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Autore: Blackbutterfly1994    13/05/2010    5 recensioni
Con le cuffie nelle orecchie e gli occhi persi tra queste strade che conosco fin troppo bene, il leggero movimento dell’autobus culla i miei pensieri, i quali si rincorrono nella mia mente senza che io riesca ad imbrigliarli e tenerli fermi; senza che io riesca a spegnere il cervello.
Se fossimo in un libro, o in un film, ti direi che non so come siamo arrivati a questo, che ti amo ancora e non riesco a capire come faccio a starti lontano.
Ma la realtà è diversa, Col, terribilmente, irrimediabilmente diversa, e fa maledettamente paura.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non liberarmi mai da questo dolcissimo dolore.

Allora… premetto che ultimamente sono completamente andata in fissa con questi due! XD

Dopo aver visto “Alexander” sono rimasta praticamente folgorata, e sono rapidamente passata dal pairing Ale/Phai a quella Leto/Farrell.

Sono entrambi coppie che amo visceralmente, ognuna per una sua caratteristica.

Ma venendo alla fic… è stata scritta di getto alle undici di sera, prodotto estemporaneo di un’ispirazione improvvisa.

Spero vivamente che voi tutti mi facciate sapere cosa ne pensate, non sapete come mi fanno piacere i commenti, anche se sono critiche!

Quindi vi esorto a lasciarmi un segno del vostro passaggio.

Nonostante questo, ringrazio anche chi leggerà soltanto senza lasciare niente di scritto.

Grazie comunque per la pazienza.

Detto questo,

buona lettura.

 

Disclaimers: Ammetto di non conoscere né Jared Leto né Colin Farrell (per mia sfortuna XD). Non conosco le loro vite e questa storia è puramente di mia invenzione, dall’inizio alla fine: si tratta di una situazione che probabilmente non si è mai verificata e che, altrettanto probabilmente, non avverrà mai.

 

Non liberarmi mai da questo dolcissimo dolore.

 

La città, fuori dal finestrino, corre troppo veloce affinché i miei occhi stanchi possano afferrare ogni piccolo particolare che la compone.

Il pullman rimbomba di voci urlanti e di risa quasi sguaiate, ma io rimango in silenzio, osservando il paesaggio immerso nel silenzio della notte sfrecciarmi accanto. Gli scossoni della vettura mi fanno sobbalzare, ogni tanto, tuttavia non vi presto troppa attenzione.

Con le cuffie nelle orecchie e gli occhi persi tra queste strade che conosco fin troppo bene, il leggero movimento dell’autobus culla i miei pensieri, i quali si rincorrono nella mia mente senza che io riesca ad imbrigliarli e tenerli fermi; senza che io riesca a spegnere il cervello.

Se fossimo in un libro, o in un film, ti direi che non so come siamo arrivati a questo, che ti amo ancora e non riesco a capire come faccio a starti lontano.

Ma la realtà è diversa, Col, terribilmente, irrimediabilmente diversa, e fa maledettamente paura.

Perché so il motivo per cui mi trovo in questo cazzo di pullman così fottutamente lontano da te. Lo so con così tanta chiarezza da farmi quasi lacrimare gli occhi.

E anche se fa male anche solo pensarci, non posso negare quanto tutto questo sia giusto, pur nell’enorme dolore che questa distanza mi provoca.

Chiudo gli occhi, appoggio la testa al sedile cercando di placare il mal di testa che mi ha aggredito.

Questo autobus che scorre fra le vie di Dublino, fra le vie della tua città, mi fa tornare alla mente emozioni, pensieri che ho cercato di cancellare, di rimuovere dalla mia mente. E invece, adesso che rivedo ad uno ad uno tutti i luoghi che hanno scandito l’evolversi della nostra storia, o forse dovrei dire della mia storia, tutto mi riappare alla mente troppo vividamente per poter essere arginato.

Non ho la forza di distogliere i miei pensieri, Colin.

Non oggi; non stasera.

Forse…

Forse non avrò mai questa forza, almeno non in questa vita.

 

La luna piena bagna l’asfalto di luce pallida.

Mi piace, la luna: ha in sé qualcosa che mi ricorda me stesso con quella sua algida superbia, quella sua bellezza così esasperante.

 

E intanto i pensieri corrono, inesorabili…

 

Non mi ci è mai voluto molto per portarmi qualcuno a letto, Colin, lo sai benissimo: ragazzi e ragazze cadono ai miei piedi con una facilità quasi disarmante.

Ed è cominciata così anche con te: battute maliziose, sguardi languidi, movimenti calcolati.

Te l’ho detto che sei stata la più bella scopata della mia vita?

Quel tuo modo deciso di condurre i giochi, quella tua ruvidezza tipica di chi se ne frega del mondo, quella tua voglia di provare piacere per primo… erano qualcosa che mi mandava fuori di testa, che mi faceva ansimare oscenamente, come una puttana.

Credo che tu abbia pensato questo di me, almeno all’inizio: che io fossi uno che da il culo facilmente, che non si fa mai troppi problemi.

Come faccio a darti torto? E’ questo ciò che sono.

E’ questo ciò che ero.

Eppure, dopo qualche tempo, i miei occhi hanno cominciato a seguirti costantemente anche fuori dal letto. E non volevo, Dio, non volevo innamorarmi di te! Sapevo che sarebbe stata una scocciatura per entrambi, eppure il mio cuore non voleva saperne di stare buono quando tu eri nei paraggi; la mia maschera di rockstar menefreghista si crepava di colpo quando mi sorridevi, ed io sentivo di volerti abbracciare così forte da impedirti di respirare.

Non mi ero mai innamorato sul serio, e affrontare quel sentimento da solo mi spaventava da morire: la dipendenza che avevo di te, quel mio bisogno esasperante di sentirti con e dentro di me ogni istante mi terrorizzavano. Non sapevo che fare, come gestire quelle sensazioni a me così estranee.

E tu non mi aiutavi: prendevi il piacere dal mio corpo come e quando volevi, senza remore, senza rispetto.

Oh, certo, non mancavi mai di farmi raggiungere l’orgasmo insieme a te, ma ogni volta, dopo, mi sentivo sempre più vuoto, come se ad ogni nostra scopata mi rubassi anche l’anima.

Mi sentivo così ridicolo! Così fottutamente stupido!

Mi dicevo che per te ero solo un corpo da sbattere come e quando volevi, che ti servivo solo per scaldarti il letto quando nessun altro era disposto a farlo… e dopo mi dicevo che dovevo tranciare quell’ossessione che avevo, quella dipendenza malata che mi portava ad accettare quella condizione degradante.

Ma sapevo, in fondo, che non mi interessava se tu mi consideravi poco più di passatempo: l’importante era poter stare con te il più possibile.

Del resto del mondo non volevo più saperne niente.

 

Ero a conoscenza del fatto che quella sorta di gabbia in cui mi ero rinchiuso, quel piccolo mondo all’interno del quale mi ero trincerato, vivendo solo delle briciole d’amore che mi lanciavi di tanto in tanto, si sarebbe frantumato, prima o poi.

Lo sapevo, e cercavo di prepararmi a questa evenienza in ogni momento.

Hai anche solo una vaga idea di quante volte io abbia provato ad alzare quel maledetto telefono per urlarti che non ne potevo più di essere fottuto come se fossi uno straccio vecchio? Non ce l’ho fatta.

Ho continuato, come uno stupido, a crogiolarmi nel falso calore donatomi dalle tue mani: mani sapienti, mani stupende. Mani che però toccavano solo la mia pelle, senza voler andare più a fondo, senza avere la volontà di afferrare il mio cuore.

Eppure io te lo porgevo, e sarei stato così felice di riporre la mia anima alle tue cure, Col!

Non l’hai mai voluto fare. Non hai mai voluto guardarmi veramente negli occhi. Non hai mai veramente voluto me.

 

La realtà mi è stata sbattuta in faccia un giorno come tanti altri. Un giorno maledettamente normale, eppure così totalmente diverso.

Semplicemente, dopo aver fatto sesso per l’ennesima volta, mi hai guardato dritto negli occhi e mi hai detto:

- Ti sei innamorato di me, Jay, e questo non va bene. Ti voglio bene, non voglio farti stare ancora peggio di quanto tu stia adesso. E’ meglio per te se smettiamo di vederci  -

Poche parole.

Poche parole che, in un millesimo di secondo, hanno distrutto il castello di carta che mi ero costruito con tanta fatica, e nel quale avevo scelto di credere fino alla fine.

Non risposi, non ti guardai, non piansi. Non feci niente. Semplicemente mi alzai e mi rivestii in silenzio, ascoltando il mio cuore battere lentamente come se arrancasse. Sentivo il tuo sguardo puntato sulla schiena, e continuai ad avvertirlo anche mentre mi avviavo alla porta. Poco prima di uscire da quella stanza e dalla tua vita, mi fermai.

- Da quanto lo sapevi? – chiesi.

Scegliesti di non rispondermi, ed io mi aprii in un sorriso amaro.

- Cazzo, Farrell, stavolta hai superato te stesso – mormorai, quindi aprii la porta e uscii dalla tua vita.

 

Quanto tempo è passato da quell’attimo?

Giorni, mesi, anni…

Da allora la mia concezione del tempo è tragicamente distorta: i secondi mi paiono millenni, i giorni sembrano non finire mai.

La notte, quando tutto tace, ed io sono preda fragile dei miei dolorosi pensieri, mi ritrovo a contare i minuti dall’ultima volta che ti ho visto, dall’ultima volta che ho potuto ascoltare i battiti frenetici del tuo cuore troppo freddo.

E allora, in quei momenti, mi rendo conto che il tempo trascorso è davvero tanto.

Quasi sette anni: sette interminabili, lunghissimi, dilanianti, dolorosi anni.

Mentre mi rigiro nel letto, mille domande affollano la mia mente, e a volte mi chiedo se non sia stato tutto un sogno. O un incubo.

A volte fatico a credere che tutto questo sia realmente accaduto.

Ma poi, quando, alla fine di un concerto, sento un corpo senza nome e senza volto spingere in me e avverto la disperazione assalirmi, mi rendo dolorosamente conto che è tutto vero: le ferite che mi hai lasciato addosso, benché non visibili, bruciano ancora troppo per essere immaginarie.

Sai, non ho più provato quel calore speciale che solo tu sapevi darmi.

Non è buffo notare come persone che mi amavano realmente non siano state capaci di riscaldarmi come facevi tu, nonostante io rappresentassi per te solo un gioco?

Ah, Colin, la vita è così strana…

Mi sono innamorato dell’unica persona che non potrò mai avere.

E tutto questo è così patetico, così banale.

 

Con un ultimo, tremante sospiro riapro gli occhi e proprio in quel momento passiamo davanti al vicolo buio in cui mi hai baciato per la prima volta.

Quando sento lacrime indesiderate inumidirmi gli occhi, capisco che questo dolore non avrà mai fine; che questo amore mi piegherà fino a spezzarmi.

E non posso che attendere con ansia quel momento.

 

 

Le urla delle migliaia di fan che, dall’altra parte del palco, scalpitano impetuosi ed impazienti, mi stordiscono la mente.

L’ennesimo concerto, l’ennesima esibizione.

L’ennesima farsa.

E mi sento così stanco, Col… soprattutto oggi, soprattutto adesso che mi trovo costretto ad indossare la mia maschera di rockstar ribelle proprio nella tua città.

Sai, a volte, girandomi, ho quasi avuto l’impressione di vederti apparire d’un tratto come un sogno bellissimo.

Naturalmente, so quanto tutto questo sia inverosimile: dopo tutto questo tempo, non sono neanche sicuro che tu ricordi il mio nome.

Tuttavia, mi piace pensare che tu riesca a rievocare ancora la dolcezza dei miei baci, la dedizione con cui cercavo di fare in modo che tutto fosse per te perfetto.

Vivo di continue illusioni, lo so, continuo a divorare fantasie su fantasie anche adesso che non ci sei più.

Ma sono l’unica cosa capace di tenermi ancora vivo, capisci?

Ne ho bisogno, anche se tutto questo è squallido.

Ma d’altronde, chi decide cos’è giusto e cos’è sbagliato?

Una volta credevo di sapere cosa volevo dalla vita, credevo di saper discriminare ciò che è bene da ciò che è male: eppure, nel momento in cui mi sono innamorato di te, questa mia percezione è sfumata come neve al sole, e mi sono reso conto che nella vita non esistono discriminazioni di questo genere.

Esiste solo ciò che ci è necessario per vivere e ciò che non lo è.

Ed io so che ho bisogno di credere che ti ricordi di me; so che se scoprissi che non sai più chi sono, morirei.

 

L’entrata della band viene accompagnata da un frastuono assordante.

Sorrido, la mia immagine perfetta di star che splende, luccicante, come la luna che ci sovrasta, guardiana silenziosa di questa notte piena di rumore.

Trovarmi a cantare a Dublino mi fa sentire strano: questa città ha qualcosa di magico.

Dovrebbe trasmettermi solo dolore, lontani echi della sofferenza di cui è stata teatro, eppure mi sento in pace mentre urlo su questo palco.

Perché? La risposta non è difficile da trovare: perché anche se questa ossessione che nutro per te, e che non mi abbandonerà fino alla morte, mi fa morire ogni giorno un po’, so che senza questa non mi sentirei nemmeno vivo. E allora, tra apatia e sofferenza, preferisco quest’ultima.

Ecco, quindi, il motivo per cui cantare qui è si strano, ma non sconvolgente: mi sento un po’ come se fossi tornato a casa dopo un lungo viaggio. So che probabilmente questa sarà l’ultima volta che un tour dei 30 seconds to mars farà tappa a Dublino, ma non mi importa di niente, almeno non in questo momento.

Adesso come adesso esistiamo solo io e le mie canzoni, io e i miei fan.

Io e i miei occhi, che non vogliono saperne di guardare al presente e si perdono a contemplare la luna, che continuano a splendere di un passato ormai trascorso che non potrà mai più tornare.

Io e i miei occhi, occhi che sono pieni di te, come sempre; occhi che ti hanno amato, che ti amano, che ti ameranno per sempre; occhi che non ti vedranno mai più. Occhi che, al termine di quest’ultima canzone, sono più lucidi che mai.

Dirò ai giornali e alla mia band che è solo a causa della luce molto forte dei riflettori, della stanchezza e dell’emozione causatemi dall’amore che ho sentito i miei fan provare per me.

Si, dirò a loro tutto questo.

Ma io saprò che questa lacrima solitaria che mi solca il viso, adesso, è solo per te.

 

E lo sai anche tu, tu che mi guardi in silenzio, immobile, dalla prima fila.

Abbasso gli occhi su di te, fissandoti per un unico istante eterno, poi tu mi sorridi appena.

Non ho neanche il tempo di risponderti: nel tempo di un battito di cuore, sei già svanito fra la folla.

 

E comprendo che questo è un addio, quell’addio che non mi hai rivolto mentre mi chiudevo la porta alle spalle quel giorno.

E comprendo, mentre i riflettori si spengono di botto per enfatizzare la fine del concerto, che ho fatto male i miei conti.

Non è vero che non hai mai preso in mano il mio cuore.

Oh, eccome se l’hai fatto: me l’hai quasi strappato, e l’hai tenuto fra le dita per molto tempo.

Poi l’hai stretto così forte da distruggerlo.

 

Al buio, sopra questo palco, con le acclamazioni dei fan che mi riempiono le orecchie e la luna che illumina flebilmente la notte, la mia voce sussurra una cosa soltanto, in un mormorio basso, fortemente in contrapposizione con le urla che hanno caratterizzato quest’intera serata.

 

- Addio –

 

E so che, nonostante il mio sia stato solo un flebile sussurro appena udibile, tu mi hai sentito.

 

E mi stai sorridendo.

   
 
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