Capitolo 3
Quando i problemi ti
investono... Come una bicicletta sulla schiena.
Hanamichi Sakuragi alzò
il visino imbronciato verso il cielo limpido e sbuffò per la decima volta in
pochi minuti. Era ancora imbufalito per la sera scorsa, anche se non riusciva a
essere arrabbiato più di tanto con la sorella. Quella disgraziata, infatti, era
sgusciata in camera sua quando stava per prendere sonno e gli era saltata sul
letto facendogli perdere letteralmente venti anni di vita. Svegliando mezza
Kanagawa per l’urlo che aveva lanciato, Hime si era messa a ridacchiare,
l’aveva abbracciato e gli aveva sussurrato un “Ti adoro, Hana” che solo lei
sapeva dire in modo così dolce e sincero. Come poteva non sciogliersi davanti
alla sua adorata gemellina?
«E dai, Hanamichi. Non
sarai ancora inc–» Povero, povero Mito, che non
riuscì nemmeno a finire la frase che si era ritrovato bello fumante un
bernoccolo con i fiocchi.
«Yoehi, mi sa che oggi
tutto quello che morsica lo avvelena», constatò Hime, appesa al braccio del
fratello. «Occhio a come parli».
«Ehi, vale anche per te,
Hicchan!».
«Mi tireresti una
testata?!», domandò con i lacrimoni agli occhi la ragazza, fermandosi in mezzo
al marciapiede.
«No, però farei
questo!», esclamò il fratello, sollevandola di peso e mettendola a testa in
giù.
«Hanamichi!! Mettimi in
terra!», gridò furiosa, rossa peggio dei suoi capelli, dato che messa così la
gonna le ricadeva sul torace, mostrando a tutta la popolazione giovanile e non
della città il suo bel fondoschiena.
Accortosi dell’enorme
sbaglio che aveva commesso, Hanamichi tentò di rigirare la sorella, indemoniata
tra le sue braccia, ma caddero insieme, tra le risate di tutti.
«Hanamichi, scappa»,
suggerì Yoehi, mentre il rossino vedeva bene di darsela a gambe levate.
Inutile dire che Hime,
con un grido di battaglia, si mise al suo inseguimento, brandendo la cartella
come arma di distruzione di massa e travolgendo qualsiasi cosa si trovasse
davanti al suo cammino peggio di un carro armato.
Ma non avevano fatto i
conti con una ragazzina in bicicletta che, arrivando di gran carriera allo
Shohoku e gridando un “Pistaaaa”
da toglierle tutto il fiato che aveva in gola, investì prima l’uno poi l’altra,
capitombolando a terra qualche metro più in là.
«Ma cazzooo!»,
sbraitò Hanamichi, ormai completamente livido di rabbia e pronto a menare
chiunque fosse stato il suo pseudo-assassino.
«Ohi, ohi, che male!»,
bofonchiò Hime, accarezzandosi il suo prezioso sedere e recuperando a gattoni
la cartella che, prontamente, tirò in testa al fratello.
«Hi-Hicchan!».
«Hicchan un corno! Così
impari!».
Hanamichi, in risposta,
s’imbronciò ancora di più. Cavolo, era lui quello che doveva fare l’offeso, non
viceversa! «Ehi, tu! Assassina! Cos'è, ti paga per caso
«Scusatemi, ragazzi! Vi
siete fatti male?», chiese Sana, precipitandosi da loro.
«Sanako?», domandò
sconcertato Hanamichi, subito dopo seguito da Hime.
«S-scusatemi, è che
quando quell’aggeggio prende velocità non riesco a fermarlo. I freni sono
andati!», ridacchiò nervosamente quella, grattandosi la testa.
«Ma no, tranquilla»,
fece affabile Hime, guardandole il ginocchio insanguinato. «Tu piuttosto,
dovresti andare a disinfettarlo».
«Oh, non è niente,
davvero!».
«Che ci fai allo
Shohoku?», proseguì nell’interrogatorio Hanamichi, sbalordito.
«Beh, ecco… vengo qui per
studiare, un po’ come tutti».
«E perché io non ne
sapevo niente?», cadde dalle nuvole il rossino.
Sana sorrise
imbarazzata, mentre anche l’altra ragazza la guardava perplessa.
«Cavolo, non ci hai mai
detto che studi qui! E non ti ho nemmeno mai vista, Sana!»
La ragazza abbassò lo
sguardo per lisciarsi distrattamente le pieghe della gonna impolverata per la
caduta e una cascata di capelli liscissimi e neri le caddero sul viso. «Beh, non
sono certo popolare come voi».
«Accidenti, quasi non ti
riconoscevo con i capelli sciolti!», fece Hanamichi, mettendosi in piedi e
dando una mano alla sorella. «In che sezione sei?».
«Sezione 3. Scusatemi se
non mi son mai fatta vedere, ma sono talmente piena di cose da fare…»
Hime le sorrise,
agitando una mano. «Ma no, tranquilla! Ora vieni con me in palestra, così
prendo il disinfettante e ti metto un cerotto sul ginocchio».
«Ma tu guarda, sei nella
stessa sezione di Mit---! Aaaargh,
questa volta ti ammazzo sul serio, Volpacciaaa!».
Ebbene sì, Kaede aveva
fatto strike per l’ennesima volta e, trattandosi di lui e non di una giovane
donzella indifesa, dovette anche sorbirsi una bella rissa mattutina, come se
non avesse già avuto le palle girate per conto suo.
Sana si fermò a guardare
i due che ci davano dentro come lottatori di sumo, cercando di capire, in tutto
quel groviglio di mani e calci, chi fosse il moretto con cui Hanamichi stava
bisticciando.
«Dai, ragazzi!
Risparmiate le vostre preziose energie per stasera!», sbuffò Hime, andando a
separarli e rischiando seriamente la vita.
«Do’aho, levati dalle
palle la prossima volta».
«Levati dalle palle un
corno, Kit! Tu lo fai apposta a investirmi, ammettilo! Sadica volpaccia!».
«E zitto». Kaede sistemò
la sua bici ad una più fracassata della sua e, con tutta calma, si diresse in
classe. Salutò con un ’ao di circostanza la sua migliore amica, che poco dopo
sparì verso la palestra, trascinandosi una ragazzetta che non aveva mai visto
prima d’ora - come se conoscesse molte ragazze, lui. O forse sì?
Intanto la rossa stava
buttando all’aria metà del contenuto del kit di pronto soccorso che teneva in
palestra, borbottando una volta sì e l’altra anche contro chiunque avesse
finito il cotone. «Oh, eccolo!», esclamò, trionfante, imbevendolo nel
disinfettante e porgendolo alla ragazza.
«Non dovevi, grazie.»,
disse Sana, bagnando il ginocchio sbucciato. «Vi ho stesi io per terra e ora
sei tu a prenderti cura di me».
Hime rise, recuperando
garza e cerotti. «Tranquilla, non mi son fatta male. E Hanamichi è più che
abituato a beccarsi biciclette sulla schiena».
«Oh, ho notato». Sana si
morsicò il labbro quando un po’ di cotone le rimase appiccicato alla pelle
insanguinata. «Cavolo, non potrei mai fare il chirurgo», disse, togliendo lo
sguardo dal ginocchio.
«Ti impressiona il
sangue?», chiese Hime, bendandole la ferita. Ad un cenno affermativo
dell’altra, lei sorrise. «E meno male che avrei dovuto lasciarti stare così».
Sana arrossì, sospirando
sollevata appena il sangue sparì dalla sua vista. Sì, odiava, anzi, detestava il sangue. Da piccola era
rimasta traumatizzata alla vista di un incidente di percorso in cui la madre si
era tagliata mezzo dito mentre preparava l’insalata. Era stato terrificante. E
la mamma cosa aveva fatto per tranquillizzarla? “Ma no, al massimo me lo tagliano tutto!”. Avrebbe voluto
strozzarla in quel momento. Aveva solo sei anni!
«Grazie mille, Hime. Sei
sempre così gentile!», disse Sana, mettendosi in piedi.
La rossa le strizzò un
occhio. «Dici così perché non mi hai mai vista arrabbiata».
Le due si diressero in
tutta fretta verso le rispettive aule, ma Sana venne fermata a metà strada
dalla sua amica, forse la migliore tra le poche che aveva: Kiyo.
«Dimmi, ho qualche
problema io?», chiese
«Non saprei… hai qualche
problema?», rispose con un’altra domanda l’amica, perplessa.
Kiyo sospirò,
poggiandosi senza forze contro il muro del corridoio. Si passò una mano tra i
capelli sfibrati e li guardò assassina. «Forse dovrei tagliarli.»
«E forse dovresti
tornare al tuo colore naturale, biondi proprio non ti si addicono.» Sana le
sorrise, prendendole una mano. «Ti va di parlarne all’ora di pranzo?»
Kiyo annuì, stanca.
«Dove ti trovo? Ogni volta sparisci».
«In terrazza, sono
sempre lì. Non c’è mai nessuno»
«D’accordo, ora però vai
in classe o arriverai in ritardo. E tu sei troppo secchiona per subire le urla
del professore».
Sana le rispose con una
linguaccia, ma volò immediatamente verso la sua aula, esattamente un minuto
prima che l’insegnante chiudesse la porta scorrevole.
«Well, guys, today we’ll talk about Blake. Have you read his biography
at home?»
Alcuni studenti
annuirono convinti, altri un po’ meno, dato che la sera prima avevano preferito
fare altro anzi che leggere quello che gli era stato assegnato.
«Psst,
Tsukiyama!», sussurrò Eichiro Shimura, seduto al banco al suo fianco. «A che
pagina è?».
Sana guardò il
professore, tutto preso dallo scrivere anno di nascita e morte dell’autore
inglese e gli rispose a voce bassissima. Eichiro, a differenza del fratello,
era quello che aveva più la testa campata in aria. Era simpatico e parecchio
intelligente, ma era il tipico esemplare di studente che otteneva ottimi
risultati con il minimo sforzo. "Suo
figlio ha grandi potenzialità, ma non si applica!", tipica frase che
quella santa donna della madre si sentiva ripetere durante gli incontri con i
professori.
«Grazie!». Le strizzò un
occhio, aprendo il libro in fretta e furia per leggere due o tre frasi e capire
di cosa stessero parlando.
Sana, come sempre,
iniziò a prendere appunti su appunti, e non solo perché l’inglese era una delle
sue materie preferite, ma perché si sentiva terribilmente in colpa se
dimenticava qualche cosa. Molti la ritenevano pazza, ma considerato lo stile di
vita che aveva intrapreso forse non faceva neanche tanto male. Gli appunti le
davano tutto quello di cui aveva bisogno, senza dover leggere pagine e pagine
di scritti che magari le servivano solo a farle perdere tempo. E per lei, il
tempo, era prezioso e di vitale importanza. Tra la scuola, il bar e la musica
ne sarebbe uscita matta, ne era sicura.
Appena la campanella del
pranzo risuonò tra le aule, Sana raccolse le sue cose nella cartella e si
affrettò a raggiungere la terrazza, sperando che Kiyo non fosse già arrivata.
Odiava far aspettare gli altri. Appena aprì la porta si accorse che non solo
Kiyo non era ancora arrivata, ma non c’era traccia neanche del ragazzo
solitario che incontrava di solito a quell’ora. Si sedette nel suo angolino
preferito, che dava sul giardino curato e pieno di ragazzi, e iniziò a scartare
il suo bento, affamatissima.
Quando sentì la porta
aprirsi alzò lo sguardo e rimase parecchio sorpresa nel vedere Kiyo in compagnia
di quello stesso ragazzo silenzioso.
«Non mi avevi detto che
qui non veniva mai nessuno?», chiese l’amica, indicandolo con un cenno del capo
e sedendosi accanto a lei.
«Beh, ecco…».
«Non mi interessa
ascoltarti, Kobayashi», rispose gelidamente quello, mentre la bionda faceva
spallucce.
«Ti ricordi come mi
chiamo? La cosa ha dell’incredibile».
«Hn».
Sana lo guardò per
qualche istante mentre quello, con gli occhi mezzo chiusi dal sonno, si metteva
a pranzare; poi si rivolse a voce bassa alla ragazza al suo fianco. «Non parla
mai e ascolta la musica con il walk-man, per quello
ho pensato che non avrebbe dato fastidio».
Kiyo agitò una mano,
incrociando le gambe e fregandole un po’ di cibo. «Fa nulla. È sempre così».
«Lo conosci?».
«Svegliati, è in classe
con me».
«Oh…» Sana gli lanciò
un’ultima occhiata e stava per chiedere all’amica chi fosse, ma decise di
dedicarsi ad altro. «Allora, di cosa volevi parlarmi?».
«Toshiro».
Non ci fu bisogno di
aggiungere altro, perché la barista capì al volo. «Ti ha telefonata di nuovo?».
Lei scosse la testa.
«Peggio. Era davanti a casa mia ieri sera». Si passò stancamente una mano tra i
capelli, arrabbiata. «Dici che con un disegnino capirebbe che non voglio più
vederlo?».
«Uhm, con la testa vuota
che si ritrova non credo. Ti ha detto qualcosa?».
«Il solito… “Mi manchi,
sono stato uno stupido, mi dispiace,
prima o poi torneremo insieme.” Ecco, quest’ultima parte mi ha messo paura.
L’ha detto con una sicurezza tale da mettere i brividi.».
«Ma tu non vuoi tornarci
insieme, vero?».
«Assolutamente no!»,
strillò Kiyo, così forte che persino il ragazzo dall’altra parte della terrazza
alzò lo sguardo, infastidito e perplesso. «Sana, quello mi sta minacciando tra
le righe. Non era solo, ieri. Fortuna che c’era la mia vicina di casa a
controllarsi il giardino - quindi a farsi i fatti miei - altrimenti non so cosa
avrebbe fatto».
«Se continua così devi denunciarlo,
Kiyo. Per molestie».
L’altra scoppiò a ridere
amaramente. «Denunciarlo? E cosa gli fanno? Niente. È il figlio di un avvocato,
vuoi che in qualche modo la cosa non venga lasciata passare? L’unica cosa che
posso fare è ingaggiare un killer e fargliene dare tante».
«Kiyo!».
«Che c’è?».
Sana sbuffò, puntandole
gli occhi scuri contro. «Non devi scherzare su queste cose».
«Sanako, sembri mia
nonna. E poi non stavo mica scherzando».
«È che sono preoccupata
per te, tutto qui», mugugnò quella, portandosi le gambe al petto e sentendosi
inutile per l’amica.
«Ma quanto sei testona,
tu» Kiyo le rivolse uno dei suoi rari sorrisi e le pizzicò una guancia.
«Comunque ho deciso che mi iscriverò al club di karate, non si sa mai che debba
difendermi in futuro. Tanto ho solo il nuoto che mi prende tanto tempo, il
resto è libero».
«Ecco, trovo che questa
sia la soluzione migliore e più ragionevole», disse Sana in un sospiro. «A
volte mi fai prendere certi spaventi».
«Perché?».
«Perché ti conosco
abbastanza per essere sicura che assolderesti davvero qualcuno per farlo
pestare».
In tutta risposta Kiyo
ghignò divertita, chiudendo gli occhi e poggiando la testa contro la ringhiera
dietro di lei. «Oggi lavori?».
«No, ho serata libera.
In compenso devo andare a provare con la zia per il saggio di Natale».
«Cinque minuti di relax
tu mai, eh?».
«A quanto pare non mi
sono concessi! Ora se non ti dispiace, dato il mio poco tempo, mi metto a
studiare».
«Sì, sì, secchiona. Io
intanto mi fumo una sigaretta in santa pace».
Sana neanche sprecò il
fiato per gridarle dietro che il fumo le faceva male. Ormai si era sgolata
talmente tante volte con paternali degne del miglior ministro della salute,
senza ottenere risultati, che la stanchezza aveva preso il sopravvento. Voleva
ammazzarsi lentamente e con le proprie mani? Voleva stroncarsi la carriera di
nuotatrice professionista? Affari suoi.
*
Appena Akira sentì il
rombo della potente moto si alzò dal letto su cui era placidamente sdraiato e
si avvicinò alla finestra. Hisashi, che alzò la visiera del casco, si accorse
subito di lui e gli fece un impaziente cenno con la testa di scendere. Doveva
essere successo qualcosa, anche un cieco avrebbe notato quanto fosse nervoso.
Akira prese la sua felpa e se la infilò di tutta fretta, uscendo da casa in
meno di un minuto.
«Che succede?», gli
chiese seriamente. Quando vedeva il suo migliore amico così tutta la voglia di
scherzare svaniva in un istante.
«Sali, ne parliamo
dopo», borbottò Mitsui, porgendogli un casco.
«Vuoi che guidi io?».
«Ammazzati, Sendoh».
Nonostante la serietà dell’altro, Akira non riuscì a reprimere un sorriso. Lo
portò al molo in cui solitamente il numero sette del Ryonan si dedicava alla
sua attività preferita dopo il basket, la pesca. Senza aspettarlo, Hisashi
iniziò a camminare sulla sabbia, le mani ficcate nelle tasche dei jeans e
l’espressione più incazzata e innervosita che Akira gli avesse mai visto in volto.
«Allora, che succede
amico mio?», gli domandò ancora, sedendosi sul molo in legno, mentre l’altro
rimase in piedi, alle sue spalle.
«È arrivato alle mani».
Sendoh spalancò gli
occhi, voltandosi a guardarlo. «Che cosa?».
Hisashi si passò
stancamente una mano in viso, facendola poi sparire tra i capelli scuri e non
troppo corti. «La stava per picchiare. Fortuna di mamma che ero in salotto e mi
sono accorto subito della situazione, altrimenti non avrei potuto fermarlo».
Akira si morsicò il
labbro inferiore, sinceramente dispiaciuto di quella spiacevole situazione in
famiglia dell’amico. Il padre non gli era mai andato a genio, ma non pensava
che sarebbe arrivato a tanto. «Hisashi, devi fare qualcosa».
«E cosa? Cazzo, l’avrei
ammazzato con le mie stesse mani se non avessi sentito mamma piangere».
«Ora dov’è?».
«A mandarsi a puttane il
fegato in qualche bar. Per me può anche morire ora».
I due rimasero in
silenzio per qualche minuto, assorti nei propri pensieri, mentre il mare, sotto
di loro, si muoveva lento contro il bagnasciuga.
«Che intenzioni hai?»,
ruppe il silenzio Akira, piegando una gamba e poggiandoci sopra un braccio.
«Non lo so, davvero.
Spaccargli il muso, forse».
«Potrebbe essere
un’idea. Ma non credo possa far bene a te».
«Tu dici? Guarda che il
potere curativo di un pugno è un dato di fatto».
Akira sorrise, mentre
l’amico si sedette accanto a lui, stringendo i pugni. «Voglio portare via mamma
da quell’inferno. E voglio che quello stronzo giri alla larga da lei. Mi
troverò un lavoro, così potrò permettermi di pagare l'affitto e l’avvocato».
«Ehi, se hai bisogno di
qualcosa lo sai che non mi tiro mai indietro, no?».
Hisashi piegò le labbra
in un sorriso. Sarà stato anche un deficiente pervertito, oltre che
l’inguaribile Akira-sto-sempre-sorridendo-Sendoh
che a volte lo mandava in bestia, ma era anche la persona più affidabile che
avesse mai conosciuto. Non amava ammetterlo, ma poter contare su di lui, quando
aveva bisogno di sfogarsi a qualsiasi ora del giorno, era una sicurezza che non
voleva perdere. «Grazie, amico».
Akira gli batté
amichevolmente una manona sulla spalla. «Intendo, anche venire a vivere da noi.
Lo spazio c’è e tuo padre–».
«Non è mio padre quello».
«…e quello non saprebbe dove trovarvi, a meno che non ti segua, ma lo
metto in dubbio».
Mitsui scosse la testa.
«Ti ringrazio, ma non voglio portare i miei casini a voi. Risolverò questa
faccenda da solo, avevo bisogno di sfogarmi, ecco tutto».
«Va bene, ma la mia
proposta è ancora valida», rispose docilmente Akira. «Comunque credo di sapere
dove puoi trovare lavoro».
«Ah, sì?», chiese subito
interessato l’altro.
«M-Mmh.
Mio zio lavora in una tavola calda, e l’ho sentito proprio ieri incazzato come
una iena che il suo facchino si è licenziato senza motivo. Tu hai una moto, no?
Potrei mettere una buona parola con lui e farti dare un po’ più di quello che
da solitamente», concluse Akira, con un’alzata di spalle.
«Amico, tu sei un
genio», fece Hisashi, al settimo cielo. «Se non fosse che avrei paura di quello
che potresti fare, ti direi che ti adoro».
Akira scoppiò in una
risata cristallina, tenendosi la pancia. «Hisa, temi
che ti salti addosso?».
«Ecco, appunto, hentai!», borbottò Hisashi, che scansò uno scarso tentativo
di approccio. «Cazzo, smettila o chi ci vede penserà che stiamo insieme!».
«Ma tesoro, io e te
siamo fatti l’uno per l’altro!».
«Ma quanto sei idiota»,
disse Mitsui, levandogli una manata in pieno viso che lo fece ridere ancora di
più. «Piuttosto, non è che mi porteresti da tuo zio, ora?».
Akira si asciugò le
lacrime dalle risate, poi annuì. «Ad un patto».
L’altro alzò gli occhi
al cielo, sbuffando come una pentola a pressione e preparandosi
psicologicamente a quello che l’amico gli avrebbe chiesto da lì a due secondi.
«Parla».
«Guido io!»
«Eh no, col cavolo!»
Ultime parole famose.
Detto fatto e Akira
zigzagava tra le auto per le vie poco affollate di Kanagawa, mentre dietro di
lui Hisashi bestemmiava in aramaico, sperando che li portasse sani e salvi
tutti e tre: lui, l’idiota e ovviamente la moto.
Quando arrivarono ancora
interi al Bar America, Mitsui ebbe il
sesto senso che quel posto gli sarebbe piaciuto. Sperava solo che venisse
assunto.
«Ma tu guarda un po’ chi
si vede!», esclamò il signor Watanabe, fratello della madre di Sendoh.
«Ehilà zio! Come va?»,
chiese sorridente il nipote, subito seguito da Hisashi che nel frattempo si
guardava intorno.
«Siamo incasinati fino
al collo, oggi è anche il giorno libero di Sanako e sono letteralmente solo».
L’uomo fece spallucce, mestamente. «Ma si tira avanti».
«Sana non c’è, quindi?
Peccato», mormorò pensieroso Akira, sfiorandosi il mento. Poi si risveglio,
accorgendosi dell’amico dietro di lui impaziente. «Zio, volevo presentarti
Hisashi Mitsui, ho pensato che dato che stai cercando qualcuno potrebbe
lavorare da te».
Il signor Watanabe spostò
la sua attenzione sulla guardia dello Shohoku e lo studiò con circospezione.
«Piacere di conoscerti, Mitsui. Ho sentito molto parlare di te da mio nipote».
Hisashi gli strinse la
mano, e con un cenno del capo disse: «Conoscendo questo qui posso solo immaginare
che le ha detto».
Watanabe si mise a
ridere, battendo una mano sulla spalla del nipote. «Comunque, ragazzo mio, io
sono disperato, se hai voglia di lavorare e di non lasciarmi a bocca asciutta
dopo una settimana, sei dentro. Giochi allo Shohoku, vero?».
«Sì, signore».
«E gli allenamenti a che
ora finiscono?».
«Alle sette, quattro
volte alla settimana».
Watanabe guardò il
calendario, poi sorrise sotto i lunghi baffi. «Il tuo turno inizierà alle otto
fino alle undici, ma se vuoi qualche straordinario puoi passare anche come
barista, ogni tanto. C’è sempre bisogno di una persona in più».
Il viso di Hisashi
s’illuminò e si sentì molto più leggero. «La ringrazio infinitamente, signore.
Quando inizio?».
«Passa domani sera per i
documenti, così facciamo le cose in regola. Inizierai lunedì, d’accordo?».
«Perfetto».
Si strinsero la mano e i
due amici si fermarono a bere qualcosa prima di andarsene.
«Akira, non so come
ringraziarti».
«Semplice: offrimi da
bere!».
«Scroccone», borbottò a
denti stretti l’altro, con sguardo truce. Ma non si tirò certo indietro: quel
pazzo gli aveva trovato lavoro in quattro e quattro otto! «Comunque, chi è
questa Sanako di cui parlavate prima?».
Gli occhi di Akira
brillarono di una strana luce al solo sentire pronunciare quel nome e sorrise,
pensando alla ragazza. «Lavora qui come barista da un annetto a questa parte.
Studia allo Shohoku, sai?».
«Ah sì? E com’è? Magari
la conosco».
Il Porcospino prese in
mano il suo bicchiere e lo guardò un attimo, pensieroso. «È speciale».
«Oh cazzo, Sendoh
innamorato non pensavo che l’avrei mai visto!», esclamò Hisashi, con gli occhi
fuori dalle orbite.
«Ehi, calmati, non ho
detto di esserne innamorato!» Akira sorrise, tuttavia. «Però non posso negare
che mi piaccia tanto».
«Amico mio, se è davvero
speciale come dici datti una mossa allora. E soprattutto smetti di fare il
demente con Hime, o le due Scimmie potrebbero vendicarsi».
*
Sanako salutò i bambini
con un sorrisone, mentre distrutta si trascinava dietro la chitarra e la zia,
uscendo dal teatro.
«Oh, siete meravigliosi,
davvero!», strillò entusiasta la donna, Masaki, battendo le mani e stringendo
la nipote in un abbraccio. «Se continuerete così farete un’ottima figura,
vedrai!».
Sana sorrise,
sistemandosi al meglio la tracolla sulla spalla. «I bambini sono vivaci, ma
imparano in fretta. Mi piace vederli così contenti!».
«Allora ammetti che ti
piace insegnare musica!», la provocò la zia, con un ghigno.
Sanako sospirò,
abbandonandosi ad un sorriso. Ormai erano anni che Masaki la ossessionava
letteralmente per farle intraprendere la carriera di musicista professionista,
oltre che assicurarle un posto come insegnante in qualche scuola. E sì che era
brava e cantava bene, ma la faccenda ancora non la convinceva più di tanto.
Voleva fare qualcosa di più della sua vita che finire ad insegnare due accordi
a dei bambini. Ma non sapeva ancora cosa, ecco il problema.
«Comunque una volta
tanto mi farai contenta: organizzeremo insieme il concerto di fine anno al
liceo, e non voglio sentire scusanti».
«Ma… zia!».
«Niente ma! O puoi
scordarti la mia buonissima e appetitosa torta al cioccolato che avevo
intenzione di preparare stanotte».
Sana scattò come un
gatto e si appese al suo collo, gongolante come una bambina davanti a un
negozio di caramelle. Quanto era golosa! E quanto le piacevano le torte della
zia!
«Concerto di fine
anno?», ammiccò la zia, tendendole una mano per consacrare il patto.
La ragazza gonfiò le
guance, indispettita, ma si arrese subito dopo. «E sia».
«Yatta!», saltò di gioia la donna, che a volte era peggio di lei. «E ora
andiamo al market, non ho niente altrimenti per cucinare!».
Lasciata la chitarra nel
cofano della macchina, Sana seguì trotterellando la zia ed entrambe si persero
tra gli scaffali pieni zeppi di porcherie e cose zuccherose.
«Oh, guarda! La glassa
fondente!». Masaki ne prese due confezioni al volo, con un sorrisone a
trentadue denti smaglianti. «Il cioccolato è il miglior antidepressivo, no?».
«Zia, ma tu non sei
depressa», fece ben notare Sana, mentre l’altra rideva.
«Lo so, ma potrei
diventarlo e preferisco essere preventiva».
Pagarono una busta
completamente ricolma di ingredienti e altri tipi di delizie ipercaloriche che
avevano raccolto per strada, e se ne tornarono bel belle a casa, dove le
aspettava la madre.
Ma quando misero piede
in salotto capirono subito che qualcosa non andava.
Masaki guardò furente
l’uomo che stava in piedi, in un angolo della sala, mentre la sorella aveva il
volto rigato di lacrime. Sana fu l’ultima ad accorgersi dell’ospite e, proprio
quando si stava togliendo la chitarra dalla spalla con uno splendido sorriso
per salutare la madre, si ammutolì di colpo.
«Sana, sali in camera
tua», le ordinò la madre, cercando di essere imperativa nonostante le lacrime.
«Mamma, cosa…?».
«Fa come ti dice, Sana.»,
le sussurrò la zia, prendendole la mano.
L‘uomo la guardò con una
strana espressione, tra il meravigliato e l’entusiasta. «Piccola mia… Sanako».
Fu in quel momento che
si accorse della spaventosa somiglianza con quello sconosciuto.
Fece cadere la chitarra
in terra e l’unica cosa che riuscì a fare fu correre. Corse via, senza una
parola, via da quella casa, via da quell’uomo. Cosa voleva da lei? Perché era
lì? Non gli era bastato abbandonarle sedici anni prima senza mai farsi vivo?
Sana continuò a correre,
le lacrime ormai che bagnavano anche il suo viso. Non guardava dove metteva in
piedi, non si curava delle occhiate dei pochi passanti a quell’ora di sera.
Voleva solo cambiare aria, rimescolare le idee per poter tornare a mente più
lucida e affrontarlo.
Quando andò a sbattere
contro qualcuno neanche sentì il dolore della botta che prese al fondo schiena.
E diavolo, era caduta proprio bene!
Rukawa guardò quel
corpicino scosso dai singhiozzi e non ebbe cuore di mandarla al diavolo per
avergli fatto prendere un colpo, dato che stava praticamente dormendo in piedi.
«Ehi».
Sana alzò lo sguardo
acquoso su di lui e scosse la testa, coprendosi il volto. Kaede le porse una
mano per aiutarla a rialzarsi e quando la vide meglio sotto il lampione non
riuscì a capire dove l’avesse già vista.
«Scusami…», sussurrò
Sana, andando via nuovamente di corsa.
Il Volpino rimase a guardarla
finché non sparì dietro un angolo e fece spallucce, riprendendo a camminare
verso casa.
Continua...
* * *
Incredibile ma vero, eccomi ad aggiornare dopo una
settimana! Sono un po' distrutta (anche se "un po'" è un eufemismo!),
e scrivere sui miei selvaggi preferiti è un ottimo modo di rilassarmi. :)
In questo nuovo capitolo si delineano meglio quelli che sono
i caratteri e i problemi che, nel corso della storia, andrò a spulciare
meglio... Spero vi sia piaciuto! ;)
Prossimamente, come vi avevo promesso, aggiungerò le schede
dei nuovi personaggi... Avevo intenzione di disegnarli, ma il tempo che ho è
poco, quindi ho trovato un'altra via! :P
E ora passiamo ai ringraziamenti!
Grazie a chi ha recensito:
lirinuccia: ma ciao! *_* Che piacere leggerti! Son stra
contenta che Hime ti piaccia, anche io l'adoro! *O* Ma io non faccio testo. XD
Hanamichi ti ringrazia per il sostegno, promettendo al mondo intero che prima o
poi farà valere il suo essere maschio, alla facciaccia di tutti. Per quanto
riguarda Arimi dovrai aspettare ancora un po' per conoscerla meglio, ma
tranquilla, ho in serbo parecchie sorprese che la riguardano. E infine il
volpino... Siamo in due ad interessarci! <3 Ho ingrandito il carattere come
mi hai consigliato, così va meglio? Un bacione, aggiorna presto anche tu! ;)
kuro: ahaha ragazza mia, se Hanamichi
ti sentisse potrebbe tirarti una testata colossale, sai? (Anche se ok, ammetto
che delle volte mi faccio prendere anche io dallo yaoismo
più sfrenato <3) Ma non voglio darti false speranze, Hana è etero a tutti
gli effetti, nella mia storia. :P Grazie mille come sempre, è un piacere farti
ridere! :D Bacione :*
Grazie a chi l'ha aggiunta tra le preferite: kuro,
lilli84, oOo14_YukA_14oOo, sophia90 e chi tra
le seguite: lirinuccia, moirainesedai.
Ci si legge al prossimo capitolo! ;)
Marta.