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Autore: Cassandra caligaria    15/05/2010    4 recensioni
“Io non so come definire quello che provo per te, non riesco a dargli un nome. Forse perché non ho termini di paragone. E’ tutto così nuovo per me … ma questo non vuol dire che sia dispiaciuta o pentita. Anzi … anche tu mi piaci molto Edward.”
“Ti va di scoprirlo insieme, allora? Hai voglia di cercare con me un nome da dare a queste sensazioni?”
“Sì”, affermò decisa, prima di ricominciare a giocare con le mie labbra.
“Ci sono solo quattro domande che contano nella vita. Cosa è sacro? Di cosa è fatto lo spirito? Per cosa vale la pena vivere? E per cosa vale la pena morire? La risposta a ognuna è la stessa: solo l'amore.” Mi chiamo Isabella Swan e questa è la mia storia.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Cullen, Edward Cullen, Isabella Swan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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ANGOLO DELL’AUTRICE

Buonasera, anzi … è quasi un buongiorno!!! Allora, dopo aver militato per quasi un anno tra le pagine di EFP leggendo molte fan fiction ho deciso anch’io di cimentarmi nella pubblicazione di questa storia, nata un po’ per caso, frutto di una nottata insonne. Spero davvero che vi piaccia. Ringrazio infinitamente le sei splendide persone che hanno inserito la storia tra le seguite:

1 - alexia__18 [Contatta]
2 - Betty O_o [Contatta]
3 - beverlina [Contatta]
4 - Lizzie95 [Contatta]
5 - Moon Light [Contatta]
6 - zlatyna [Contatta]

Grazie a Zlatyna per averla inserita anche tra le preferite. Un ringraziamento molto speciale a Beverlina, per avermi inserito tra gli autori preferiti :)

E mille mille grazie a Lizzie95 che ha recensito il prologo. Spero che anche questo primo capitolo sia all’altezza delle tue aspettative. Mille grazie ancora.

Vi lascio al capitolo e vi auguro una buona lettura. Nice night ;)

 

CAPITOLO 1 - ADMISSION (RICOVERO)

"L'unica cosa di cui hai bisogno per sentirti speciale sei tu" (La timidezza delle rose di Serdar Ozkan)

Pirandello diceva “La vita o si vive o si scrive”.Già, ma se non vivi cosa scrivi?! Bella domanda! Vivere … non ho mai capito appieno il significato di questo verbo. Certo da un punto di vista prettamente biologico so cosa è la vita, ma dal punto di vista metafisico … cos’è la vita? Perché viviamo? E soprattutto … il gioco vale la candela? A cosa serve vivere se esistono malattie, guerre, sofferenza? Citando Don Juan de Marco “Ci sono solo quattro domande che contano nella vita. Cosa è sacro? Di cosa è fatto lo spirito? Per cosa vale la pena vivere? E per cosa vale la pena morire? La risposta a ognuna è la stessa: solo l'amore.”

L’amore … non so cosa sia. Non mi sono mai innamorata. Eppure è la chiave del mistero della vita. Non sono una persona credente, però quando mi guardo intorno mi chiedo quale sia la forza o il potenziale che ha generato tutto quello che vediamo, che ci dà la forza di andare avanti, di fare dei progressi, di crescere … è l’amore, questo grande estraneo. Ho vent’anni e non mi sono mai innamorata, non ho mai avuto un ragazzo, né delle amiche vere. Ma non ne ho mai sofferto, almeno fino ad ora. Fin all’infanzia ho sempre creduto di essere come il brutto anatroccolo dei fratelli Andersen, non mi sono mai curata del fatto di non essere magra, bella e popolare. No, ho sempre detestato quelle oche che venivano a scuola con me! Io ero in compenso la più intelligente e la più brava della classe, e mi andava bene così. Ogni traguardo scolastico raggiunto compensava, o almeno così credevo che fosse, tutte le esperienze che le mie coetanee vivevano, ogni A + presa mi ripagava di tutte le feste di fine anno a cui non ho mai preso parte, perché nessuno mi ha mai invitata. Una volta al college, credevo, sarebbe spuntato il cigno che era nascosto dentro di me, avrei trovato ragazzi più simili a me, più affini, forse, mi illudevo quasi che avrei finalmente potuto avere una vita normale, come una qualunque ventenne, fatta non solo di studio e successi scolastici, ma anche di amici, e perché no, amore. Ma non avevo fatto i conti con la mia estrema timidezza e con il fatto che le persone sono sempre uguali, ovunque, come diceva sempre mia nonna Marie : “Tutto il mondo è paese, bambina mia!”.

Il primo giorno al college mi sedetti come sempre in prima fila, sola, per seguire meglio, e continuai a farlo tutti i giorni della settimana. Durante i week end rimasi a casa a studiare, e quel cigno che doveva uscire fuori è rimasto intrappolato nel corpo e nella mente dell’anatroccolo, per sempre succube della paura della libertà.

Ed ora sono nella corsia di un pronto soccorso in attesa che si liberi un posto letto in reparto, sola, come al solito. In fondo si nasce e si muore soli, a me evidentemente toccherà anche vivere sola, non ci sarà traffico nella mia vita, no.

Eppure, distesa su una barella, con un camice bianco ed un misero lenzuolo a ripararmi un po’ dal freddo, con un “butterfly” sul dorso della mano, perché la mia grande fortuna ha voluto che l’infermiere non riuscisse a trovarmi la vena nella piega del gomito, e dopo vari accanimenti e tentativi fatti con un ago comune, causandomi un gran bell’ematoma, si è arreso ad infilarmi un butterfly sul dorso della mano, mi chiedo a cosa serve sapere e capire tutto quello che mi hanno diagnosticato i medici? A che pro sapere la fine che farò?

E’ arrivato il momento, anche per me, di fermarmi e fare un “bilancio” della mia vita.

In questo momento vorrei tanto essere come quella ragazza seduta di fronte a me. Si è tagliata un dito e le stanno dando dei punti di sutura. Piange, come se le avessero dato poche ore di vita, e il suo ragazzo accanto le accarezza i capelli dandole qualche tenerissimo bacio sul viso, mentre le tiene stretta l’altra mano, come per infonderle forza e sicurezza. Non sono invidiosa, ma vorrei tanto poter piangere anch’io come lei, in fondo la sua è una sciocchezza rispetto a quello che è stato diagnosticato a me. Vorrei poter avere anch’io paura come lei, sarebbe giusto, e avere qualcuno accanto che mi tenga per mano, che mi rassicuri, che mi faccia capire che comunque vada non sarò sola, in fondo ho solo venti anni, non dovrei essere abituata a ricevere cattive notizie in un pronto soccorso. Mi ritornano in mente, pungenti come aculei velenosi, le parole che mi ha detto la dottoressa poche ore fa, con la delicatezza di un pachiderma.

“Signorina, c’è una neoformazione di circa 15 cm a carico dell’ovaio sinistro. Speriamo non si tratti di un carcinoma ovarico. Dobbiamo ricoverarla per ulteriori analisi che ci permetteranno di capirne la natura e poi decideremo come intervenire. C’è qualcuno con lei?”

“No, sono sola. I miei vivono a Forks”.

“Bene. Se vuole, può avvisarli. E’ bene che ci sia qualcuno con lei, soprattutto se si riterrà opportuno intervenire chirurgicamente, avrà bisogno di assistenza. Ora mi scusi, preparo il referto. Verrà a prenderla qualcuno per il ricovero.”

“Ok, la ringrazio”.

Certo, “la ringrazio”.

Mi dicono che probabilmente ho un tumore ed io li ringrazio! Tipico di me! Sempre troppo composta e perfetta in ogni situazione. Anche se dentro ho una rabbia e un dolore che fanno male come il sangue che pulsa in una ferita fresca, continuo a sorridere e ringraziare i paramedici e gli infermieri che di tanto in tanto si ricordano di me e vengono a controllare a che punto è la mia flebo e mi chiedono come va il dolore.

Non so neanche quanto tempo sia passato da quando ho messo piede qui dentro, ore, o forse addirittura è l’alba del giorno dopo, finalmente arriva un’infermiera.

“Isabella Marie Swan?”

“Mmm, si sono io”, rispondo un po’ assonnata, tutta colpa della morfina che molto probabilmente mi hanno iniettato nella flebo.

“Si è liberato un posto letto nel reparto di chirurgia generale, andiamo”.

“… Ook”.

Non ricordo molto di quello che è successo dopo, so solo che quando mi sono svegliata ho sentito un forte odore di alcool misto ad una blanda fragranza di limone, e facendo mente locale ho aperto gli occhi e mi sono ritrovata tra lenzuola pulite e bianchissime. Volgendo lo sguardo alla mia sinistra, la flebo era ancora lì in bella mostra, a destra un lettino vuoto. Certo, sola anche nella camera dell’ospedale. Perfetto, meglio così. Molto probabilmente si sarebbe trattato di qualche caso di appendicite, avrei dovuto sopportare lagne di qualche ragazzina viziata e fingere di essere davvero interessata e dispiaciuta. Non che non lo sarei stata in condizioni “normali”, ma la mia attuale situazione è davvero ben più grave.

 

  
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