Buonasera!
Ecco qua il sesto capitolo, e siamo quasi alla fine. Devo dire che questo
capitolo all’inizio non era contemplato, ma le vostre recensioni mi hanno
ispirato, quindi ecco a voi una parte tutta dedicata ad Elettra e Camus. Vi
anticipo che la conclusione sarà quasi tutta dedicata a Milo! Aspetto i vostri
commenti.
Baci
Sara
~
6 ~
Quando
Acquarius era tormentato dai suoi fantasmi, c’era un solo posto dove poteva
andare, il problema era che quel luogo era anche l’origine d’ogni suo
cruccio. Era il Grande Tempio di Zeus.
Il
fatto era che, in certi momenti, Camus aveva bisogno di sicurezze, di sapere che
qualcuno, al di là di tutto, lo amava. Sapeva perfettamente di non essere uno
stinco di santo e di avere un carattere a dir poco pessimo, ma c’erano giorni
in cui la fragilità propria dell’essere umano non riusciva assolutamente a
reprimerla. Era un attimo e all’improvviso era di nuovo quel triste bambino
solitario che non conosceva la felicità. No, non l’aveva conosciuta, almeno
fino al giorno in cui una bambina bionda con le lentiggini e gli occhi turchesi
non gli aveva sorriso. E quel sorriso, ancora oggi, era l’unica cura per il
suo male, qualunque fosse.
Inutile
negare, infatti, che le parole di Scorpio gli avevano fatto male, per il
semplice motivo che erano la verità. Sì, lui era una persona distaccata,
scarsamente romantica e troppo pragmatica, anche se questa era un’apparenza
che Camus aveva costruito con stoica determinazione e anni d’impegno. Era
qualcosa che lo difendeva meglio della sua armatura.
Ma
quello che gli dava fastidio più di tutto era il modo in cui Milo glielo aveva
fatto notare, come fosse un dato che ormai non si può cambiare, con
rassegnazione, ma cogliendo con precisione chirurgica il punto cruciale: lui
dava l’impressione di non tenere a niente.
Non
era così, ma per troppo tempo Camus si era impegnato a lasciarlo credere, fino,
forse, a convincersene lui stesso, che poi era quello che voleva. Se non si
attaccava a nulla, nessuna perdita lo avrebbe toccato. Nessun dolore. Nessun
distacco.
Milo,
ad ogni modo, aveva infilato la sua Cuspide nella piaga più giusta, rivelando
una sensibilità assai superiore a quanto il suo atteggiamento guascone
lasciasse immaginare. Maledetto. Non sapeva se invidiarlo, odiarlo, oppure
continuare semplicemente a volergli bene.
Chissà
se il suo amico lo aveva capito, che lui gli voleva bene. Sì, figurati se non
lo aveva fatto, ma non erano cose che si dicevano queste, specialmente tra
guerrieri.
Era
arrivato dunque. Viveva sempre un po’ come una debolezza, il tornare da lei.
Stupido.
Elettra
e Alexandros erano a tavola, li vedeva ridere, mentre percorreva il corridoio
buio verso l’arco che conduceva nella sala da pranzo illuminata. La luce, però,
sembrava provenire da loro due. La donna allungò una mano per carezzare
teneramente la guancia e la tempia del figlio, sorridendo.
Lo
aveva chiamato come il mitico condottiero macedone, ma nel loro rapporto fatto
di dolcezza, complicità e rispetto, non c’era certo nulla di quello
tormentato dell’antico re con l’infida madre, principessa d’Epiro Eppure,
chissà perché, spesso glieli ricordavano.
"Disturbo?"
Chiese il cavaliere; molte volte gli capitava di avere la sensazione
d’interrompere qualcosa d’incomprensibile e magico, entrando
all’improvviso in una stanza dove c’erano solo loro.
I
sorrisi sinceri e felici con cui l’accolsero, però, fugarono ogni dubbio a
proposito della sua visita inaspettata; Elettra si alzò per andare a baciarlo,
poi, mentre Camus salutava Alexi, lei chiamò un servo per far aggiungere un
posto a tavola.
Solo
quando furono seduti, l’uomo poté rilassarsi. Elettra gli sorrideva,
stringendo la sua mano. Alexi raccontava della scuola. Camus, ora, si sentiva a
casa, loro due erano la sua famiglia. Li amava. Anche se questo significava che
i suoi sforzi per non soffrire erano falliti…
La
donna era sul balcone, dopo cena. Le mani posate sulla balaustra di marmo
candido, gli occhi fissi sulle stelle. Sentiva il presagio. Lo aveva avvertito
prima e meglio degli altri, grazie ad un cosmo più potente di quello di un
cavaliere e ad una sensibilità data dal suo essere donna. Il presagio non era
opprimente, piuttosto s’insinuava nella mente come una nebbia scura. E dire
che lei amava la nebbia. Il presagio di distruzione copriva ogni cosa al
Santuario d’Atena. Colava come sangue infetto e maligno lungo le mura violate.
Era oscurità. Era male. Esisteva da quasi tredici anni.
Il
suo rifugio, il suo esilio dorato, la proteggeva da tutto questo. L’anonimato
proteggeva suo figlio. Ma chi avrebbe protetto lui? Sapeva qual era il
suo compito, era un cavaliere, se Arles gli avesse detto combatti, lui avrebbe
dovuto farlo. Perché non si mette in dubbio la parola di un Gran Sacerdote, lo
sapeva bene lei che lo era.
Per
dubitare di un tale potere bisogna essere Eroi. Ce n’era stato solo uno. Il
padre di suo figlio.
Elettra
si girò verso l’interno e guardò le due persone sedute al tavolo del
soggiorno; da una parte, intento a leggere un libro, c’era l’uomo che amava.
Sì, dopotutto, lo amava ancora. Nonostante le liti, i musi lunghi, le male
parole, i silenzi… il rifiuto di sposarlo.
Un
giorno, se n’avesse avuta la possibilità, gli avrebbe spiegato perché aveva
detto di no. Aveva rifiutato perché sapeva che stava per succedere qualcosa.
Qualcosa di grande. Camus, nel bene o nel male, ne sarebbe stato parte. Elettra
sapeva fin troppo bene a cosa va incontro un cavaliere che decide di combattere.
Oh, e lui avrebbe combattuto; magari per motivi lontanissimi dal trionfo della
giustizia, la lotta contro il male, il ritorno di Atena, ma avrebbe combattuto.
Elettra
avvertì subito gli occhi del compagno alzarsi su di lei. Erano occhi che
conosceva benissimo, forse anche meglio dei propri. Un quarto di secolo passato
a confrontarsi con loro. Era davvero tanto tempo, e probabilmente lui l’amava
da allora, da quando erano bambini. Le faceva male, a volte, pensare che a lei
ci erano voluti vent’anni per capire e ricambiare il suo amore. Ancora più
doloroso era pensare che, questo amore, non era che una piccola parte di quello
che aveva provato per Aioros. Un amore ancora vivo nel suo cuore.
Lo
sguardo di Camus si spostò dalla madre al figlio. "È ora di andare a
dormire, Alexi." Gli disse.
Il
bambino alzò i suoi occhi verde-blu sull’uomo. "Io a dormire ci vado, ma
mi prometti che voi due non litigate?" Replicò quindi.
Il
cavaliere incrociò le braccia, appoggiandosi allo schienale della poltrona.
"Questo devi dirlo a tua madre…"
"Smettila,
Camus." Lo rimproverò severa lei, mentre rientrava.
"Vabbene."
Acconsentì lui, stupendola, quindi si alzò, raggiunse Alexi e, prima gli
scompigliò i riccioli biondi, poi lo prese per le braccia e se lo caricò in
spalla. "A nanna!" Proclamò portandolo via, il ragazzino rise.
Elettra
sorrise, guardandoli uscire dalla stanza. Erano gesti abbastanza comuni, quelli
che aveva visto. Sapeva che Camus amava Alexandros, che la sua energia positiva
aveva conquistato anche l’algido guerriero del nord. Tutti amavano Alexi, era
impossibile fare altrimenti. Si lasciò andare ad un altro sorriso, mentre
sistemava le ultime cose prima di andare nella sua stanza.
Acquarius,
nel frattempo, salutava il bambino davanti alla sua camera. "Mi raccomando,
lavati i denti e poi corri a letto, che domani c’è scuola." Affermò
serio.
"Non
preoccuparti, lo farò." Promise Alexi. "Buonanotte." Gli augurò
poi.
"Buonanotte
a te." Rispose Camus, allontanandosi.
Il
cavaliere, mentre percorreva il corridoio fino alla camera di Elettra, si disse
che voleva davvero bene ad Alexandros. Un tempo avrebbe desiderato che non fosse
così, perché era figlio del suo rivale, ma era impossibile resistergli. Lo
aveva visto nascere. Aveva assistito alla sua prima poppata. Era lì, il primo
giorno di scuola. Lui gli aveva insegnato ad andare in bicicletta. E, alla fine,
questo voleva dire che Camus era stato l’unico padre che Alexi avesse avuto.
Aveva cresciuto il figlio del suo rivale, e questa era una piccola vittoria.
Entrò
nella camera di Elettra col sorriso sulle labbra. La stanza era in penombra, la
luce del bagno spenta, il letto vuoto; forse la donna era ancora in soggiorno.
Il cavaliere si guardò intorno, però, e infine la scorse sul balcone, oltre le
fini tende bianche che si muovevano alla brezza primaverile.
"Sei
di nuovo fuori?" Le chiese raggiungendola.
"E’
una sera così bella." Rispose lei, continuando a guardare il cielo.
"Guarda, stiamo entrando nel segno del Cancro." Aggiunse, indicando la
costellazione.
"Sta
arrivando l’estate…" Commentò Acquarius. "Che palle!"
Aggiunse, posando i gomiti sulla balaustra.
La
donna rise sommessamente. "Sei proprio un pinguino, tu." Rise anche
lui.
"È
tornato Milo." Annunciò Camus, poco dopo; Elettra lo guardò.
"Davvero?"
Chiese, lui annuì. "E… come sta?" Continuò la donna, tornando però
a guardare fuori.
"Bene."
Rispose soltanto Acquarius. "È sempre il solito rompiballe."
"Ma
sta davvero bene, oppure…" Insisté Elettra, incitandolo con un gesto.
Ecco,
ci risiamo… Pensò il
cavaliere, che ben conosceva il senso di colpa che la sua donna aveva per i
fatti di cinque anni prima; va bene, la ragazza era una sua allieva, ma da qui a
fustigarsi per la sua morte ce ne correva. Ma Elettra, del resto, aveva un senso
di colpa troppo radicato.
Camus si girò, appoggiandosi contro il parapetto e sospirò. "Fa una buona impressione, ma secondo me… sa fingere." Le rispose infine.
"Lo sapevo." Affermò Elettra chinando il capo. "È molto arduo uscire da certe cose, specie se si rifiuta ogni tipo di aiuto, come ha fatto lui." Aggiunse. "Quando si ama una persona è difficile accettare di perderla, e specie in quel modo…"
Acquarius contrasse la mascella. Sapeva a chi stava pensando lei e, come sempre in certi casi, all’improvviso l’uomo la sentì lontana, parte di un mondo che non gli era dato conoscere, immersa in ricordi privati dove lui non c’era. Soltanto Aioros c’era. E, come sempre, Camus reagì nel modo sbagliato.
"Dovreste farla finita tutti e due." Dichiarò bruscamente, Elettra si girò verso di lui. "Non è colpa vostra se quella s’è impiccata." Continuò fissando il vuoto. "Io posso capire il dolore, ma sono passati cinque anni, dovreste aver capito che chi non ci stava con la testa era lei."
La donna lo fissava con gli occhi spalancati. "Quella aveva un nome, ed era Melissa, e per tua informazione non era affatto pazza." Proclamò quindi offesa. "E poi non credo che il mio senso di colpa sia ingiustificato, era una delle mie vestali, avrei dovuto proteggerla, portarla via dalla sua famiglia." Aggiunse sempre più rabbiosa. "E se si è uccisa non è perché fosse una malata di mente, ma solo perché non si possono chiamare vita sedici anni passati tra segregazioni, botte, umiliazioni, con un padre tiranno e due fratelli carcerieri!" Concluse con sguardo saettante.
"Ha fatto la scelta più facile." Replicò Camus fissandola. "Poteva combattere, chiedere il tuo aiuto, oppure fuggire il più lontano possibile, Milo l’avrebbe portata dall’altra parte del mondo, e invece ha preso la strada più corta per sfuggire al suo dolore, non è colpa di nessuno, semmai solo sua, per essere stata tanto egoista da uccidersi."
"Non ti permetto di parlare così di lei!" Reagì Elettra, gridando. "Io le volevo bene, Melissa era un angelo e questo mondo era troppo triste e doloroso per lei, per questo ci ha lasciati!"
"Le persone che si tolgono la vita non pensano mai a cosa si lasciano dietro, altrimenti non lo farebbero." Replicò lui. "Pensi che il povero Milo si meritasse tutto questo dolore, il senso di colpa, la depressione, cinque anni passati a farsi domande?" Le chiese.
"Nessuno merita un dolore del genere." Fu costretta a rispondere lei, ma con espressione cupa.
"Vedi che siamo d’accordo?" Ribatté Camus.
"No, non sono d’accordo con te." Affermò Elettra, poi si allontanò. "Sei mostruoso, un essere completamente privo di sensibilità e comprensione…" Continuò entrando in camera. "Mi fai paura, quando ti comporti così." E sparì oltre le tende, nell’oscurità della stanza.
Camus rimase immobile sul terrazzo, stringendo i denti. Avevano litigato di nuovo. Il cavaliere si domandava perché, per loro due, fosse impossibile avere una discussione civile. Un essere mostruoso… questa era peggio di quando l’aveva chiamato "ghiacciolo misantropo", o di quella volta che, dopo aver fatto l’amore, lo accusò di essere gelido. Adesso sarebbero rimasti senza parlarsi per un periodo variabile dai due giorni alle tre settimane…
L’uomo si voltò
verso l’esterno. Il mare si muoveva lontano sotto la luna, le stelle
sembravano cantare, tanto brillavano. Si voltò attratto da qualcosa. Una stella
cadente aveva attraversato il cielo a nord. Sarebbe bello, per una volta,
volersi bene e basta, eh Elettra?
Il
cavaliere lasciò passare un po’ di tempo, entrambi dovevano sbollire la
rabbia. La cosa più semplice da fare, sarebbe stata quella di entrare, passarle
davanti senza guardarla e tornarsene al Santuario, o forse andare a rimorchiare
qualcuna in città. Sì, la cosa più semplice e anche la più stupida. Uno dei
due doveva ingoiarsi l’orgoglio, per una volta.
Camus
entrò nella camera; tutto era spento, ma da fuori veniva luce sufficiente a non
inciampare nei propri piedi. La forma del grande letto sopra la pedana risaltava
nella semi oscurità, come anche la figura della donna che vi era distesa sopra.
Tutto aveva un colore azzurrino, compresa la sua elegante camicia da notte
bianca ed i suoi capelli biondi sparsi sui cuscini.
Avvicinandosi
accarezzò con lo sguardo le dolci e sinuose curve del corpo di Elettra. Il
desiderio, da quando lo conosceva, era inevitabilmente legato a doppio filo con
la figura di lei. Le altre donne non erano che un palliativo, un timido riflesso
del suo univo, vero, Desiderio. Le più belle anche. Perfino Natasha, la
splendida ballerina russa con cui aveva vissuto un’infuocata fuga a
Pietroburgo, durata circa sei mesi, per poi tornare pentito e affranto, in
ginocchio davanti a lei.
Camus
si fermò ai piedi del letto, Elettra era immobile in una posizione che
gl’impediva di vederle il viso. "Stai dormendo?" Le domandò a bassa
voce.
"No."
Fu l’attesa e secca risposta. Certo, è troppo arrabbiata per farlo…
"Chi
lo fa il primo passo?" Domandò timidamente il cavaliere.
"Mi
sembra che tu sia perfetto." Replicò sarcastica la donna, mettendosi
seduta, ma continuando a dargli le spalle.
"Perdonami…"
Mormorò lui, sedendosi al suo fianco, sul bordo del letto.
Elettra
si voltò di scatto, pronta a ribattere, ma si trovò davanti gli occhi di Camus
che la fissavano, resi quasi neri dal buio della notte; la donna capì che
quella non era un richiesta di perdono a breve termine, forse non c’entrava
niente con la storia di Melissa.
"Devi
perdonarmi, se non sono l’uomo che vorresti." Riprese infatti lui,
rammaricato e sincero. "Se non sono riuscito a perdere nessuno dei miei
difetti, se, puntualmente, dico la cosa sbagliata…"
Elettra
sospirò, chinando gli occhi. "Non hai il predominio sui difetti."
Affermò poi. "Anche io… beh, non ti faccio mai parlare, e poi sono
polemica, lo so…"
Lui
le prese le mani, costringendola a guardarlo di nuovo. "Io vorrei soltanto
non dover essere sempre in guerra." Confessò con tono dimesso.
"È…
è colpa mia…" Balbettò la donna. "Sto sempre sull’attenti, non
so di cosa ho paura…" E scostò ancora gli occhi, ma poi tornò a
fissarlo. "Ma devi credermi, quando dico che ti amo, che non è cambiato
niente." Aggiunse con passione.
"Non
dovrebbe essere così." Affermò Camus, pur sollevato da quella
dichiarazione. "Con tutto quello che ti faccio passare…"
"No."
L’interruppe lei, prendendogli il viso tra le mani. "Non dirlo, perché
so bene che anch’io ti faccio soffrire, anche se sei bravissimo a non
dimostrarlo." Gli disse, poi lo abbracciò.
"Mi
conosci…" Mormorò Camus, affondando il viso tra i suoi capelli.
"Ti
conosco." Rispose Elettra, mentre sentiva le sue braccia circondarle la
vita.
"Mi
manderai via, stanotte?" Le domandò, con lo stesso tono che avrebbe un
bambino rifugiatosi nel lettone dei genitori in una notte di tempesta.
"No."
Rispose dolcemente la donna, quindi lo scostò da se e lo baciò, per poi
togliergli la camicia e fare altrettanto con la sua. Si stesero sul letto,
continuando a baciarsi.
Il
corpo di Camus era sempre stato magnifico. Le spalle larghe e le lunghe braccia
da nuotatore, i fianchi sottili e le natiche piccole e sode, l’addome
scolpito, i muscoli tesi e tonici. La pelle abbronzata e più morbida di come,
di normale, dovrebbe averla un uomo.
Elettra
amava quel corpo, adorava percorrerlo con le dita in ogni centimetro, sentirlo
sopra di se. I capezzoli turgidi contro la sua pelle. I capelli che ricadevano
scomposti sul suo viso. Le mani eleganti che, esigenti, s’insinuavano tra le
sue cosce. Le labbra, sottili e ardenti sul collo.
In
quei momenti sembrava fossero nati per stare insieme e accoglierlo in se era un
gesto naturale e giusto. E atteso. E il piacere saliva, saliva fino alle stelle,
fino a toccare i loro cosmi uniti, per poi ridiscendere su di loro come
un’accecante tempesta di ghiaccio percorsa da fulmini d’oro che toglieva per
un attimo il respiro… per restituirlo poco dopo, spezzato.
Elettra,
mentre Camus era ancora su di lei ansante, non riusciva a fermare il battito
impazzito del suo cuore, e non a causa dell’amplesso appena terminato. Aveva
visto un’ombra nel cosmo del cavaliere, proprio nel momento in cui il suo
spirito aveva toccato le stelle dell’Acquario. Un’ombra di morte. Qualcosa
che lei conosceva.
Unendosi
ad un cavaliere, non sempre si riusciva a raggiungere quel particolare stato di
"scambio di cosmi"; doveva esserci un sentimento profondo e reciproco,
una grande passione, intenso desiderio, oltre ad una conoscenza delle discipline
cosmiche. Con Camus non le era capitato spesso, con Aioros quasi sempre. Ma
quell’ombra, che vedeva ora nel cosmo di Acquarius, era la stessa di quella
notte. La notte in cui amò Sagittarius per l’ultima volta. La notte degli
inganni.
Camus,
dopo averle baciato la guancia, fece per scostarsi, sapeva che Elettra non amava
molto stare appiccicata dopo l’amore, ma stavolta lei lo trattenne; la guardò
sorpreso.
"Resta."
Lo pregò. "Voglio sentirti." Aggiunse stringendolo a se; lui accettò
ben volentieri e, poco dopo, si addormentò, senza accorgersi che la donna,
invece, era rimasta ben sveglia.
CONTINUA
NOTE:
-
Camus fa tanto per rimanere un guerriero impassibile e freddo, ma alla
fine cede sempre alla sua natura umana, e la sua catarsi non può che essere
Elettra. Come sono complicati ‘sti due… Mi piacciono!
-
Elettra, come gran sacerdotessa, ha una visione più ampia perfino di
quella di un cavaliere, ma mi piace credere che la sua chiarezza sia dovuta al
fatto che non mai perso la fiducia nella sincerità e nell’amore di Micene/Aioros.
-
Ah, non so se si capisce (forse no…), ma non ho pensato questo come
l’ultimo incontro tra i due, ma più che altro come il momento in cui la donna
si rende conto che il destino di Camus è segnato.
SFOGO
MALUPINO
1
– Non c’è Milo in questo capitolo… dove sei Miluccio bbelloooo?! Vabbene,
dai, accontentiamoci di Camus (e dico poco ^__-)
2
– Era giusto e doveroso celebrare il corpo di Camus. Punto. …Dov’è
l’asciugamano per la saliva?!?!
A
presto!
CrazyCow