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Autore: Seiko    16/05/2010    1 recensioni
Durante l'infanzia difficilmente si riesce a dare il giusto peso a certi avvenimenti, sembrano sciochezze o qualcosa di fin troppo serio per essere divertente.
Forse è per questo che un colpo immaginario di pistola non fa poi così male. In fondo era soltanto un gioco fra bambini; vero?
|Law/Sanji|
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Sanji, Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '• Love is Vengeance; «Snow»'
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Fanfiction

 

Black & White

«Per gli occhi di un bambino è bianco o è nero, il resto sono colori.

 E il rosso è solo uno dei tanti. »

 

 

Ondeggia. Lento, denso, si interrompe solo al colpo secco del ghiaccio contro il vetro.

Un bicchiere di rum.

Se quella fosse una serata come tante l’unica cosa che quello sguardo coglierebbe sarebbe l’acido color arancio, seguito subito dopo dal pesante olezzo di alcolico. L’irrilevante, quanto poco evidente, problema era che quella, semplicemente, non era una notte come le altre. Del resto solo affacciando, per il tempo di un respiro, il naso in quell’atmosfera sarebbe chiaro che qualcosa in quella vita sta miseramente crollando.

Un appartamento che puzza di alcol e vago pulsare di disperazione, peccato che in realtà entrando in quella casa il profumo che si sente è quello dolcemente pungente della cannella.

Chissà perché poi proprio la cannella, una spezia così dannatamente portata ad accompagnare i dolci, quasi fosse l’ironico sorriso rivolto ad una storia persa in partenza.

Nemmeno si prende la briga di accostarlo alle labbra quel bicchiere, quasi l’unico scopo in quel momento sia contenere l’ondeggiare del liquore, che continua, imperterrito, ultimo spiraglio di quello che quasi potrebbe sembrare un hobby, e fa male. Il sordo dolore di una consapevolezza che ad ogni spiraglio di luce riflessa si fa sempre più chiara.

Non è l’alcol l’anestetico quella sera, nel buio interrotto della stanza l’unico punto di luce stabile sembra essere il tenue bruciare della sigaretta.

Una boccata, forse due, o molto probabilmente il conto si è perso ancora prima di cominciare. Una bionda o dieci avrebbero veramente una minima  importanza al momento?

Non si prende neanche la briga di rispondersi, in fondo lo sa già. Sa perfettamente che la cappa di tabacco che lo avvolge come una coperta amorevolmente altro non è che una protezione, un blando offuscarsi dei sensi, per non sentire, non vedere, non pensare, non ricordare.  

E forse appare quasi assurdo che ogni singolo dettaglio della casa, per quanto distorto dal fumo o dai riflessi amari del bicchiere di rum, sembri quasi pulsare di ricordi. Quasi la casa avesse voce, pungente e sarcastica, che si diverte sadicamente a raccontare tutto quello che è successo dentro e fuori quelle mura.

Patetico.

Avvicina la sigaretta alle labbra, il permeare del sapore di tabacco sulla punta della lingua, e come in un gesto meccanico i suoi occhi azzurri seguono il fumo che viene espirato con lentezza. Ma è attraverso il denso arancio del rum che lo intravede.

Un’illusione?

E inconsapevolmente direbbe pure di si, pronunciandolo con labbra secche che nonostante tutto si rifiutano di trovare piacere nell’alcolico che ondeggia proprio a pochi centimetri da loro, mentre invece si ritrova costretto a constatare che i suoi sensi sono ancora tutti lì, non persi in una qualche stupida allucinazione, perché la musica torna a farsi sentire, quasi un fantasma che si manifesta all’improvviso nonostante fosse presente fin dall’inizio. E nemmeno ricordava di averla accesa la radio.

Ma i suoi occhi sono presi da ben altro, un’ombra, soltanto un’ombra, che, contaminata da una memoria soffocata assume fattezze fin troppo familiari , una figura che al momento forse preferirebbe avere la forza di maledire.

Maledire? Avrebbe dovuto farlo fin dall’inizio, dal loro dannato primo incontro, avrebbe dovuto lasciarlo morire su quella strada macchiata di rosso. E c’era quasi da riderci ora a pensare che, al tempo, aveva avuto un simile potere e nemmeno per un attimo l’aveva preso in considerazione seriamente.

Patetico.

Soprattutto perché non riusciva a pensare certe imprecazioni, non riusciva nemmeno a fingere di crederci veramente.  Perché lo sa in fondo, nemmeno per un attimo riuscirebbero a nascondere il masochistico senso di colpa che l’ha placidamente spinto fino a quel punto, quasi fosse naturale. Ed è la musica a ricordarglielo, il passato,  il futuro, e se lo vede lì di fronte ai suoi occhi, è lui a pronunciare le parole, è lui a cantarle con un falso sorriso a piegargli le labbra.

 

“Remember when we used to play?”

 

Era un cortile, un vecchio cortile poco lontano dalle case, un luogo sicuro in cui giocare, vicino eppure abbastanza lontano da far assaporare il frizzare di una vaga indipendenza. Era lì che ogni volta si incontravano, era lì che ridevano e giocavano, era solo lì che si permettevano di essere bambini, senza pensieri.

Erano lì quel giorno, con il vecchio pozzo a fare da testimone sulle loro parole, testimone di quel ricordo, di tutti i loro ricordi in fondo.

Se fosse chiesto a lui un giorno di raccontare la storia di quei due bambini, di raccontare l’evento che avrebbe distrutto il fragile vetro che racchiudeva la loro infanzia, non c’era alcun dubbio che avrebbe iniziando schiarendosi la voce con un rauco colpo di tosse, proprio come un vecchio che ha visto veramente troppo per non essere creduto pazzo. Ma non era quello il giorno, e non era quello il ricordo.

Correva urlando a gran voce cinto in un giubbetto bianco, forse anche un po’ troppo grande per lui, e in fondo rideva, rideva di quella neve ancora inviolata in cui si mimetizzava facilmente. Era un sorriso sinceramente innocente, sinceramente felice.
Fu un semplice sospiro, sfuggito a labbra sigillate in disappunto, quando gli occhi grigi che lo seguivano dal momento in cui avevano messo piede in quel giardino, lo videro cadere sollevando la neve ancora fresca. Non disse altro il nero, silenziosamente mimetizzato con il tronco bruciato su cui sedeva, e cosa poteva dire in fondo che il biondino non avesse già sentito centinaia di altre volte uscire dalla sua bocca?

Uno euforico, l’altro flebilmente apatico, uno cinto nel bianco, l’altro racchiuso nel nero; erano diversi, così ridicolmente diversi che anche i loro inutili giubbetti non perdevano occasione di ricordarglielo.

Eppure c’era un qualche assurdo dettaglio, qualche insignificante dettaglio a tenerli uniti con un filo pronto a spezzarsi da un momento all’altro, debole che una semplice parola poteva già farlo vibrare, e forse era solo il punto di vista di un bambino a non vedere il negativo ma il positivo in quel fragile legame.

Racchiuso nei pensieri, nel silenzio di una possibile riflessione, gli occhi grigi fissi ora sulla neve, la figura rannicchiata del bambino poteva quasi ispirare tenerezza, a patto ovviamente che a guardarlo fossero gli occhi di un adulto dal cuore inaspettatamente tenero e non gli azzurri occhi del “compagno di giochi”. Per lui era solo un’ottima occasione da non perdere.

Non si accorse nemmeno di quell’improvviso silenzio il moro, troppo impegnato a constatate con mano quanto il suo giubbino nero si mimetizzasse con quel vecchio tronco bruciato per prendersi la briga di controllare come mai le risate e gli schiamazzi del suo compagno di giochi fossero improvvisamente cessate. Fu il colpo a risvegliarlo.
Freddo e secco.
Colpito alla testa, o come i suoi genitori amavano definirla una morte sicura. E forse fu per questo che la figura del biondino si fermò proprio di fronte a lui, fissandolo con occhi azzurri che sembravano quasi brillare.

-Sei morto.-

Due semplici parole, nient’altro. Spiegavano molto semplicemente il concetto.
Eppure il silenzio che seguì quelle parole fu per il biondo conferma sufficiente che il suo compagno di giochi non aveva capito, solo così poteva interpretare gli occhi grigi che lo guardavano quasi con freddezza.

-Ti ho colpito.- un tono petulante, quasi scocciato dalla ripetizione –Sei morto.-

Un semplice istante, una sola spinta.
Il bianco bloccato a terra dal peso del nero, un indice puntato a livello del cuore mentre insieme al pollice formava l’infantile simbolo di una pistola.
I loro occhi si incontrarono, i loro respiri riempirono l’aria spezzando quel pesante silenzio martoriato altrimenti dal fragile rumore della neve ripiegata sotto il loro peso. Stupore, sorpresa, non c’era paura nello sguardo del biondo, una fiducia quasi innaturale se rivolta all’altro, eppure era lì immobile, statuaria, così forte che l’altro fu costretto a chiudere gli occhi per un breve istante pur di sopportarla.

-Tu sei morto.-

Una fredda affermazione, sottolineata da una pressione più marcata dell’indice. E gli occhi grigi si ritrovarono ad osservarla quella falsa pistola puntata al cuore.

Il cuore, la morte pericolosa, una morte riservata a pochi, una di quelle per cui non vale la pena rischiare. Perché il cuore è piccolo in fondo, nascosto in un petto troppo grande per darti la certezza di colpirlo ogni volta.

Fu la mano dell’altro a riscuoterlo, bianca e assurdamente calda per qualcuno che gioca tra la neve da almeno un’ora. La presa era salda, forse molto più della sua.

-Dovrai colpirmi qui.- tono sicuro, sorriso sulle labbra. Un’affermazione troppo enigmatica per non ricevere quasi necessariamente uno sguardo dubbioso.

-Quando dovrò morire, è qui che dovrai colpirmi.- e fu la sua stessa mano a spingere ancora di più quell’indice sul giubbetto bianco. –Sarai tu a farlo...-
Una richiesta, un’assurda promessa, un legame a cui non poté sottrarsi. Fu un semplice annuire, un patto firmato in silenzio, con un'unica traccia lasciata alle spalle. Una macchia rossastra, lì dove la canna di quell’immaginaria pistola si era posata, dove neri guanti sporchi del terriccio rimasto sul tronco si erano fermati.

Una macchia rossa al livello del cuore.

Una morte per pochi.

 

“Bang Bang”

 

Doloroso.
Fu doloroso riaprire gli occhi con quelle parole, quei due suoni che ancora raschiavano il silenzio ovattato della stanza.

Nessuna illusione a cantare ricordi invecchiati, niente candido parchetto imbiancato di neve, niente di niente. Solo un bicchiere rum e una sigaretta accesa a pendere dalle labbra.
Un peso, una sensazione soffocante, opprimente, premeva sul petto peggio di un macigno, una scelta soltanto, un’unica possibilità, l’ultima occasione che gli veniva concessa. Erano soltanto due parole in fondo.

E non erano lacrime quelle a solcargli il viso al solo pensiero.

C’era solo troppo tabacco a pizzicare nell’aria.

 

 

 

 

 


Note d’autrice:

Ed eccoci qua, il secondo fiocchetto di neve... oddio è orribile.

Prima di partire con le mie paranoie ci tengo a ringraziare Slits e new_fracysmile_live per il loro commento al primo fiocco, grazie davvero!  Un ulteriore ringraziamento alla Slits per aver fatto da beta a questa storia, grazie cara sarei perduta senza il tuo sostegno!

 

E ora torniamo a noi...

Non ho molto da dire su questa shot, penso parli da sé, anche se l’immagine che ne esce può risultare confusa. Ci tengo a specificare che è una cosa volontaria, ulteriori chiarimenti rovinerebbero a mio parere, senza contare che finirei col raccontare troppo.

Ma come sempre mi rimetto al vostro giudizio. Critiche e commenti sono sempre ben accetti, anche domande se ne avete... contattatemi pure, cercherò di alzarmi dal letargo e rispondere.
Grazie in anticipo a tutti coloro che passeranno di qua.

Grazie davvero a tutti.

 

   
 
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