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Autore: LawrenceTwosomeTime    17/05/2010    0 recensioni
Sono fiero di annunciare che do il via ad una nuova storia composta da ingredienti quantomai complementari, con tutta l'intenzione di divertirmi scrivendola e (possibilmente) divertire voi. Posto che le mie intenzioni sono buone, il diavolo mi porti se non la concludo! In sintesi, è la vicenda narrata in prima persona attraverso tre differenti punti di vista di: un giovane fumettista, una rivenditrice irrintracciabile e un fantomatico editore. Let the orgy begin!
Genere: Horror, Mistero, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi rigirai la matita tra le dita, scrutando il tavolo con aria assente.
Un portamatite zeppo di pennelli dalle setole ingrigite, o tinte di fresco, talvolta scompigliate; un tagliacarte a forma di sciabola, probabilmente risalente alla Seconda Guerra Mondiale o giù di lì; una ciotolina in pasta di vetro dall'interno verde erba, perfetta per versarci la salsa di soia. Contiene una boccetta di inchiostro. Un'altra ciotola della stessa fatta su cui poggia un vasetto di terracotta che a sua volta ospita un cactus. Sembra in buone condizioni. La custodia nero catrame degli occhiali. Un tappetino di stoffa marrone chiaro, quasi aranciato, con motivi floreali stilizzati, di un bianco opaco. E poi ancora penne di tutte le famiglie, pennini, pennarelli, matite, stilografiche, evidenziatori bianchetti righelli squadrette carboncini gomme coprimatite mine pastelli gommematite.
Un grande foglio rettangolare di cartoncino rigido.

A dispetto dell'apparente abbandono catartico del mio spirito, ero soddisfatto.
Quando si disegna per davvero, si mette in atto un processo che non ha niente a vedere con la logica. Questo parto, questo concepimento accelerato, accomuna sia poeti che pittori, come pure sceneggiatori e fumettisti. E via dicendo.
Si tratta di creare con un fine, con un'intenzione precisa che si discosti dal vuoto remigare autocontemplativo dell'infelice cazzeggiante. È cultura. Impastare concetti, filtrare sensazioni, congelare istanti. Come la cucina fatta etere. A mezza via tra la musica e l'alchimia.
Tutto questo, signori, è arte.

Ma dimenticavo di precisare qual è il mio ruolo in tutto questo.
Sono fumettista. Imbrattacarte, pintore in signe, smerdapapiri. Chiamatemi come volete, tanto non lo sono diventato per auto proclamazione: è stata la mia attitudine (intesa sia come dote naturale che come dedizione incondizionata) a modellarmi.
Infilando la sua karmica appendice fallica nel mio midollo spinale quando ancora non avevo che pochi giorni, mi consacrò ciò che sono nell'attimo presente; ciò che comunque ero – sempre aleatoriamente e incatturabilmente, va precisato – nel periodo in cui si ambienta questa storia.
E siccome mi sembra superfluo e poco stimolante soffermarsi sulle motivazioni intrinseche e le speculazioni metafisiche e le implicazioni stilistiche e le analisi filologiche e le catalogazioni estemporanee (per non parlare dell'estratto conto ricavato a fine mese, per ora pari solo a G – la "G" di Gloria, che è una parola ghiotta ma nutre solo l'intelletto) che coronavano la mia attività, restringerò il campo, limitandomi a dire che avevo appena terminato una nuova storia.
La parte faticosa non è tanto farsi venire l'idea (che di per sé decide da sola quando venire, ed esige di essere approcciata con cortesia), o scrivere la sceneggiatura, o progettare lo storyboard. E nemmeno disegnare e inchiostrare. Sgommare si, forse lo è un pochettino.
Ma ciò che davvero mi riduce in fibrillazione è il dopo, l'estasi della conclusione, il raggiungimento della vana, provvisoria, illusoria completezza. Detto in termini pratici: mi alzo dalla sedia incidendo striscioni serigrafici sulle assi di legno e attacco una danza della vittoria sbattendo violentemente su e giù gli avambracci come fossero ali d'albatros. La faccia mi si chiazza di violetto, il pavimento echeggia sotto i miei balzi, e infine…mi sprofondo nel divanoletto blu cobalto esalando ritmici sospiri.

Lo so, faccio pena. Ma si sa, certe abitudini sono dure a morire. Facevo così da bambino, lo faccio anche adesso. Forse perché lo spirito è rimasto invariato, o forse perché…Bé, non mi vengono altre motivazioni soddisfacenti.
Ma a quelli che vivono di questi momenti, non gliene importa nulla di cosa pensano – o penserebbero gli altri. Neppure a me, che ho lo spiacevole vizio di vivere come se ci fosse una telecamera nascosta da qualche parte a spiarmi, e io guardassi dritto nell'inquadratura il mio Io riflesso.
La verità è che la bellezza è una nostra prerogativa, è appannaggio del nostro occhio interiore e di nient'altro: nessuno dovrebbe costringerci a imbrigliare lo sguardo che ci caratterizza, nessuno avrebbe il diritto di monopolizzare la mescolanza bizzarra ed eterogenea di chi vede la meraviglia in un baccanale di cani in calore o di chi si eccita a leccare le cortecce delle querce, tanto per citare due fonti di divertimento alternativo.
Tutto questo giro dell'oca per dire che il mio era ed è piacere assoluto, personalissimo, antirazionale e istintivo. Tutta la vita è regolata dall'istinto. Persino la morte è un istinto naturale, talmente salubre da generare l'annullamento completo delle funzioni organiche. Ditemi voi se la Natura non è prodigiosa.

Tuttavia, come presto avrei scoperto a mie spese, non possedere uno sguardo di riserva ci rende vulnerabili di fronte al nostro antropologico conservatorismo.
Tanto più paradossale che spetti proprio alle fortuite coincidenze inscenate dal karma (appannaggio, questo, esclusivo dell'uomo) di sopperire al sopracitato difetto.
  
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