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Autore: fifi15    23/05/2010    0 recensioni
Ho voluto dare un’impostazione particolare a questo racconto, cercando di definire appieno le emozioni, di delineare nel miglior modo ogni istante narrato. “Aveva dovuto comprendere che le emozioni forse più belle della sua intera vita aveva avuto modo di viverle, sebbene per poco, sebbene soffrendo. Le erano state donate a patti chiari, e, per quanto possibile, lei le aveva prese e rese sue.” Ho così voluto creare un racconto che parla d’amore, ma di un amore cupo e solitario, che niente lascia dietro sé. Un amore che si perde nei recessi della memoria, che sopravvive solo attraverso i ricordi di chi, sognando, abbassa ogni difesa.
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A dire la verità pensavo non sarei più tornata qui, almeno per continuare a mettere qualcosa di mio insomma ... ma si sa, a volte la vita ti porta, o riporta, su binari e strade che non ti saresti mai aspettata. Vi auguro una buona lettura, e sarò oltremodo felice se, nonostante tutto il tempo trascorso, qualcuno avrà ancora voglia di leggere e, magari, lasciare un piccolo commento!

Vi ricordo che in questa fase del racconto sono tre le "vicende" che vengono narrate, in tempi e luoghi diversi. Eva continua la sua relazione con Giuseppe, dopo la sparizione di Fabio. La sua storia è, infatti, antecedente a quella della ragazza, e vede appunto il racconto non solo di ciò che lo riguarda nell'immediato presente ma, attraverso una serie di flashback, rimanda a vicende legate al suo passato, di cui lentamente si svelano i misteri.  Spero che la distinzione anche grazie all'uso di scritture differenti sia chiara, ma per qualsiasi problema o incomprensione sarò ben lieta di essere di aiuto ^^

Adesso vi lascio davvero alla lettura!!

Il volo, durato numerose ore, si concluse con la maggior parte dei passeggeri indolenziti e col voltastomaco. Fabio, sceso dietro una coppia di anziani signori, si guardò intorno, non riconoscendo, ancora una volta, il luogo nel quale avrebbe passato un’altra parte della sua vita.
Si avanzò nella grande sala, stavolta notevolmente meno intasata, e, senza avvicinarsi al ritiro bagagli, presto fu fuori da quella. Gli occhi vagarono all’in su, nel sole che stava ormai scendendo verso il mare, nel cielo intarsiato di rosso, nelle ragazze che, passeggiando davanti a lui, lo guardavano ammiccanti. Ma neppure quello gli importava, non in quel momento perlomeno. Fermò un taxi e pronunciò il nome dell’albergo nel quale era diretto. 
Durante il tragitto, osservando i passanti e i viali alberati, ricordò poco o niente di quella lontana estate nella quale lui e Angelo avevano trascorso in quello stesso luogo una settimana o poco più. Come fosse stato il giorno prima, Fabio ripensò all’espressione complice dell’amico allorchè, spuntatogli a casa alle tre del mattino, gli aveva annunciato il suo progetto. “ Missione Adesca Pupe”, lo aveva chiamato e da allora il nome in codice di quel viaggio era sempre stato “MAP”. Anche in seguito, quando Angelo aveva conosciuto e si era innamorato di Carla, il MAP aveva avuto le sue brevi apparizioni in discussioni solitamente bevute, e anche parecchio. Tornando con la mente a quei momenti, alle sbronze spettacolari e agli indomani totalmente di merda, Fabio non riuscì a non sorridere. Se era venuto in quel posto, d’altronde, era proprio per non obliare del tutto la memoria di quei momenti. 
Il tassista, un tipo di colore piuttosto attempato, fermò l’auto e lo fece scendere soltanto dopo essere stato regolarmente pagato, il tutto accompagnato da una cospicua mancia. Certo quello non era un luogo in cui ci si fidava del prossimo, pensò il ragazzo smontando dalla macchina e chiudendo malamente lo sportello. Il rombo del motore, che udì già voltato di schiena, accompagnò il suo ingresso nel grande hotel. Non era lo stesso in cui lui e Angelo avevano pernottato durante il MAP, ma soltanto perché quella era una bettola piena di sudici topi e scarafaggi grandi quanto gatti. L’albergo in cui avrebbe trascorso qualche giorno, al contrario, era il più lussuoso si trovasse in quella città, e di questo poteva soltanto andare fiero. Una ragazza bionda gli passò accanto spandendo per un attimo tutt’attorno un leggero profumo di pesca. 
Fabio, voltando istintivamente il capo in quella direzione, sperò forse per un attimo di vedersi ricambiare da un paio di occhi azzurri e grandi. Quello che ricevette fu, invece, uno sguardo complice da due piccoli occhi castani. Scosse la testa velocemente, dandosi dell’idiota. Come poteva anche solo per un attimo aver provato quel desiderio? Aver desiderato che lei fosse lì? Una totale stupidaggine, decretò continuando a camminare. 
Si avvicinò al banco reception e nel giro di pochi attimi una chiave gli venne posata in mano. Un gentile ragazzo tentò di prendergli il borsone ma, a uno sguardo omicida di lui, si dissuase e ritornò da dove era arrivato. Salì in camera utilizzando le scale e, non appena varcò le soglie della lussuosa stanza, si gettò sul materasso, con la testa affondata nel guanciale. Non si era reso conto di essere stanco sino a quando non aveva sentito contro il corpo la consistenza del materasso. Non accese neppure le luci. La stanza, che dava sul mare, era già colorata di una forte tonalità rossiccia, adesso che il sole si concedeva al tramonto. Tutto era pervaso da quel colore che era insieme forte e inebriante. Fabio osservò ciò che dalla sua posizione riusciva a scorgere, tentando di aprire con gli occhi un sottile varco tra le pieghe della tenda. Ma, prima che potesse riuscirci, prima che potesse formulare qualche altro pensiero, prima ancora che il sole avesse il tempo di tuffarsi nell’azzurro ramato del mare, i suoi occhi si chiusero e scivolò presto nel sonno.

Stesi su un prato verde e ghiacciato, carezzato dalle onde di fresca ed umida brezza, avevano chiacchierato numerose ore, avevano giocato, si erano fissati a lungo in silenzio. Infine Giuseppe aveva tirato fuori da una sacca un cestino pieno di cibarie e ,dopo aver sistemato meticolosamente ogni cosa al proprio posto su un’ampia coperta a quadri, si erano accomodati e avevano pranzato silenziosamente. Prese un altro panino dal mucchio variopinto e ne diede un morso piccolo, mentre davanti a sé l’altro afferrava un bicchiere colmo d’acqua. Un altro alito di vento percorse l’erba verde intenso senza scomporne la primitiva bellezza, lasciando al suo posto ogni perfetto filo. Gli occhi li volse a quel vento, a quella pace attorno a sé, a quel momento apparentemente magnifico. Tutto era a posto, in quell’attimo, e non avrebbe saputo immaginarne una fine. I capelli legati in alto diedero qualche strattone al passaggio di un’altra seppur piccola onda e Giuseppe, guardandola ancora, afferrò il foulard che li teneva incatenati e lo tirò piano. Quello scivolò tra le ciocche chiare come fosse stata acqua e cadde inerme tra le grandi mani dell’uomo mentre i biondi ciuffi si spandevano sulle spalle scoperte e bianche di lei. Senza dire nulla, sorridendogli impercettibilmente, diede un altro morso al panino.
- Sei bellissima, così…-
Il luccichio profondo nel pozzo dell’azzurro dei suoi occhi fece culminare quel momento con un bacio che lui le posò sulle fresche e rosee labbra. Rimase infine con la fronte poggiata alla sua, proteso in avanti sulla grande coperta, le mani premute contro il tessuto. Gli occhi li tenne però chiusi, così che lei, guardandolo dinanzi a sé, non riuscì a scorgere nulla.
- Ti amo…lo sai, Eva?-
Mosse lentamente la piccola fronte contro la sua in un evidente cenno d’assenso, senza aprire bocca. Giuseppe allora si staccò da lei e tornò seduto, afferrò un tramezzino e lo divorò in due grandi bocconi. Eva, sazia e soddisfatta, si distese poggiando la testa fuori dal tessuto a quadri, lasciando che i fili d’erba le pungessero il collo scoperto, che quella brezza spirante la convogliasse pienamente in sé. Socchiuse gli occhi bagnati di sole, respirò a piene narici quell’aria che sapeva di perfezione e assoluto. Anche volendo, non avrebbe saputo descrivere un mondo migliore di quello.
Giuseppe, dopo qualche attimo, si trovò disteso accanto a lei, le braccia larghe, le gambe lunghe.
- Non ti sembra tutto perfetto?-
Lui si voltò su un fianco puntellandosi sul gomito e la fissò intensamente, piccola e racchiusa nei suoi pensieri, con quelle affermazioni così appropriate, con quel viso, con tutto ciò che per lui rappresentava averla lì con sé.
- Tu rendi tutto perfetto-
- Dai…sembra una di quelle patetiche frasi di qualche canzoncina…tutto è perfetto già di per sé-
- Per quanto mi riguarda se non ci fossi tu qui con me, allora nulla avrebbe importanza o bellezza…-
Eva sorrise schiudendo appena le palpebre e voltando il viso a lui, proteso sul suo corpo.
Giuseppe assaporò ancora una volta la freschezza, la genuinità di quel bacio, sfiorò con dita tremanti il vestito che indossava, intrufolò una mano sotto quello carezzando le lisce e bianche cosce, fremendo di lei.
Il telefono prese a squillare interrompendo quelle innocenti carezze, donando un sorriso all’una, un moto di stizza all’altro.
- Scusa…non capisco perché mi chiamino se avevo espressamente detto di non farlo!-
E si alzò da terra pulendosi il retro dei jeans. Afferrò il cellulare e, leggendo il display, sembrò già più confuso che in collera.
- Si?-

…Angelo urlava ancora dalla gioia, o almeno così gli sembrava. Si, non lo stava neppure ascoltando, nonostante l’amico lo implorasse di farlo, ma lui aveva la testa da un’altra parte. Quei fogli usciti dalla busta gialla, da quella vecchia e sbiadita busta gialla, adesso erano tra le sue mani. Fabio li osservava, cercando di sceglierne una da leggere prima degli altri, cercando forse di scegliere quello più giusto. Senza attendere ancora, prima che avesse il coraggio di riporli nuovamente all’interno della vecchia busta gialla, ne afferrò uno dal mucchio. Lo aveva scelto perché aveva intravisto, tra la confusione degli altri fogli, un nome che ben conosceva: quello della madre. Il documento, che doveva essere importante dal modo in cui si presentava, riguardava davvero sua madre. Diceva il posto in cui era nata, il giorno, e, di seguito, elencava minuziosamente tutte le persone che vivevano con lei. C’erano i nonni, lo zio e, infine, la zia. Stava quasi per riporlo nella busta e passare ad un altro, quando un particolare gli saltò agli occhi. Fabio sapeva bene di avere solo due zii: Riccardo e Pina. Il padre era figlio unico, quindi quelli erano in fondo gli unici che avesse da ambo le parti. Ma, in quel foglio, in quello strano certificato che non riusciva ben a capire cosa fosse, c’era un altro nome. Il nome di un’altra sorella, a quanto Fabio riusciva a comprendere. Lesse frettolosamente, mangiando alcune delle parole impresse a caratteri minuti e sottili, senza afferrare bene il senso di ciò che scorreva sotto gli occhi. Secondo quello strano documento l’altra sorella della madre si chiamava Olivia, ed era tre anni più piccola. Nel vano tentativo di comprendere cosa ciò che leggeva significasse, Fabio mise da parte il foglio che fino a quel momento aveva esaminato e ne afferrò un altro. Stavolta aveva sotto gli occhi qualcosa che portava addirittura il suo nome. . Anche quello riportava il luogo e la data di nascita, e Fabio si accorse, non senza sgomento, che era completamente errato. Leggendo ancora una volta il posto in cui, secondo quel foglio, lui era stato messo al mondo, il bambino si disse che era impossibile. No, doveva sicuramente essere stato stampato male. La madre gli aveva sempre detto che, prima di trasferirsi in quella casa, avevano abitato in una piccola e sperduta villetta in mezzo la campagna, quando ancora il padre non era un uomo ricco. Secondo la versione della donna sia lui che Giuseppe erano nati in quel luogo, che sicuramente non era ciò che era riportato su quel documento. Il cuore aveva intanto cominciato a martellargli nel petto. Nel vano tentativo di fermarlo, Fabio alzò gli occhi ma, con una punta di rabbia, si accorse che Angelo stava leggendo un fumetto poggiato con la schiena a uno scatolone scuro. Allora, accantonata la possibilità di renderlo partecipe, aveva riabbassato gli occhi sui numerosi fogli che lo circondavano e ne aveva afferrato un altro ancora. Stavolta, leggendo con molta calma, si rese conto di stringere tra le mani una fotocopia del certificato di matrimonio dei genitori. Senza dare a quello importanza o rilevanza, al fine della chiarificazione dei suoi dubbi, lo accantonò da una parte e, incuriosito da una strana sporgenza, ne afferrò un altro. Si ritrovò a guardare dritto negli occhi una versione in miniatura di se stesso. Decisamente più smunto e mingherlino, gli occhi e i capelli erano sempre gli stessi. Fabio lesse ciò che il foglio riportava scritto. Era un documento che “Approvava la richiesta di affidamento…” “ …stato per un periodo pari a due mesi nell’orfanotrofio di Santa Barbara”
La data risaliva a sei anni prima, quindi aveva circa tre anni. Osservò ancora a lungo le parole che aveva letto. Che significato avevano? Lui, in orfanotrofio? Perché allora non ricordava nulla? E, in ogni caso, perché? Spaventato, ormai non esisteva altro termine che potesse rivelare appieno la confusione che lo attanagliava, si chiese cosa stesse facendo. Perché stava leggendo quelle carte? E perché stava dando loro conto? Potevano benissimo riguardare qualcun altro, magari un altro bambino vissuto in quella casa prima di loro, un bambino che gli assomigliava tantissimo e che aveva lo stesso nome…
Una delle mani, come ragionando che quelle ipotesi erano soltanto scuse e che la verità andava cercata in un altro di quei fogli, afferrò un altro pezzo di carta. Stavolta, con il sudore che ormai gli imperlava l’intera fronte e la schiena, Fabio si rese conto di non stare osservando un documento ufficiale, bensì una sorta di lettera. In cima portava la data, risalente proprio a circa sei anni prima, e la scrittura era piccola e obliqua. Cominciò a leggere quelle parole dal sapore distante e, spesso, poco chiaro. Era arrivato a metà del primo foglio, senza averne nonostante tutto capito il contenuto, allorchè Angelo, alzatosi da terra dietro una nube di polvere, gli era stato addosso. Dopo avergli arruffato i capelli il bambino si era disinteressato dell’iniziale botto di ilarità e aveva puntato gli occhi sulla faccia del bruno.
- Che c’è?-
Gli chiese Angelo, tra il divertito e l’atterrito. Fabio, distogliendo gli occhi dalla carta, lo fissò, muto. Infine gli tese il foglio senza dire ancora nulla e l’altro, afferratolo, lo guardò.
- Che ci devo fare?-
-Leggilo, a voce alta-
- Ma perché, scusa? Che cos’è?-
- Tu leggi e basta-
Il bambino si sedette accanto all’amico. Infine, preso un respiro sapente di muffa, cominciò a leggere.

 “ Cara sorella,

chi ti scrive è una tra le  persone che tra tutte ti ha amato maggiormente. Vorrei riuscire a dirti così tante cose, eppure le parole mi sfuggono, e i concetti sembrano spesso distanti anni luce da questo bianco foglio. Le mani, tremando incerte, proseguono nel loro ardito compito, eppure neanche loro sanno cosa questo comporterà. Svegliandomi stamane ho guardato il cielo fuori dai vetri della mia stanza, e mi sono accorta che il sole era alto e splendente tra le nubi rade e che questo sarebbe stato il giorno in cui ti avrei scritto. Per tanto tempo, anche troppo, ho rimandato questa ingrata mansione, attribuendola a ciò che, nella mia mente, decretavo un’ultima spiaggia. Adesso però ci sono su quest’ultima spiaggia, e per questo motivo non mi resta altro da fare se non trascrivere su un foglio ciò che da tanto rimugino. Appare così difficile adesso che mi accingo a intraprendere quest’impresa, tanto da arrivare a pensare di smetterla qui,bruciare questa mezza pagina di inchiostro e abbandonare ogni pensiero di tal fatta. Ma non posso, non posso permettermelo, non più. Così adesso, dopo qualche breve preambolo, voglio cominciare a dirti ciò che devo.
La mia malattia si è oltremodo aggravata in questi ultimi mesi, sebbene sia pienamente cosciente che tu di ciò non avevi idea. In tutto questo tempo, dal giorno in cui, due anni fa, scoprii di essere malata e cominciai a lottare per la mia vita, non ricordo secondo in cui tu, cara sorella mia, non fossi qui accanto a me, a stringermi la mano. Tentavi vanamente di celare le lacrime ma so bene che, non appena i dottori mi allontanavano dalla tua stretta, piangevi il dolore sconfinato che solo la morte di qualcuno che ami può dare. Forse l’ho sempre saputo che non ce l’avrei fatta, me ne rendo conto soltanto adesso. Quando mi dissero di cosa soffrivo e che, se non avessi agito, sarei presto morta, non avevo subito avuto intenzione di curarmi. Se l’ho fatto è stato solo per il bene di mio figlio, ancora così piccolo. Aveva un solo anno quando mi dettero la triste notizia, e adesso ne ha tre. È talmente piccolo, sai, e spesso, svegliandomi la notte, entro silenziosamente nella sua camera e lo stringo al petto, per sentire contro il mio cuore il suo battito. È come un miracolo, e me ne rendo conto ogniqualvolta posso vederlo o baciarlo. È il mio miracolo, l’unica cosa che di buono avrò fatto nella mia vita.
Ne vado orgogliosa e fiera e sono sicura, dentro di me, che un giorno anche lui farà qualcosa di cui andare fiero. Non potrò essere con lui quel giorno, ma lo osserverò da ovunque mi trovi, e piangerò come qualsiasi madre farebbe. Non potrò stringerlo o baciarlo, né parlargli, ma per tutto questo ci sarai tu. Ecco, questo è il punto al quale volevo arrivare. I dottori, nella migliore delle ipotesi, dicono che potrò vivere per ancora un mese, forse due. 
Ogni giorno è sempre peggio, la mattina ormai non riesco quasi ad alzarmi. Se lo faccio ancora, sebbene ai limiti dell’impotenza, è solo perché Fabio, guardandomi allegro e spensierato, mi fa credere di potercela ancora fare. Ma io e tu sappiamo bene che così non è. Sei andata via circa otto mesi fa, allorchè mi avevano prognosticato una sicura e tranquilla guarigione. Mi hai chiamato da allora ogni giorno, chiedendomi se volevo che tornassi, ma ti ho sempre dissuasa, sino a oggi. 
Mi spiace non averti avvisato, non aver avuto il coraggio di dirtelo. Ti ho lasciata partire col sorriso sulle labbra, felice di poter finalmente riabbracciare tuo figlio, Giuseppe, e tuo marito, che avevi visto solo sporadicamente nell’ultimo anno. Voglio però dirti adesso che circa sei mesi fa, dopo un controllo, mi hanno detto che la malattia, che sembrava debellata, è tornata, e peggiore di prima. I dottori, mostrandosi ottimisti, mi avevano assicurato che sarebbe bastato soltanto un altro anno di cura per cacciarla definitivamente. Mi prenderai forse per un’insensibile, un’egoista, ma ti giuro che io non ho avuto la forza di ricominciare. Ricominciare a lottare dopo esserne uscita sarebbe stato peggio che non lottare affatto. Non avevo più niente di me, della bella e pimpante donna che ero stata. Ormai di quel lontano passato restavano solo gli occhi, e in quel momento, a quella notizia, anche quelli si sono spenti per non riaccendersi mai più. 
Mi sono arresa, se preferisci metterla così. Se non ti ho contattata o avvisato è solo perché sapevo benissimo che tu non lo avresti accettato. Una notte, mentre ero in ospedale e tu eri lì con me, ti chiesi perché stessi continuando a starmi vicina tanto accanitamente. Dovevo forse essere sotto l’influsso di quale medicinale, perché, in caso contrario, non avrei mai avuto il coraggio di porti una simile domanda. Inizialmente tu non rispondesti, questo lo ricordo bene. Infine, stringendomi le mani, mi guardasti e dicesti solo – Non riesco a concepire che tu vada via prima di me. Ti voglio troppo bene-
Questa frase, che ancora oggi ricordo nitida, è forse la cosa più bella che mi sia mai stata detta durante la vita.
Solo aver sentito per la prima volta Fabio chiamarmi mamma può essere paragonato all’emozione che provai in quel momento. Se ho avuto una vita breve è valsa comunque la pena di viverla, perché quelle parole sono riuscite a renderla migliore. Sta calando il tramonto, qui da me, lo osservo fuori dai vetri e me ne rammarico. Un’altra giornata è volata via, e sempre meno forza ho per alzarmi da questo letto. Ho mandato Fabio da una vicina, oggi, perché non ho avuto il coraggio di guardarlo negli occhi e ammettere la mia debolezza. Come può un bambino così piccolo comprendere che la sua mamma non riesce ad alzare il corpo da uno stupido materasso? Che presto, uno massimo due mesi, la sua mamma neppure ci sarà più? È una verità troppo grande e mostruosa da dover accettare, a tre anni ancor più. 
Sono una codarda, starai forse pensando, ma la forza materiale per osservare quei suoi grandi e scuri occhi e ammettere la verità non la posseggo. E vuoi sapere una cosa? Non credo che alcuna madre possegga tale forza, la forza necessaria per abbandonare i propri figli. A volte mi rendo conto che, non dicendolo a Fabio, è come se covassi ancora una sottile e intrinseca speranza che sia tutto uno sbaglio, un incubo. Ma so bene non essere tale, per questo ho deciso di mettere ogni cosa per iscritto. Probabilmente mi sveglierò una mattina, attenderò di sentire i passi concitati e svelti del mio piccolo miracolo su per le scale ed, infine, sorridendo me ne andrò. Così, senza dolore, senza essere ferita o colpevole. Prenderò un ultimo respiro e lascerò solo il corpo come dimostrazione della mia esistenza. D’altra parte, però, non voglio che Fabio mi veda peggiorare ancora. Non voglio che di me conservi, come ultimo ricordo, quello di una persona malata e depressa. 
Per tale ragione ho chiamato una persona, oggi. La conosco bene e, sebbene non possa vantarla come amica, posso dire di avere in lei piena fiducia. Domani stesso Fabio sarà mandato in un orfanotrofio, nel quale riceverà pasti caldi e verrà trattato da lei come un figlio. Soltanto quando io non ci sarò più questa persona potrà mandarti la lettera che oggi sto scrivendo e tu, se così vorrai, potrai andare a prendere il mio bambino e crescerlo come tuo figlio. Te ne prego, non odiarmi. Non pensare che stia agendo come una codarda o un’egoista. Ho cercato ogni via, ogni maniera possibile, ma non ce ne sono. Non ne ho trovate. Questo è sicuramente il modo meno doloroso e tragico nel quale terminare la mia esistenza. Muoio felice, perché ho la consapevolezza che un giorno non troppo lontano tu varcherai le soglie di quell’edificio e accoglierai Fabio come fosse tuo figlio. Donerai a lui tutto l’amore che non potrai più donare a me. Ho scelto te, sorella, perché sei davvero una delle persone che in tutta la mia vita ho amato maggiormente. Ti conosco e so che, sebbene arriverai inizialmente a detestare il mio comportamento, te ne farai una ragione prima o poi e saprai essere capace di perdonarmi. Mi reputi troppo ottimista? Non credo.
Senza che me ne sia resa conto è già sera. Le valigie del mio bambino sono pronte, già nell’ingresso. Ad aiutarmi è stata una gentile ragazza del circondario. Domani mattina, all’alba, Fabio sarà affidato alle cure di qualcun altro, che non è sua madre. Il tempo che dovrà trascorrere in quel luogo, sebbene gli sarà riservato un trattamento particolare, dipenderà soltanto da me. Per tale motivo spero di andarmene il più presto possibile. Credo di non aver più nulla da dirti, adesso che mi ritrovo tre fogli tra le mani. Mi spiace non avere la forza necessaria a ricopiare tutto, ma sarebbe un lavoro troppo faticoso. Per questo dovrai accontentarti di leggere da fogli  pieni di cancellature e sbavature che, se non avessi versato qualche lacrima, sarebbero state evitate.
Ricorda, cara sorella, che la vita è più breve di quanto ci si aspetti e che bisogna accantonare rancori e incomprensioni e avere il coraggio di sapere perdonare.
Ti ringrazio per essermi stata tanto vicina e per aver saputo rendere, insieme col mio bambino, piena un’esistenza altrimenti vuota.
Ricorda che ti vorrò sempre bene e non smetterò mai di amarti

Tua sorella

Olivia”

 

Non appena ebbe terminato di leggere, Angelo voltò gli occhi, divenuti grandi e sparuti, vero Fabio. Aveva però il volto girato e Angelo non poté rendersi conto che gli occhi sgranati erano bui e fissi, come non mai.
- Co … come ti senti?-
Gli chiese con la voce che tremava. Inizialmente l’altro non rispose, tentando di contenere le lacrime. Infine, preso un profondo respiro, cominciò a parlare.
- Come ho fatto a scordarmi tutto? Io non riesco a ricordare nulla di quello che c’è scritto in quella lettera…non ricordo neppure mia madre…perché?-
Senza dire nulla, Angelo afferrò, dai fogli sparsi a terra, un piccolo pezzo di carta. Era un articolo di giornale, piuttosto vecchio.
- Ehi Fabio, guarda qui!-
La cronaca parlava di un incidente stradale, nel quale erano coinvolti una donna e un bambino. La donna ne era uscita illesa, mentre il bambino, di tre anni, aveva subito lievi lesioni celebrali. Non si conoscevano ancora le precise condizioni di salute.
- Ehi Fabio, questo non è il nome di tua madre?-
- Si, infatti…-
- Allora…allora…- Angelo sgranò gli occhi, incredulo, come se fosse giunto ad un’incredibile conclusione, di vitale importanza.
- Allora tu in realtà non sei figlio di tua madre, cioè…- Angelo continuò a guardarlo ma Fabio tenne ostentatamente gli occhi lontani da quelli dell’amico.
- Tu sei figlio della sorella di tua madre-
Fabio si voltò a guardarlo. Angelo si accorse che il suo sguardo, per la prima volta da quando lo conosceva, non era quello spensierato e allegro di un bambino ma era diventato improvvisamente serio e duro, quasi di pietra. Infine Fabio si alzò da terra e, dopo aver strappato la lettera dalle dita inermi dell’altro, scese le scale della soffitta senza guardare indietro.

La conversazione telefonica, che Giuseppe tenne lontano dal punto in cui si trovava lei, durò parecchio. Eva stava ormai assopendosi in mezzo a quel prato, a quel calore immane, quando lui fece il suo ritorno. Era pallido, Giuseppe, e lo sguardo assente. Si sedette accanto a lei, le gambe incrociate, le mani penzoloni. Eva schiuse gli occhi solo per constatare il risultato della telefonata. Vedendolo però in quella condizione si issò a sedere a sua volta e gli poggiò una mano sulla spalla, stringendo la presa.
-Ehi … brutte notizie dall’ufficio?-
- No, niente del genere … -
-Perché allora questa faccia? Chi era al telefono?-
-Era mia madre … in lacrime-
- In lacrime? Stava per caso piangendo perché non siamo andati a pranzo da loro?-
Giuseppe sorrise di quell’eventualità, constatando ancora una volta l’ingenuità pura e semplice di lei.
- No, magari fosse così … -
- Senti, adesso mi stai facendo preoccupare, chiaro?! Parli con tua madre e torni con questa faccia da funerale, come se fosse morto qualcuno, vuoi dirmi cosa … -
Ma, prima che potesse terminare la frase, Giuseppe scoppiò a piangere stringendola a sé, affondando il viso contro il suo petto, cercando di trattenere i convulsi singhiozzi. Eva lo strinse forte, gli passò una mano tra i capelli, provò a consolarlo, a calmarlo, ascoltò le poche parole senza alcun senso che lui pronunciò con ancora le lacrime copiose.
- Ehi, ehi … basta piangere … dimmi cosa ti ha detto tua madre … -
- Lei … lei mi ha detto che Fabio … che lui … -
Il terrore, stillato da ogni suo arto, ebbe il sopravvento. Quel nome, da tanto tempo rinnegato in fondo ai suoi pensieri più proibiti, in quel momento fu peggio di una pugnalata al cuore. Ascoltarlo così, pronunciato da quello che era ormai il suo ragazzo, sentire il dolore spandersi ad ogni lacrima per colui che aveva fortemente amato e che non aveva ancora scordato, le fece cedere il terreno da sotto i piedi.
- O Eva lui … lui è … lui … è morto-

  
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