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Autore: darkrin    10/05/2010    4 recensioni
(A Chiara)
Hermione non era mai una donna, se non di sera, quando anche i suoi occhi erano così stanchi da sembrare ubriachi e quando un manto d’oscurità calava su quella casa, addormentandone gli abitanti e gli eroi dei suoi libri, quando gli sguardi s’illanguidivano e perdevano prestanza.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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What is hiding in those weak and drunken hearts

(God knows)
     
        
        
        
Hermione ha sempre amato i libri in modo quasi viscerale: li ha sempre considerati più sinceri delle persone e più affidabili, nella loro immutabilità.
Il primo regalo di cui ha memoria era stato un antico libro di storia “babbana” per bambini; lei aveva cinque anni e non se n’era separata finché non l’aveva imparato a memoria.
    
«Carlo Magno istituisce i Missi Dominici, che avevano il compito di attraversare l’impero in lungo e largo per risolvere questioni d’interesse generale, secondo le direttive emanate dall’Imperatore da Aquisgrana. Così facendo Carlo Magno tenta di unificare la politica.»*
Pagina 40, riga 15
    
In seguito, la sua fame di pagine e inchiostro nero non si era più placata. Erano più i libri che aveva letto, che le persone che aveva incontrato e con cui aveva stretto un rapporto d’amicizia. Erano ancor di meno coloro, le cui parole beveva, come faceva con l’inchiostro che segnava la carta bianca, come una cicatrice eterna.
Fino agli undici anni, Hermione Jane Granger era cresciuta in un mondo fatto di carta e inchiostro, regole ferree e certezze indissolubili, poi aveva conosciuto Ron e Harry e lentamente aveva cominciato a vivere, senza perdere il suo interesse per altre storie.
    
    
 «God knows what is hiding in those weak and drunken hearts
I guess the loneliness came knocking
No one needs to be alone, oh save me»
(People help the people, CHERRY GHOST)

    
    
Il libro abbandonato sul comodino, fu la prima cosa che vide, svegliandosi al mattino – un mattino grigio, ancora inebriato dalla notte trascorsa; era un mattino di Grimmauld Place n°12.
Hermione socchiuse gli occhi accecati dal titolo dorato, “Storia e Geografia dei Maghi Inglesi (Purosangue)”. Era l’ultimo dei libri che aveva comprato quando aveva saputo della fuga di Sirius Black da Azkaban e del pericolo che lui rappresentava per Harry.
Li aveva letti con un’idea fissa in mente, come un’insegna di un vecchio Pub: Sirius Black era un nemico e doveva scoprire il più possibile su di lui per abbatterlo e salvare il suo migliore amico, e le parole nere avevano raggiunto la sua mente, come se passassero attraverso un mare di specchi, in cui il senso si era perduto. Aveva deciso di rileggerli, senza più pregiudizi, né certezze, oltre a quegli occhi scuri e infossati, che l’avevano guardata, mentre lo salvava.
Lui, Sirius Black, le era sempre parso più arcaico di tutti i libri che possedeva: c’era una vecchiaia antica nelle ossa dell’uomo, che sapeva di morte annunciata, di parole censurate e gettate su pavimenti luridi, di altre storie a lei sconosciute.
Leggere i libri le aveva fatto tornare alla mente una curiosità mai sopita sulle storie di quei Purosangue, che tanto la disprezzavano e aveva cominciato a seguirlo, guidata da una giovanissima sete di sapere. Se anche lui se n’era accorto – e lei ne era quasi certa, quasi speranzosa –, non l’aveva dato a vedere, l’aveva lasciata fare, come fosse una bambina da viziare.
Hermione non era mai una donna, se non di sera, quando anche i suoi occhi erano così stanchi da sembrare ubriachi e quando un manto d’oscurità calava su quella casa, addormentandone gli abitanti e gli eroi dei suoi libri, quando gli sguardi s’illanguidivano e perdevano prestanza.
Di notte riusciva a far finta di essere quasi una donna con gli occhi chiusi e un corpo da bambina, non vista.
Osservò il libro, posato sul comodino, e ne sfiorò la copertina di cuoio con dita incerte: i ricordi della sera prima erano tutti lì, tutti lì, nella sua mente, svegli come lei non era stata, come lui aveva finto di non essere.
Svegli e fruscianti – come il suo respiro, la sera prima.
    
   
Fu Sirius a raggiungerla – e a portarla per mano sull’orlo –, mentre se ne stava seduta sulla sua poltrona, con quel libro sulle gambe. Erano così soli da far spavento e lei pensò che era strano vederlo senza Harry al fianco, che la cosa la terrorizzava, ma la faceva sentire quasi bene.
Le porse una tazza fumante, che lei accettò con un sorriso, e si sedette sul bracciolo della sua poltrona, sporgendosi oltre la sua spalla per scorgere le parole nere. Pesava più su di lei, che sul mobile e a Hermione mancò il fiato, quando sentì l’odore di lui, scivolarle su per le narici, fino a raggiungere i nervi ed il cervello.
Smise di respirare e sorseggiò la bevanda calda, che le bruciò la lingua, tentando di riacquistare una parvenza di controllo. Tossì e lui ne rise. Hermione fece una smorfia e il sorriso sul volto di lui si allargò, sembrava una tagliola pronta a serrarle la gola con infinita dolcezza.
«Bel libro,» commentò lui, con un sopracciglio sollevato, quando comprese. «I Purosangue non meritano tanto interesse,» concluse, mentre un’ombra calava sul suo volto, che le parve lontanissimo.
Lei scosse il capo, lentamente.
«Io penso di sì. Ci dovrà essere un motivo per il loro… atteggiamento
«Certo che c’è: il bigottismo e lo sposarsi fra cugini,» affermò lui, con un ghigno tinto d’amarezza.
«Non è solo quello,» sibilò Hermione, ostentando una sicurezza che non le era propria, mentre le parole le ferivano i denti e le gengive.
«Non c’è altro, Hermione. Null’altro che meriti la tua attenzione.»
Lei pensò che c’era qualcosa di profondamente sporco – e sbagliato e segreto – in quelle parole ed ebbe l’istinto di fuggire, di rinchiudersi nella sua stanzetta, di circondarsi di mura e baluardi più resistenti di quel misero spauracchio di carta e inchiostro. Ebbe l’istinto di fuggire da lui, ma la sua presenza era così solida, così certa, così sconosciuta da trattenerla, da legarla in modo indissolubile.
Lei scosse il capo.
«Per sconfiggere l’avversario bisogna conoscerlo. È il primo precetto di qualsiasi strategia militare,» affermò, scotendo il capo, cercando qualcosa di solido a cui aggrapparsi. E non simile a una ripida china, in cui scivolare in eterno, come la sua cassa toracica in quel momento – ed il suo cuore era come un buco nero che le rubava il fiato, il sangue, il tempo.
Sorseggiò la bevanda, assaporando il calore alla gola e nel ventre, illudendosi che quello potesse ancorarla al suolo e alla certezza, ma non c’era nulla di certo, in quelle sere estive, bruciate, perse – come il treno delle sette, come i centesimi abbandonati ad una fermata dell’autobus da una bambina distratta, come i sogni infantili.
«Non è attraverso un libro che conosci il tuo nemico, ma sul campo di battaglia,» disse lui.
«Se arrivi impreparato sul campo di battaglia, muori.»
Parlavano di strategia, come si parla d’amore. Le parole scivolavano come un inutile balsamo su ferite troppo profonde, lenendo soltanto il dolore momentaneo; accarezzavano il cuore, premendo sul miocardio e lì si fermavano: non avevano la forza per andare oltre, per essere davvero, essere per sempre.
Parlavano di strategia, come altri avevano parlato d’amore, senza averne davvero la forza.
E la notte appassiva calma, come il lume di una candela. Il loro tempo era scandito dal gocciolare della cera e dal lento consumarsi della tisana alle erbe di Molly, nelle tazze di ceramica.
Non c’erano orologi, non c’erano stelle, non c’erano più sguardi, né tocchi leggeri delle dita. C’erano solo le parole e l’attesa opprimente di uno scontro agognato e temuto – tra di loro, prima ancora che con i Mangiamorte.
«Non se sei abbastanza esperto e fortunato,» concluse Sirius, con un ghigno brillante, giocherellando con un lembo sfilacciato del liso rivestimento della poltrona.
Hermione pensò che si era sempre ritenuta esperta in un sacco di cose, ma all’arrivo di lui era caduta, ancor prima di combattere. Era perita prendendolo per mano e guardandolo, quando c’era ancora la luna e l’aria fresca non era ancora proibita – come un peccato capitale, come avvicinarsi per sentire meglio le sue parole, come lo sfiorarlo.
Hermione aveva avuto paura a lungo; l’aveva temuto e guardato, ma non era bastato a salvarla.
«La fortuna non fa vincere una guerra,» sentenziò lapidaria.
Lui sorrise, divertito.
«Di sicuro aiuta.»
Hermione rimase in silenzio, assaporando l’aria della notte e l’odore dell’infuso caldo nella tazza, tra le sue dita. Sorrise, inconsciamente, quando si rese conto che lui, l’uomo, stava regolando il respiro sul ritmo del suo, della ragazzina acerba, della mela ancora appesa saldamente all’albero, della maga babbana.
«Perché leggi quel libro, Hermione?» chiese di nuovo lui, con una dolcezza strana. Doveva essere la notte, l’odore stordente delle erbe della tisana; si convinse lei.
Era la stanchezza di giornate vane, che le faceva socchiudere gli occhi marroni – che sembravano biglie nere, sotto veli scuri, come ciglia.
«Per conoscere,» sussurrò.
Consapevole che lui la stava portando, con delicatezza immane, la stava portando dove non voleva, in quel luogo che lei aveva tentato di evitare sempre, in quel luogo privato, colmo di pensieri segreti che giocavano a nascondersi, come scheletri in armadi dimenticati.
Era la sua mente; erano i suoi desideri, i suoi segreti.
«Cosa?» domandò lui, schiacciandola, con quella misera parola.
Cosa? Tu che sai già tutto, cosa vuoi sapere, ancora?, sembrava chiederle, con la delicatezza di un burattinaio, che faccia danzare le sue bambole di pezza, con la crudeltà di un cacciatore, che si diverta a inseguire la sua preda, a vederla braccata in un angolo proibito, in trappola.
Le parole le sfuggirono dalle labbra come biglie sporche, rotolarono sul pavimento, fino a fermarsi ai piedi di lui, che le raccolse con una delicatezza eterna, vecchia.
Non si accorse subito di quello che aveva detto, non si rese subito conto della sua portata, stordita. Fu solo quando loro, le parole, smisero di tichettare sul pavimento di pietra, come segreti, che realizzò di essersi voltata a guardarlo in attesa di una qualche reazione, che si era protesa verso di lui, che la guardava e sorrideva – ed era vecchio, come non mai.
Volevo saperne di più su di te.
Un sussurro, nella notte. Una confessione da non fare.
A quel punto, Hermione arrossì e annaspò e le parve che la presenza di lui fosse ancora più pesante e grande, vecchia e possente, su di lei e si nascose sotto i suoi capelli scomposti e confusi, sentendosi braccata e colta sul fatto, come una colpevole.
Lui rise:
«Se vuoi sapere qualcosa su di me, ti basta chiedermelo, Hermione.»
    
    
«And if your homesick, give me your hand and I’ll hold it
People help the people
Nothing will drag you down»
(People help the people, CHERRY GHOST)
    
   
Accadeva sempre tutto di sera, tra loro, era inevitabile: lei l’aveva riportato alla vita in una notte oscura d’inizio estate, si era legata a lui sotto un manto di stelle.
Di notte, s’incontravano e si separavano, come i ballerini sghembi di un vecchio carillon (una notte di fine estate l’aveva visto morire, inghiottito da un’oscurità che non era riuscita a scacciare, nonostante tutte le sue letture e i suoi minuscoli tentativi di trarlo in salvo – la fortuna, si disse, le era mancata la fortuna e ne pianse). Di notte lui era sparito per sempre.
     
   
     
    
    
   
   
   
   
   
   
    
   
    
    
   
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1:*Informazioni amabilmente prese da: http://cronologia.leonardo.it/mondo38.htm, e rielaborate da me medesima.
2: (per chi fosse così tonto da non essersene accorto) Il titolo della storia è un verso della canzone dei Cherry Ghost.
     
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A Chiara, per sempre. Anche se non è abbastanza, anche se meriteresti di più, meriteresti di meglio. A te, comunque, che sei l'Anima mia, la mia Maestra, un punto fermo, una delle mie certezze, colei che capisce sempre tutto prima ancora che io dica, colei che c'è sempre nonostante la mia terribile incostanza e le mie sparizioni improvvise. A te con tutto l'affetto che vorrei poterti mostrare con un abbraccio e un sorriso, in questo giorno che vorrei passare con te. Invece mi limito a dedicarti ciò nella speranza che almeno parte dell'amore che ci ho messo possa raggiungerti, che in qualche modo possa toccarti. Vorrei davvero che lo facesse. Ti voglio bene e buon compleanno. <3
     
(E dopo un anno siamo ancora qui, ancora con loro.)

   
 
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