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Autore: kenjina    23/05/2010    3 recensioni
La situazione peggiorò quando trovarono un tavolo da biliardo libero e pronto solo per loro e, ovviamente, finì invischiato in un due contro due in coppia con la sua manager - almeno quella era una piccola fortuna in mezzo a tanta sfiga, si disse per farsi forza. Non avrebbe saputo di che morte morire, se avesse dovuto scegliere tra il Porcospino e la Scimmia; per non parlare della nuotatrice che, grazie a Buddha, non aveva mai giocato a biliardo e non sapeva neanche da che parte iniziare.
«Ehi, guarda che hai le palle piene tu, intesi?», gli fece Hanamichi, puntandogli la stecca contro.
Rukawa sollevò gli occhi al cielo. «Scimmia, non c'era bisogno di dirmelo. Che ho le palle piene di te lo sapevo da tempo».
(Tratto dal capitolo 17)
I ragazzi selvaggi son tornati, più selvaggi di prima... Ne vedremo delle belle!
Storia revisionata nell'Agosto 2016
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hisashi Mitsui, Kaede Rukawa, Nobunaga Kiyota, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Wild Boys'
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Ni-hao a tutti

Capitolo 3

Quando i problemi ti investono... Come una bicicletta sulla schiena.

 

 

Hanamichi Sakuragi alzò il visino imbronciato verso il cielo limpido e sbuffò per la decima volta in pochi minuti. Era ancora imbufalito per la sera scorsa, anche se non riusciva a essere arrabbiato più di tanto con la sorella. Quella disgraziata, infatti, era sgusciata in camera sua quando stava per prendere sonno e gli era saltata sul letto facendogli perdere letteralmente venti anni di vita. Svegliando mezza Kanagawa per l’urlo che aveva lanciato, Hime si era messa a ridacchiare, l’aveva abbracciato e gli aveva sussurrato un “Ti adoro, Hana” che solo lei sapeva dire in modo così dolce e sincero. Come poteva non sciogliersi davanti alla sua adorata gemellina?

«E dai, Hanamichi. Non sarai ancora inc–» Povero, povero Mito, che non riuscì nemmeno a finire la frase che si era ritrovato bello fumante un bernoccolo con i fiocchi.

«Yoehi, mi sa che oggi tutto quello che morsica lo avvelena», constatò Hime, appesa al braccio del fratello. «Occhio a come parli».

«Ehi, vale anche per te, Hicchan!».

«Mi tireresti una testata?!», domandò con i lacrimoni agli occhi la ragazza, fermandosi in mezzo al marciapiede.

«No, però farei questo!», esclamò il fratello, sollevandola di peso e mettendola a testa in giù.

«Hanamichi!! Mettimi in terra!», gridò furiosa, rossa peggio dei suoi capelli, dato che messa così la gonna le ricadeva sul torace, mostrando a tutta la popolazione giovanile e non della città il suo bel fondoschiena.

Accortosi dell’enorme sbaglio che aveva commesso, Hanamichi tentò di rigirare la sorella, indemoniata tra le sue braccia, ma caddero insieme, tra le risate di tutti.

«Hanamichi, scappa», suggerì Yoehi, mentre il rossino vedeva bene di darsela a gambe levate.

Inutile dire che Hime, con un grido di battaglia, si mise al suo inseguimento, brandendo la cartella come arma di distruzione di massa e travolgendo qualsiasi cosa si trovasse davanti al suo cammino peggio di un carro armato.

Ma non avevano fatto i conti con una ragazzina in bicicletta che, arrivando di gran carriera allo Shohoku e gridando un “Pistaaaa” da toglierle tutto il fiato che aveva in gola, investì prima l’uno poi l’altra, capitombolando a terra qualche metro più in là.

«Ma cazzooo!», sbraitò Hanamichi, ormai completamente livido di rabbia e pronto a menare chiunque fosse stato il suo pseudo-assassino.

«Ohi, ohi, che male!», bofonchiò Hime, accarezzandosi il suo prezioso sedere e recuperando a gattoni la cartella che, prontamente, tirò in testa al fratello.

«Hi-Hicchan!».

«Hicchan un corno! Così impari!».

Hanamichi, in risposta, s’imbronciò ancora di più. Cavolo, era lui quello che doveva fare l’offeso, non viceversa! «Ehi, tu! Assassina! Cos'è, ti paga per caso la Volpe per farmi fuori?!», gridò alla volta della ragazzina incosciente, che stava sistemando alla bell’e meglio la catena alla bici. Quando questa si voltò per scusarsi scese un coccolone grande quanto una casa a tutti.

«Scusatemi, ragazzi! Vi siete fatti male?», chiese Sana, precipitandosi da loro.

«Sanako?», domandò sconcertato Hanamichi, subito dopo seguito da Hime.

«S-scusatemi, è che quando quell’aggeggio prende velocità non riesco a fermarlo. I freni sono andati!», ridacchiò nervosamente quella, grattandosi la testa.

«Ma no, tranquilla», fece affabile Hime, guardandole il ginocchio insanguinato. «Tu piuttosto, dovresti andare a disinfettarlo».

«Oh, non è niente, davvero!».

«Che ci fai allo Shohoku?», proseguì nell’interrogatorio Hanamichi, sbalordito.

«Beh, ecco… vengo qui per studiare, un po’ come tutti».

«E perché io non ne sapevo niente?», cadde dalle nuvole il rossino.

Sana sorrise imbarazzata, mentre anche l’altra ragazza la guardava perplessa.

«Cavolo, non ci hai mai detto che studi qui! E non ti ho nemmeno mai vista, Sana!»

La ragazza abbassò lo sguardo per lisciarsi distrattamente le pieghe della gonna impolverata per la caduta e una cascata di capelli liscissimi e neri le caddero sul viso. «Beh, non sono certo popolare come voi».

«Accidenti, quasi non ti riconoscevo con i capelli sciolti!», fece Hanamichi, mettendosi in piedi e dando una mano alla sorella. «In che sezione sei?».

«Sezione 3. Scusatemi se non mi son mai fatta vedere, ma sono talmente piena di cose da fare…»

Hime le sorrise, agitando una mano. «Ma no, tranquilla! Ora vieni con me in palestra, così prendo il disinfettante e ti metto un cerotto sul ginocchio».

«Ma tu guarda, sei nella stessa sezione di Mit---! Aaaargh, questa volta ti ammazzo sul serio, Volpacciaaa!».

Ebbene sì, Kaede aveva fatto strike per l’ennesima volta e, trattandosi di lui e non di una giovane donzella indifesa, dovette anche sorbirsi una bella rissa mattutina, come se non avesse già avuto le palle girate per conto suo.

Sana si fermò a guardare i due che ci davano dentro come lottatori di sumo, cercando di capire, in tutto quel groviglio di mani e calci, chi fosse il moretto con cui Hanamichi stava bisticciando.

«Dai, ragazzi! Risparmiate le vostre preziose energie per stasera!», sbuffò Hime, andando a separarli e rischiando seriamente la vita.

«Do’aho, levati dalle palle la prossima volta».

«Levati dalle palle un corno, Kit! Tu lo fai apposta a investirmi, ammettilo! Sadica volpaccia!».

«E zitto». Kaede sistemò la sua bici ad una più fracassata della sua e, con tutta calma, si diresse in classe. Salutò con un ao di circostanza la sua migliore amica, che poco dopo sparì verso la palestra, trascinandosi una ragazzetta che non aveva mai visto prima d’ora - come se conoscesse molte ragazze, lui. O forse sì?

 

Intanto la rossa stava buttando all’aria metà del contenuto del kit di pronto soccorso che teneva in palestra, borbottando una volta sì e l’altra anche contro chiunque avesse finito il cotone. «Oh, eccolo!», esclamò, trionfante, imbevendolo nel disinfettante e porgendolo alla ragazza.

«Non dovevi, grazie.», disse Sana, bagnando il ginocchio sbucciato. «Vi ho stesi io per terra e ora sei tu a prenderti cura di me».

Hime rise, recuperando garza e cerotti. «Tranquilla, non mi son fatta male. E Hanamichi è più che abituato a beccarsi biciclette sulla schiena».

«Oh, ho notato». Sana si morsicò il labbro quando un po’ di cotone le rimase appiccicato alla pelle insanguinata. «Cavolo, non potrei mai fare il chirurgo», disse, togliendo lo sguardo dal ginocchio.

«Ti impressiona il sangue?», chiese Hime, bendandole la ferita. Ad un cenno affermativo dell’altra, lei sorrise. «E meno male che avrei dovuto lasciarti stare così».

Sana arrossì, sospirando sollevata appena il sangue sparì dalla sua vista. Sì, odiava, anzi, detestava il sangue. Da piccola era rimasta traumatizzata alla vista di un incidente di percorso in cui la madre si era tagliata mezzo dito mentre preparava l’insalata. Era stato terrificante. E la mamma cosa aveva fatto per tranquillizzarla? “Ma no, al massimo me lo tagliano tutto!”. Avrebbe voluto strozzarla in quel momento. Aveva solo sei anni!

«Grazie mille, Hime. Sei sempre così gentile!», disse Sana, mettendosi in piedi.

La rossa le strizzò un occhio. «Dici così perché non mi hai mai vista arrabbiata».

Le due si diressero in tutta fretta verso le rispettive aule, ma Sana venne fermata a metà strada dalla sua amica, forse la migliore tra le poche che aveva: Kiyo.

«Dimmi, ho qualche problema io?», chiese la Kobayashi, afferrandola per le spalle e guardandola con l’espressione di una pazza.

«Non saprei… hai qualche problema?», rispose con un’altra domanda l’amica, perplessa.

Kiyo sospirò, poggiandosi senza forze contro il muro del corridoio. Si passò una mano tra i capelli sfibrati e li guardò assassina. «Forse dovrei tagliarli.»

«E forse dovresti tornare al tuo colore naturale, biondi proprio non ti si addicono.» Sana le sorrise, prendendole una mano. «Ti va di parlarne all’ora di pranzo?»

Kiyo annuì, stanca. «Dove ti trovo? Ogni volta sparisci».

«In terrazza, sono sempre lì. Non c’è mai nessuno»

«D’accordo, ora però vai in classe o arriverai in ritardo. E tu sei troppo secchiona per subire le urla del professore».

Sana le rispose con una linguaccia, ma volò immediatamente verso la sua aula, esattamente un minuto prima che l’insegnante chiudesse la porta scorrevole.

«Well, guys, today we’ll talk about Blake. Have you read his biography at home?»

Alcuni studenti annuirono convinti, altri un po’ meno, dato che la sera prima avevano preferito fare altro anzi che leggere quello che gli era stato assegnato.

«Psst, Tsukiyama!», sussurrò Eichiro Shimura, seduto al banco al suo fianco. «A che pagina è?».

Sana guardò il professore, tutto preso dallo scrivere anno di nascita e morte dell’autore inglese e gli rispose a voce bassissima. Eichiro, a differenza del fratello, era quello che aveva più la testa campata in aria. Era simpatico e parecchio intelligente, ma era il tipico esemplare di studente che otteneva ottimi risultati con il minimo sforzo. "Suo figlio ha grandi potenzialità, ma non si applica!", tipica frase che quella santa donna della madre si sentiva ripetere durante gli incontri con i professori.

«Grazie!». Le strizzò un occhio, aprendo il libro in fretta e furia per leggere due o tre frasi e capire di cosa stessero parlando.

Sana, come sempre, iniziò a prendere appunti su appunti, e non solo perché l’inglese era una delle sue materie preferite, ma perché si sentiva terribilmente in colpa se dimenticava qualche cosa. Molti la ritenevano pazza, ma considerato lo stile di vita che aveva intrapreso forse non faceva neanche tanto male. Gli appunti le davano tutto quello di cui aveva bisogno, senza dover leggere pagine e pagine di scritti che magari le servivano solo a farle perdere tempo. E per lei, il tempo, era prezioso e di vitale importanza. Tra la scuola, il bar e la musica ne sarebbe uscita matta, ne era sicura.

Appena la campanella del pranzo risuonò tra le aule, Sana raccolse le sue cose nella cartella e si affrettò a raggiungere la terrazza, sperando che Kiyo non fosse già arrivata. Odiava far aspettare gli altri. Appena aprì la porta si accorse che non solo Kiyo non era ancora arrivata, ma non c’era traccia neanche del ragazzo solitario che incontrava di solito a quell’ora. Si sedette nel suo angolino preferito, che dava sul giardino curato e pieno di ragazzi, e iniziò a scartare il suo bento, affamatissima.

Quando sentì la porta aprirsi alzò lo sguardo e rimase parecchio sorpresa nel vedere Kiyo in compagnia di quello stesso ragazzo silenzioso.

«Non mi avevi detto che qui non veniva mai nessuno?», chiese l’amica, indicandolo con un cenno del capo e sedendosi accanto a lei.

«Beh, ecco…».

«Non mi interessa ascoltarti, Kobayashi», rispose gelidamente quello, mentre la bionda faceva spallucce.

«Ti ricordi come mi chiamo? La cosa ha dell’incredibile».

«Hn».

Sana lo guardò per qualche istante mentre quello, con gli occhi mezzo chiusi dal sonno, si metteva a pranzare; poi si rivolse a voce bassa alla ragazza al suo fianco. «Non parla mai e ascolta la musica con il walk-man, per quello ho pensato che non avrebbe dato fastidio».

Kiyo agitò una mano, incrociando le gambe e fregandole un po’ di cibo. «Fa nulla. È sempre così».

«Lo conosci?».

«Svegliati, è in classe con me».

«Oh…» Sana gli lanciò un’ultima occhiata e stava per chiedere all’amica chi fosse, ma decise di dedicarsi ad altro. «Allora, di cosa volevi parlarmi?».

«Toshiro».

Non ci fu bisogno di aggiungere altro, perché la barista capì al volo. «Ti ha telefonata di nuovo?».

Lei scosse la testa. «Peggio. Era davanti a casa mia ieri sera». Si passò stancamente una mano tra i capelli, arrabbiata. «Dici che con un disegnino capirebbe che non voglio più vederlo?».

«Uhm, con la testa vuota che si ritrova non credo. Ti ha detto qualcosa?».

«Il solito… “Mi manchi, sono stato uno stupido, mi dispiace, prima o poi torneremo insieme.” Ecco, quest’ultima parte mi ha messo paura. L’ha detto con una sicurezza tale da mettere i brividi.».

«Ma tu non vuoi tornarci insieme, vero?».

«Assolutamente no!», strillò Kiyo, così forte che persino il ragazzo dall’altra parte della terrazza alzò lo sguardo, infastidito e perplesso. «Sana, quello mi sta minacciando tra le righe. Non era solo, ieri. Fortuna che c’era la mia vicina di casa a controllarsi il giardino - quindi a farsi i fatti miei - altrimenti non so cosa avrebbe fatto».

«Se continua così devi denunciarlo, Kiyo. Per molestie».

L’altra scoppiò a ridere amaramente. «Denunciarlo? E cosa gli fanno? Niente. È il figlio di un avvocato, vuoi che in qualche modo la cosa non venga lasciata passare? L’unica cosa che posso fare è ingaggiare un killer e fargliene dare tante».

«Kiyo!».

«Che c’è?».

Sana sbuffò, puntandole gli occhi scuri contro. «Non devi scherzare su queste cose».

«Sanako, sembri mia nonna. E poi non stavo mica scherzando».

«È che sono preoccupata per te, tutto qui», mugugnò quella, portandosi le gambe al petto e sentendosi inutile per l’amica.

«Ma quanto sei testona, tu» Kiyo le rivolse uno dei suoi rari sorrisi e le pizzicò una guancia. «Comunque ho deciso che mi iscriverò al club di karate, non si sa mai che debba difendermi in futuro. Tanto ho solo il nuoto che mi prende tanto tempo, il resto è libero».

«Ecco, trovo che questa sia la soluzione migliore e più ragionevole», disse Sana in un sospiro. «A volte mi fai prendere certi spaventi».

«Perché?».

«Perché ti conosco abbastanza per essere sicura che assolderesti davvero qualcuno per farlo pestare».

In tutta risposta Kiyo ghignò divertita, chiudendo gli occhi e poggiando la testa contro la ringhiera dietro di lei. «Oggi lavori?».

«No, ho serata libera. In compenso devo andare a provare con la zia per il saggio di Natale».

«Cinque minuti di relax tu mai, eh?».

«A quanto pare non mi sono concessi! Ora se non ti dispiace, dato il mio poco tempo, mi metto a studiare».

«Sì, sì, secchiona. Io intanto mi fumo una sigaretta in santa pace».

Sana neanche sprecò il fiato per gridarle dietro che il fumo le faceva male. Ormai si era sgolata talmente tante volte con paternali degne del miglior ministro della salute, senza ottenere risultati, che la stanchezza aveva preso il sopravvento. Voleva ammazzarsi lentamente e con le proprie mani? Voleva stroncarsi la carriera di nuotatrice professionista? Affari suoi.

 

*

 

Appena Akira sentì il rombo della potente moto si alzò dal letto su cui era placidamente sdraiato e si avvicinò alla finestra. Hisashi, che alzò la visiera del casco, si accorse subito di lui e gli fece un impaziente cenno con la testa di scendere. Doveva essere successo qualcosa, anche un cieco avrebbe notato quanto fosse nervoso. Akira prese la sua felpa e se la infilò di tutta fretta, uscendo da casa in meno di un minuto.

«Che succede?», gli chiese seriamente. Quando vedeva il suo migliore amico così tutta la voglia di scherzare svaniva in un istante.

«Sali, ne parliamo dopo», borbottò Mitsui, porgendogli un casco.

«Vuoi che guidi io?».

«Ammazzati, Sendoh». Nonostante la serietà dell’altro, Akira non riuscì a reprimere un sorriso. Lo portò al molo in cui solitamente il numero sette del Ryonan si dedicava alla sua attività preferita dopo il basket, la pesca. Senza aspettarlo, Hisashi iniziò a camminare sulla sabbia, le mani ficcate nelle tasche dei jeans e l’espressione più incazzata e innervosita che Akira gli avesse mai visto in volto.

«Allora, che succede amico mio?», gli domandò ancora, sedendosi sul molo in legno, mentre l’altro rimase in piedi, alle sue spalle.

«È arrivato alle mani».

Sendoh spalancò gli occhi, voltandosi a guardarlo. «Che cosa?».

Hisashi si passò stancamente una mano in viso, facendola poi sparire tra i capelli scuri e non troppo corti. «La stava per picchiare. Fortuna di mamma che ero in salotto e mi sono accorto subito della situazione, altrimenti non avrei potuto fermarlo».

Akira si morsicò il labbro inferiore, sinceramente dispiaciuto di quella spiacevole situazione in famiglia dell’amico. Il padre non gli era mai andato a genio, ma non pensava che sarebbe arrivato a tanto. «Hisashi, devi fare qualcosa».

«E cosa? Cazzo, l’avrei ammazzato con le mie stesse mani se non avessi sentito mamma piangere».

«Ora dov’è?».

«A mandarsi a puttane il fegato in qualche bar. Per me può anche morire ora».

I due rimasero in silenzio per qualche minuto, assorti nei propri pensieri, mentre il mare, sotto di loro, si muoveva lento contro il bagnasciuga.

«Che intenzioni hai?», ruppe il silenzio Akira, piegando una gamba e poggiandoci sopra un braccio.

«Non lo so, davvero. Spaccargli il muso, forse».

«Potrebbe essere un’idea. Ma non credo possa far bene a te».

«Tu dici? Guarda che il potere curativo di un pugno è un dato di fatto».

Akira sorrise, mentre l’amico si sedette accanto a lui, stringendo i pugni. «Voglio portare via mamma da quell’inferno. E voglio che quello stronzo giri alla larga da lei. Mi troverò un lavoro, così potrò permettermi di pagare l'affitto e l’avvocato».

«Ehi, se hai bisogno di qualcosa lo sai che non mi tiro mai indietro, no?».

Hisashi piegò le labbra in un sorriso. Sarà stato anche un deficiente pervertito, oltre che l’inguaribile Akira-sto-sempre-sorridendo-Sendoh che a volte lo mandava in bestia, ma era anche la persona più affidabile che avesse mai conosciuto. Non amava ammetterlo, ma poter contare su di lui, quando aveva bisogno di sfogarsi a qualsiasi ora del giorno, era una sicurezza che non voleva perdere. «Grazie, amico».

Akira gli batté amichevolmente una manona sulla spalla. «Intendo, anche venire a vivere da noi. Lo spazio c’è e tuo padre–».

«Non è mio padre quello».

«…e quello non saprebbe dove trovarvi, a meno che non ti segua, ma lo metto in dubbio».

Mitsui scosse la testa. «Ti ringrazio, ma non voglio portare i miei casini a voi. Risolverò questa faccenda da solo, avevo bisogno di sfogarmi, ecco tutto».

«Va bene, ma la mia proposta è ancora valida», rispose docilmente Akira. «Comunque credo di sapere dove puoi trovare lavoro».

«Ah, sì?», chiese subito interessato l’altro.

«M-Mmh. Mio zio lavora in una tavola calda, e l’ho sentito proprio ieri incazzato come una iena che il suo facchino si è licenziato senza motivo. Tu hai una moto, no? Potrei mettere una buona parola con lui e farti dare un po’ più di quello che da solitamente», concluse Akira, con un’alzata di spalle.

«Amico, tu sei un genio», fece Hisashi, al settimo cielo. «Se non fosse che avrei paura di quello che potresti fare, ti direi che ti adoro».

Akira scoppiò in una risata cristallina, tenendosi la pancia. «Hisa, temi che ti salti addosso?».

«Ecco, appunto, hentai!», borbottò Hisashi, che scansò uno scarso tentativo di approccio. «Cazzo, smettila o chi ci vede penserà che stiamo insieme!».

«Ma tesoro, io e te siamo fatti l’uno per l’altro!».

«Ma quanto sei idiota», disse Mitsui, levandogli una manata in pieno viso che lo fece ridere ancora di più. «Piuttosto, non è che mi porteresti da tuo zio, ora?».

Akira si asciugò le lacrime dalle risate, poi annuì. «Ad un patto».

L’altro alzò gli occhi al cielo, sbuffando come una pentola a pressione e preparandosi psicologicamente a quello che l’amico gli avrebbe chiesto da lì a due secondi. «Parla».

«Guido io!»

«Eh no, col cavolo!»

Ultime parole famose.

Detto fatto e Akira zigzagava tra le auto per le vie poco affollate di Kanagawa, mentre dietro di lui Hisashi bestemmiava in aramaico, sperando che li portasse sani e salvi tutti e tre: lui, l’idiota e ovviamente la moto.

Quando arrivarono ancora interi al Bar America, Mitsui ebbe il sesto senso che quel posto gli sarebbe piaciuto. Sperava solo che venisse assunto.

«Ma tu guarda un po’ chi si vede!», esclamò il signor Watanabe, fratello della madre di Sendoh.

«Ehilà zio! Come va?», chiese sorridente il nipote, subito seguito da Hisashi che nel frattempo si guardava intorno.

«Siamo incasinati fino al collo, oggi è anche il giorno libero di Sanako e sono letteralmente solo». L’uomo fece spallucce, mestamente. «Ma si tira avanti».

«Sana non c’è, quindi? Peccato», mormorò pensieroso Akira, sfiorandosi il mento. Poi si risveglio, accorgendosi dell’amico dietro di lui impaziente. «Zio, volevo presentarti Hisashi Mitsui, ho pensato che dato che stai cercando qualcuno potrebbe lavorare da te».

Il signor Watanabe spostò la sua attenzione sulla guardia dello Shohoku e lo studiò con circospezione. «Piacere di conoscerti, Mitsui. Ho sentito molto parlare di te da mio nipote».

Hisashi gli strinse la mano, e con un cenno del capo disse: «Conoscendo questo qui posso solo immaginare che le ha detto».

Watanabe si mise a ridere, battendo una mano sulla spalla del nipote. «Comunque, ragazzo mio, io sono disperato, se hai voglia di lavorare e di non lasciarmi a bocca asciutta dopo una settimana, sei dentro. Giochi allo Shohoku, vero?».

«Sì, signore».

«E gli allenamenti a che ora finiscono?».

«Alle sette, quattro volte alla settimana».

Watanabe guardò il calendario, poi sorrise sotto i lunghi baffi. «Il tuo turno inizierà alle otto fino alle undici, ma se vuoi qualche straordinario puoi passare anche come barista, ogni tanto. C’è sempre bisogno di una persona in più».

Il viso di Hisashi s’illuminò e si sentì molto più leggero. «La ringrazio infinitamente, signore. Quando inizio?».

«Passa domani sera per i documenti, così facciamo le cose in regola. Inizierai lunedì, d’accordo?».

«Perfetto».

Si strinsero la mano e i due amici si fermarono a bere qualcosa prima di andarsene.

«Akira, non so come ringraziarti».

«Semplice: offrimi da bere!».

«Scroccone», borbottò a denti stretti l’altro, con sguardo truce. Ma non si tirò certo indietro: quel pazzo gli aveva trovato lavoro in quattro e quattro otto! «Comunque, chi è questa Sanako di cui parlavate prima?».

Gli occhi di Akira brillarono di una strana luce al solo sentire pronunciare quel nome e sorrise, pensando alla ragazza. «Lavora qui come barista da un annetto a questa parte. Studia allo Shohoku, sai?».

«Ah sì? E com’è? Magari la conosco».

Il Porcospino prese in mano il suo bicchiere e lo guardò un attimo, pensieroso. «È speciale».

«Oh cazzo, Sendoh innamorato non pensavo che l’avrei mai visto!», esclamò Hisashi, con gli occhi fuori dalle orbite.

«Ehi, calmati, non ho detto di esserne innamorato!» Akira sorrise, tuttavia. «Però non posso negare che mi piaccia tanto».

«Amico mio, se è davvero speciale come dici datti una mossa allora. E soprattutto smetti di fare il demente con Hime, o le due Scimmie potrebbero vendicarsi».

 

*

 

Sanako salutò i bambini con un sorrisone, mentre distrutta si trascinava dietro la chitarra e la zia, uscendo dal teatro.

«Oh, siete meravigliosi, davvero!», strillò entusiasta la donna, Masaki, battendo le mani e stringendo la nipote in un abbraccio. «Se continuerete così farete un’ottima figura, vedrai!».

Sana sorrise, sistemandosi al meglio la tracolla sulla spalla. «I bambini sono vivaci, ma imparano in fretta. Mi piace vederli così contenti!».

«Allora ammetti che ti piace insegnare musica!», la provocò la zia, con un ghigno.

Sanako sospirò, abbandonandosi ad un sorriso. Ormai erano anni che Masaki la ossessionava letteralmente per farle intraprendere la carriera di musicista professionista, oltre che assicurarle un posto come insegnante in qualche scuola. E sì che era brava e cantava bene, ma la faccenda ancora non la convinceva più di tanto. Voleva fare qualcosa di più della sua vita che finire ad insegnare due accordi a dei bambini. Ma non sapeva ancora cosa, ecco il problema.

«Comunque una volta tanto mi farai contenta: organizzeremo insieme il concerto di fine anno al liceo, e non voglio sentire scusanti».

«Ma… zia!».

«Niente ma! O puoi scordarti la mia buonissima e appetitosa torta al cioccolato che avevo intenzione di preparare stanotte».

Sana scattò come un gatto e si appese al suo collo, gongolante come una bambina davanti a un negozio di caramelle. Quanto era golosa! E quanto le piacevano le torte della zia!

«Concerto di fine anno?», ammiccò la zia, tendendole una mano per consacrare il patto.

La ragazza gonfiò le guance, indispettita, ma si arrese subito dopo. «E sia».

«Yatta!», saltò di gioia la donna, che a volte era peggio di lei. «E ora andiamo al market, non ho niente altrimenti per cucinare!».

Lasciata la chitarra nel cofano della macchina, Sana seguì trotterellando la zia ed entrambe si persero tra gli scaffali pieni zeppi di porcherie e cose zuccherose.

«Oh, guarda! La glassa fondente!». Masaki ne prese due confezioni al volo, con un sorrisone a trentadue denti smaglianti. «Il cioccolato è il miglior antidepressivo, no?».

«Zia, ma tu non sei depressa», fece ben notare Sana, mentre l’altra rideva.

«Lo so, ma potrei diventarlo e preferisco essere preventiva».

Pagarono una busta completamente ricolma di ingredienti e altri tipi di delizie ipercaloriche che avevano raccolto per strada, e se ne tornarono bel belle a casa, dove le aspettava la madre.

Ma quando misero piede in salotto capirono subito che qualcosa non andava.

Masaki guardò furente l’uomo che stava in piedi, in un angolo della sala, mentre la sorella aveva il volto rigato di lacrime. Sana fu l’ultima ad accorgersi dell’ospite e, proprio quando si stava togliendo la chitarra dalla spalla con uno splendido sorriso per salutare la madre, si ammutolì di colpo.

«Sana, sali in camera tua», le ordinò la madre, cercando di essere imperativa nonostante le lacrime.

«Mamma, cosa…?».

«Fa come ti dice, Sana.», le sussurrò la zia, prendendole la mano.

L‘uomo la guardò con una strana espressione, tra il meravigliato e l’entusiasta. «Piccola mia… Sanako».

Fu in quel momento che si accorse della spaventosa somiglianza con quello sconosciuto.

Fece cadere la chitarra in terra e l’unica cosa che riuscì a fare fu correre. Corse via, senza una parola, via da quella casa, via da quell’uomo. Cosa voleva da lei? Perché era lì? Non gli era bastato abbandonarle sedici anni prima senza mai farsi vivo?

Sana continuò a correre, le lacrime ormai che bagnavano anche il suo viso. Non guardava dove metteva in piedi, non si curava delle occhiate dei pochi passanti a quell’ora di sera. Voleva solo cambiare aria, rimescolare le idee per poter tornare a mente più lucida e affrontarlo.

Quando andò a sbattere contro qualcuno neanche sentì il dolore della botta che prese al fondo schiena. E diavolo, era caduta proprio bene!

Rukawa guardò quel corpicino scosso dai singhiozzi e non ebbe cuore di mandarla al diavolo per avergli fatto prendere un colpo, dato che stava praticamente dormendo in piedi. «Ehi».

Sana alzò lo sguardo acquoso su di lui e scosse la testa, coprendosi il volto. Kaede le porse una mano per aiutarla a rialzarsi e quando la vide meglio sotto il lampione non riuscì a capire dove l’avesse già vista.

«Scusami…», sussurrò Sana, andando via nuovamente di corsa.

Il Volpino rimase a guardarla finché non sparì dietro un angolo e fece spallucce, riprendendo a camminare verso casa.

 

 

 

Continua...

 

 

 

* * *

 

Incredibile ma vero, eccomi ad aggiornare dopo una settimana! Sono un po' distrutta (anche se "un po'" è un eufemismo!), e scrivere sui miei selvaggi preferiti è un ottimo modo di rilassarmi. :)

In questo nuovo capitolo si delineano meglio quelli che sono i caratteri e i problemi che, nel corso della storia, andrò a spulciare meglio... Spero vi sia piaciuto! ;)

Prossimamente, come vi avevo promesso, aggiungerò le schede dei nuovi personaggi... Avevo intenzione di disegnarli, ma il tempo che ho è poco, quindi ho trovato un'altra via! :P

 

E ora passiamo ai ringraziamenti!

Grazie a chi ha recensito:

lirinuccia: ma ciao! *_* Che piacere leggerti! Son stra contenta che Hime ti piaccia, anche io l'adoro! *O* Ma io non faccio testo. XD Hanamichi ti ringrazia per il sostegno, promettendo al mondo intero che prima o poi farà valere il suo essere maschio, alla facciaccia di tutti. Per quanto riguarda Arimi dovrai aspettare ancora un po' per conoscerla meglio, ma tranquilla, ho in serbo parecchie sorprese che la riguardano. E infine il volpino... Siamo in due ad interessarci! <3 Ho ingrandito il carattere come mi hai consigliato, così va meglio? Un bacione, aggiorna presto anche tu! ;)

kuro: ahaha ragazza mia, se Hanamichi ti sentisse potrebbe tirarti una testata colossale, sai? (Anche se ok, ammetto che delle volte mi faccio prendere anche io dallo yaoismo più sfrenato <3) Ma non voglio darti false speranze, Hana è etero a tutti gli effetti, nella mia storia. :P Grazie mille come sempre, è un piacere farti ridere! :D Bacione :*

 

Grazie a chi l'ha aggiunta tra le preferite: kuro, lilli84, oOo14_YukA_14oOo, sophia90 e chi tra le seguite: lirinuccia, moirainesedai.

 

Ci si legge al prossimo capitolo! ;)

Marta.

 

 

 

 

 

   
 
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