vetrina. Abiti da sera sfavillanti e elegantissimi pronti per essere indossati la vigilia di San Silvestro. In quella vetrina non c’era nulla che poteva permettersi lei, nulla che avrebbe potuto proporre alla sua taglia un po’ troppo comoda, ma soprattutto nulla che poteva permettersi il suo timido stipendio da impiegata. Un lampo balenò all’improvviso nei suoi occhi. Si portò una mano alla sciarpa in cashmere avvolta attorno al suo collo, regalo di sua sorella. Un brivido le percorse la schiena, non di freddo, un balenio che la riportò indietro di qualche anno.

Continuò inesorabile a guardare la vetrina cercando di disegnare meglio i tratti del piccolo zingaro che vi era riflesso. Si voltò di scatto. Sussultò stringendosi nel cappotto, cercando forse calore o probabilmente il coraggio di ricordare quell’espressione afflitta e mesta.

Quasi imbambolata, non smise di fissare il giovane zingaro, che vestito di stracci fermava i passanti in cerca di elemosina. Una donna, forse sua madre, cullava tra le braccia un neonato coperto da un semplice panno.

-         Tutto bene? – le chiese l’amica preoccupata per quel suo momento di defaillance. – C’è qualcosa che non va? – domandò sempre più impensierita dall’assenza di risposte.

-         No…guardavo quel ragazzino! –

-         E’ solo uno zingaro! – rimbeccò lei sfregandosi le mani coperte dai guanti in pelle. – Dai, sediamo a quel bar e prendiamoci una tazza di the caldo. Ci riscalderemo, tra un po’ nevicherà! – le propose prendendola sottobraccio e trascinandola quasi di forza nel bar accanto alla boutique.

Si sedettero vicino la vetrata dalla quale lei, imperterrita fissava il piccolo zingaro.

-         Mi dici cosa ci trovi di tanto interessante in quello zingaro e in sua madre! – le chiese con parole quasi sprezzanti.

-         Cosa posso servirvi? – chiese loro il cameriere avvicinandosi al tavolo e interrompendo la conversazione.

-         The caldo per tutte e due. Con dei biscotti, per favore. Tu vuoi altro? –

-         Ehm…no, va bene il the, grazie. – rispose sfilandosi i guanti e togliendosi la sciarpa.

-         Allora, perché non mi dici cosa ti passa per la testa? Quando fai così, stai sicuramente pensando a qualcosa. – le disse guardandola con attenzione. Sebbene robusta, la sua amica, la sua migliore amica, aveva dei tratti dolci e gentili e sul volto tondo brillavano intensamente due occhi di un verde scuro a tratti indorati d’ambra. La pelle era così bianca che sembrava cerea e risaltava ancor di più perché incorniciata da una folta chioma scura.

-         Quel bambino….mi ricorda una persona! –

-         Chi? – domandò incuriosita. Sorrise e chiuse gli occhi per un attimo in cerca dei suoi ricordi.

-         E’ successo circa sette anni fa, quando sono stata in Russia. Il giorno prima di ripartire per l’Italia, andai al Circo Russo insieme alla segretaria di una cliente. Si era offerta gentilmente di trascorrere con me il tempo rimasto nonostante non parlasse la nostra lingua e tanto meno inglese o francese. Praticamente comunicavamo a gesti. Così, la mattina mi venne a prendere dall’albergo, un hotel da trenta piani nel pieno centro di Mosca, dotato di tutti i comfort e l’eleganza di una struttura lussuosa. Stretta nel suo impermeabile, con un foulard in capo, Irina mi aspettava fuori dall’hotel. La raggiunsi subito cercando di comprendere quale fosse il programma della giornata. Entusiasta e gioiosa come sempre si era dimostrata, mi mostrò tre biglietti per il circo sui quali era stampato anche l’orario di inizio. Primo pomeriggio. Tre biglietti. Evidentemente non saremmo andate da sole. Cercò di farmi capire che mi stava portando a casa sua e che quella domenica sarei stata sua ospite. La seguii sicura che una creatura così semplice e ingenua non avrebbe mai potuto farmi del male. Era bella Irina, con i suoi capelli corti del colore del sole e due occhi azzurri grandi e vispi. Dopo un breve giro in centro, prendemmo la metropolitana e scendemmo ad una delle ultime fermate. Era quasi mezzogiorno. Ci trovavamo in periferia. Fui assalita dall’ansia. Nei giorni precedenti avevo già visto qualcosa della povertà che affliggeva una grande metropoli come Mosca, ma quella mattina compresi che le sorprese non erano finite. Le strade erano costellate a destra e manca di casermoni tutti uguali, ridotti dagli anni, dalle intemperie e soprattutto dall’uomo, a dei luoghi quasi spettrali. Alcuni di quei palazzi, oramai fatiscenti, erano abitati solo dai barboni. Credimi, un’esperienza aldilà della mia immaginazione. Uno di quei ghetti malfamati che si vede solo nei film, qualcosa a cui i nostri occhi non sono abituati perché succubi dello stile di vita e del tenore occidentale. Irina si fermò dinanzi un vecchio ambulante, acquistando due pomodori e una cipolla. Anche se le avessi fatto domande, lei non avrebbe potuto rispondermi perché non mi capiva. Di lì a poco arrivammo allo stabile in cui viveva. Odori nauseanti e calcinacci dappertutto, un ascensore cigolante e una porta in legno sinistrata. Mi sembrava di essere nel “piccolo palazzo degli orrori”. Aprì la porta trascinata dal suo solito entusiasmo. Una grande casa con i muri scritti da pennarelli, foglietti attaccati perfino con chiodi e carta da parati di bassa qualità messa a tratti, lì dove non erano appesi tappeti o teli consunti. Poi lo vidi. Mi portò nella sua stanza e lui era seduto ad un piccolo banchetto intento a disegnare. Un bimbo vispo, di circa dieci anni, dai capelli scuri e gli occhi azzurri della mamma. Non riuscivo a comprendere il suo nome, allora Irina lo scrisse su un foglio di carta. Pavel, suo figlio si chiamava così. -

-         Perché  ti ha colpita così tanto? Perché viveva in una specie di “topaia” o per qualcos’altro? – le domandò sempre più incuriosita da quel racconto. Il cameriere sopraggiunse con il the e i pasticcini che avevano ordinato.

-         Perché era triste. Della mamma aveva solo il colore degli occhi. Per il resto, era un bambino dall’aria così mesta che ti assicuro, cara mia, chiunque avrebbe provato una grande pena nel vederlo. Restai a guardarlo mentre terminava il disegno, in attesa che Irina preparasse il pranzo. Poi mi chiamò e la raggiunsi in una cucina così piccola che il tavolo era della stessa dimensione di quello delle sale da the. Mangiavano a turno, usando le stoviglie di coloro che li avevan preceduti. Guardai sul tavolino il mio pranzo. I pomodori che aveva acquistato poco prima e la cipolla, tagliati a fette. Mi salirono le lacrime agli occhi pensando a quanto fossi fortunata io a vivere in una situazione sicuramente più agiata. Compresi allora che forse uno dei motivi della sua tristezza, era proprio il vivere in una condizione di indigenza. Mangiai solo due fette di pomodoro. Preferivo che le mangiassero loro. Ne aveva più bisogno di me. Avevo visto altre persone in casa, tre anziani, una coppia di adulti, i genitori di Irina, due ragazze, forse sue sorelle. Vivevano tutti in quell’appartamento ai limiti della vivibilità. Dopo circa mezz’ora, si mise il cappotto, mi pose il mio e mise a Pavel una giacca di lana dalle ampie spalle e dalle maniche lunghe. A giudicare dal tessuto consunto, era evidente che si trattava di un indumento usato e smesso da qualcun altro. Così uscimmo e andammo al circo. Un palazzo sontuoso che rinchiudeva in se la tradizione di un’arte circense particolare e propria della Russia. Pavel non disse nulla. Tacque per tutto lo spettacolo senza abbozzare neppure un timido sorriso. Gli sfiorai la mano. Era fredda, proprio come i suoi occhi. Quando uscimmo dal circo, la neve aveva già ricoperto la strada e la scalinata. Il freddo era così intenso che per me, ragazza mediterranea, nata e cresciuta nel pieno sud, era impensabile poterlo sostenere. Irina si mise il foulard in testa e cercò di coprire il piccolo Pavel con la giacca di almeno due taglie più grandi. Non mi toglieva gli occhi di dosso. Mi chinai alla sua altezza per permettergli di guardarmi meglio, di poter fissare i miei occhi e di comunicare con me. Gli zigomi alti erano velati di un leggero rossore. Sui capelli scuri, si appoggiavano soffici i fiocchi di neve. Guardai la mia sciarpa. Colorata, di ottima fattura. Mi ero permessa un piccolo vezzo prima di partire per Mosca. L’avevo vista in una boutique e me ne ero subito innamorata. La mia sciarpa di Missoni. Me la sfilai dolcemente e la avvolsi al capo e alla gola di Pavel. Era lunga abbastanza per potergli coprire anche il petto. Lo guardai ancora cercando nei suoi occhi un lampo di luce, un soffio di dolcezza. Scendemmo la scalinata del palazzo e ci incamminammo sul marciapiede. Mi afferrò la mano e non la sfilò fino a che non arrivammo dinanzi il mio albergo. Era il suo modo per ringraziarmi. – concluse sorseggiando il the ancora caldo.

-         Uao, che storia. Insomma ci hai rimesso una sciarpa firmata nel tuo viaggio a Mosca. –

-         Non l’ho mai pensata così. Ho associato il ricordo della sciarpa al piccolo triste Pavel. –

-         E lo zingarello cosa ha a che fare con questa storia? –

-         La sua espressione mi ricorda quella di Pavel. Guardalo, è vestito di pochi stracci. Starà morendo di freddo. –

-         Sai meglio di me che se gli dai dei soldi i genitori e i padroni glieli requisiscono. -. Guardò la sua amica addentare un pasticcino. Si alzò di scatto e afferrò la sua sciarpa di cashmere. La vide uscire in strada e avvicinarsi allo zingarello.

-         Signora, prego, fate elemosina. – le disse non appena si fu avvicinata. Si abbassò alla sua altezza specchiandosi nei suoi occhi così chiari che sembravano trasparenti. Gli avvolse la sciarpa al collo.

-         Questo è il mio regalo per te. Come ti chiami? – le chiese gentilmente rialzandosi. La madre la guardò estasiata da quel gesto.

-         Pavel, si chiama Pavel. -. Attonita. Ancora una volta quel nome era tornato ad echeggiare nella sua mente prepotentemente.

-         Signora, non ho soldi da darvi. Spero però che questa sciarpa possa riscaldare il piccolo Pavel. – aggiunse prima di volare loro le spalle con un sorriso.

-         Grazie signora! – esclamò il piccolo prendendole la mano. Si girò velocemente verso il ragazzino. Il suo sorriso illuminava il viso emaciato e sporco. Le labbra di un rosso vivo sembravano brillare su quel volto olivastro e dai contorni marcati.

-         Voi avete fatto miracolo, signora. –

-         Ma che dite? Ho solo regalato una sciarpa a Pavel. –

-         No signora. Voi fatto miracolo. – ribadì emozionata cercando a stento di comporre una frase di senso compiuto. – Pavel vi ha sorriso e lui non ride mai, no da quando lui non vede. Pavel è cieco, signora. Lui capito che voi avete animo buono e questo suo modo di dire grazie. Allora grazie signora. -. Si chinò nuovamente all’altezza del bambino, visibilmente emozionata da quello che la donna le aveva appena detto. Alcuni passanti si eran fermati ad ascoltare ed erano stati testimoni della scena. Dalla vetrata del bar la sua amica osservava i fatti esterrefatta.

-         Grazie, signora. – le disse Pavel avvicinandosi e schioccandole un bacio sulla guancia, mostrandole ancora una volta il sorriso gentile e spontaneo.

-         Grazie a te, per aver reso il mio Natale più bello. Il tuo sorriso e motivo di grande gioia per me. Hai rievocato in me il ricordo di un bambino lontano tanto triste e bisognoso d’affetto. –

-         Io faccio regalo a te, ora. – le disse il bambino toccandole il volto per imprimere i tratti nella sua mente. Guardò ancora il bambino con la vista annebbiata dalle lacrime. Il cuore le batteva così forte che temeva qualcuno potesse udire l’impeto di quell’emozione che stava vivendo.

-         No Pavel, non è necessario. Tu mi hai regalato il più bel sorriso che io ricordi. Un dono che riscalda il cuore, che ti riempie di gioia e per il quale non riesco a trovare parole appropriate per poterti ringraziare. Tu mi hai fatto un dono tanto semplice quanto nobile, mi hai donato un’emozione infinita e indefinibile. Grazie. – gli disse stringendolo a se. Le sue lacrime bagnarono la guancia di Pavel che emozionato e sorridente si strinse ancora di più a lei.

In lontananza una zampogna suonava canti di Natale, le luci colorate rifulgevano in una miriade di colori accompagnate da agrifogli e vischi benaugurati. La neve scendeva candida posandosi come un velo silenzioso. Prima di allontanarsi dallo zingarello, lo guardò un’ultima volta, certa che non avrebbe mai potuto dimenticare il suo sorriso. 

 

  
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