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Capitolo cinque ~
Cocoon
“Allora le confermo la
prenotazione del suo volo di ritorno, Mr. Wood.
Faccia buon viaggio”.
È la voce cortese di
un’impiegata dell’American Airlines a
parlare dall’altro lato del telefono.
“La ringrazio, signorina.
Arrivederci”.
Chiudo con uno scatto secco
la valigia che ho appena terminato di preparare e non posso fare a meno di
girarmi per l’ennesima volta intorno e vedere se ho lasciato qualcosa in giro.
Sembra di no o almeno sono tutte cose che inserirò tranquillamente nello zaino.
Passandomi una mano tra i
capelli mi affaccio alla finestra e mi accendo una sigaretta. Il davanzale è
abbastanza grande da permettermi di sederci su comodamente ed, infatti, poggio
il sedere sul marmo bianco e piego le gambe,
incollando la schiena alla parete. Quello che vedo è una pioggerellina sottile.
In effetti, non ha fatto altro che piovere da quando
sono a Cedar. Se non tutta la giornata, almeno per
buona parte di essa sempre. La nuvola di fumo
azzurrino incontra la parete vitrea coperta da un po’ di vapore acqueo. Il
termosifone qui accanto sprigiona un bel calore. Ci vorrebbe una
tazza gigante di caffè tra le mani, ma non se
ne parla di schiodarmi da qui ed andare in cucina. Goccioline in vena di fare
jogging scivolano divertendosi lungo l’esterno della finestra, monitorate dal
mio sguardo attento.
Ho praticamente
davanti agli occhi il cortile sul retro della casa. Ed
ecco lì il canestro. È l’oggetto che mi riporta alla mente un episodio tanto
poco usuale quanto divertente. Probabilmente una delle immagini che conserverò
dentro di me come testimone di questa specie di vacanza e che trascina con sé comunque tutto il peso della frustrazione per quella che, in
fondo, è stata un’eccezione. È questo il punto. Eccezione. Ovvero,
cosa che accade raramente, se non mai.
È stato anche il caso di me
e mio padre che ci siamo divertiti a giocare una partita di basket. Domenica pomeriggio e dopo una mattinata nella quale c’eravamo solo
scontrati in casa dandoci apparentemente fastidio a vicenda. Lui è
uscito appena dopo pranzo, per andare non so dove. Io mi sono ritrovato murato
dentro per il quarto giorno consecutivo.
Sono tranquillamente un tipo
casalingo alle volte, anzi adoro fare maratone cinematografiche in casa oppure
semplicemente rilassarmi e dormire; il punto è che qui mi sento in trappola.
Non ci sono dvd in abbondanza per
fare maratone - uscire ad affittarli implicherebbe il rischio di farsi
riconoscere e al momento non è proprio quello che desidero - non riesco
a rilassarmi, né tanto meno a dormire serenamente. Inoltre non ci sono né Hannah, né mia madre con le quali
litigare o chiacchierare.
Una prigione appunto. Che mi sono cercato da solo, d’accordo.
Sono uscito quindi in cortile per sentirmi forse meno
oppresso e mi è venuto voglia di dare un’occhiata al
ripostiglio. Un tempo c’erano i nostri giocattoli conservati in degli
scatoloni. Molti sono rimasti qui anziché essere stati spediti in California. È
quindi con quella strana sensazione di aspettativa che
precede di solito ogni tuffo nel passato, per via di oggetti che ci sono stati
cari, che mi incammino verso il garage ed entro nella stanza adibita a
sgabuzzino.
C’è un ordine che quasi sorprende. Polvere ovviamente
e ragnatele qua e là, ma il rischio di trovarsi di fronte una Shelob è più che remoto. Avrei comunque
Sting con me, quindi saprei come difendermi, mi dico
scuotendo la testa e chiedendomi fino a che punto Frodo mi sia rimasto dentro.
Abbastanza direi. Non tanto da impedirmi di muovere oltre, ma
quel che basta per farmelo considerare uno dei miei ruoli preferiti. In
assoluto e per sempre.
Ricordavo degli scatoloni imballati alla perfezione da
mia madre e chiusi con delle strisce di nastro
isolante nero. Se non sono stati buttati devono essere
di sicuro qua, mi dico iniziando a guardarmi intorno. Non ci vuole molto
effettivamente. Eccoli! Non so perché, ma ho la
certezza che siano loro, sebbene l’aspetto anonimo dato dall’unione del cartone
marrone richiuso con del nastro isolante altrettanto anonimo, potrebbe benissimo smentirmi.
Avevo ragione, che vi dicevo. Sono tre in tutto e
collocati su un tavolo, l’uno sull’altro. Con una certa
fatica, visto che in altezza mi doppiano quasi, riesco ad escogitare un metodo
per prenderli e al contempo evitare che mi crollino addosso. Non ho
ancora fatto un’assicurazione sulla vita come quelle alla J.Lo.
Non posso permettermi di rimanere schiacciato o sfregiato per via di un
quintale di oggetti, insignificanti per i più. Salgo
quindi sul tavolo, sperando che tenga il mio peso e prendo il primo scatolone,
appoggiandolo così vicino i miei piedi. Faccio la stessa cosa con il secondo,
allineandolo di fianco al precedente e saltando scendo così dal tavolo,
trovandomeli tutti e tre di fronte.
Sei un genio, Lij… è il
complimento con il quale mi gratifico al volo. L’autostima va sempre tenuta
viva, sapete com’è…
Inizio dall’ultimo. Sorridendo al ricordo, leggo il
mio nome sulla superficie cartacea. Elijah. È la
calligrafia di mia madre, elegante e sinuosa, con una specie di mio ritratto di
fianco. Un ragazzino con due occhi grandissimi sul volto, un sorriso simpatico,
un po’ di spazio tra gli incisivi – Beh, grazie mamma, questo distrugge la mia autostima, mi dico muovendo
involontariamente la lingua sui denti ed individuando appunto il piccolo gap.
Sono certo che non lo abbia fatto per prendermi in giro. È quella strana,
cieca, forma di amare delle madri, per le quali anche i difetti dei propri
figli diventano pregi. Lei dice di aver sempre adorato il mio sorriso, simile a
quello di uno sdentato. Beh, grazie ancora, Deb. Qui
la mia autostima svanisce del tutto, nell’immensità dell’universo - ed infine
un cappellino sulla testa. Tutto sommato il disegno è…
uh… grazioso e, chiudendo un attimo gli occhi, rivedo appunto mia madre quel
giorno lì, pronta ad imballare le cose per il trasferimento imminente.
Era estate. Un pomeriggio d’estate. Caldo ed un po’
sonnolento. Era in cortile con me, Hannah e Zach a ronzarle intorno, cercando di aiutarla e finendo
invece col farle rallentare le operazioni, sebbene la ricordi
più divertita che scocciata da quel nostro cicaleccio. Come sarà la nuova casa?
E la scuola? E il nuovo
acquario? E le nostre nuove camere? Prenderemo un
altro cane? etc. etc. Mocciosi irritanti, mi dico,
mentre avverto la bella sensazione di tranquillità di quelle ore invadermi in
pieno, via via che i dettagli vengono in superficie.
La rivedo piegata sulle ginocchia ed intenta ad
imballare il mio scatolone, un prendisole di cotone verde chiaro indosso, i
capelli, un tempo di media lunghezza e ondulati, raccolti in una crocchia
sommaria e disordinata sulla testa, lo sguardo concentrato e poi quel
pennarello in mano, a scrivere il nome e distinguere così ogni scatola
dall’altra, in base al contenuto.
Un bel ricordo.
Uno dei diecimila altrettanto belli e che custodisco
con affetto di lei.
Proseguo con lo sguardo sul secondo scatolone. Hannah. Certo... mi
dico, di fronte all’ovvietà della scoperta.
Inciampavamo ogni secondo nei suoi giocattoli in giro per casa. Anche qui c’è una sorta di mini ritratto. Una
ragazzina con un vestitino e i capelli legati in due trecce basse. È
vero. Han era vestita proprio così quel giorno. Inizio promettente per quella che poi si è rivelata essere una
sorta di maschiaccio otto volte su dieci, ma è una delle altre persone che amo
di più al mondo, esattamente così com’è. I nostri litigi e prese in giro
sono solo parte del nostro carattere. Difficilmente mi
vedrei stare lì ad abbracciarla ogni tre secondi, con la bocca sempre piena di
complimenti. No. Il bello sta nel prenderci in giro, offenderci e via di
seguito. Almeno la maggior parte delle volte. Paradossalmente abbiamo la
capacità di essere sempre lì per l’altro nei momenti “seri”. La adoro anche per
questo.
Terzo scatolone. Qui le cose si complicano. Essendo
l’ultimo della fila e quello in cima a tutti gli altri, è ricoperto di polvere.
Non so di quanti anni onestamente, può essere che siano stati spostati nel
corso del tempo, ma lo strato grigiastro è compatto. Non riesco a leggere il
proprietario dei giocattoli. Passo allora una mano sulla superficie e vedo
spuntare di nuovo la silhouette schizzata di Hannah.
Classico… borbotto tra me e me. Il sospetto che avesse il doppio dei miei giocattoli, è così confermato. In
fondo era l’unica bambina in casa, è normale che
venisse un po’ considerata la principessa e via di seguito. Dunque Hannah batte Elijah… Che ne è dei giochi di Zach, invece? Ricordo come ci avesse preso in giro, dall’alto dei suoi dodici
anni. “Io non ho più bisogno dei giocattoli”, mi riecheggia nella
memoria la sua voce da bambino e l’espressione da grande che aveva
raffigurata sul volto. Ed effettivamente, buona parte dei suoi giochi erano passati a me e non giocava più con i robot o le
macchinine da un pezzo.
Interrompo il flusso di pensiero e mi guardo in giro,
in cerca di un qualche paio di forbici o magari un coltello, per incidere il
nastro isolante e vedere così quali… uh… tesori sono nascosti in quelle
scatole.
Mi dirigo verso il ripiano di cemento sul quale
abbondano cacciaviti, bulloni e quant’altro, un mini-ferramenta insomma. Frugando un po’ tra gli oggetti,
scorgo una specie di taglierino e afferratolo mi riavvicino alle scatole. Il
materiale plastico emette una sorta di scricchiolio, mentre la lama vi penetra
incidendolo con precisione. Ci siamo.
Avverto una specie di tensione sconosciuta.
Un’emozione fortissima che se ne parlassi in giro di
sicuro verrei preso per il culo a vita. Tipo da Sean, Dom e Billy
che appenderebbero dei manifesti. “Quando
crescerai, Lij man?”. Prevedo già un tipo di commento
del genere...
Forse hanno ragione, ma
accidenti che male c’è?
Dunque dunque…
Mi riproietto davvero nel
passato, al punto da risentire l’odore dei fiori in giardino sotto il caldo
inclemente del sole estivo e il ronzare di calabroni ed api isteriche intorno
ai roseti. Incredibile come dei piccoli dettagli aprano poi
un mondo. Ne aveva parlato Proust
a suo tempo e sebbene qui non si tratti di un biscotto, direi che l’effetto è
lo stesso. Sottolineo che Letteratura è sempre stata
la mia materia preferita a scuola, da qui la mia erudizione, d’accordo?
Guardo con un misto di orgoglio
e nostalgia la statuina in miniatura di Luke Skywalker, celeberrimo capitano dell’Enterprise
di quel film culto che è Star Wars. La mia prima vera passione cinematografica e i primi modellini di
una collezione che tuttora ingrandisco ed arricchisco, se ne ho l’occasione.
In effetti sono un patito per queste cose. Lo
testimonia anche la stessa collezione del genere su tutto quello che merchandising de “Il Signore degli Anelli”.
Dio… che ossessionato… magari perdente ed
assolutamente idiota.
Geek è il termine adatto.
Sono il re in assoluto e tutto ciò che è geeky ben mi si addice.
Sorrido di fronte quell’omino
dipinto e perfettamente conservato intatto nonostante il tempo. Continuo
nell’esplorazione e m’imbatto in alcuni album di figurine completi. Ovviamente
quello di Star Wars spicca sugli altri, ma ce n’è
diversi, a testimonianza di quali fossero i cartoni
animati o gli eroi dei ragazzini come me negli anni ’80. Ricordo
perfettamente le gare che si facevano a scuola. Le confabulazioni
durante gli intervalli, la ricerca della figurina mancante per la quale si
sarebbe venduto tranquillamente il proprio pranzo, il visionare forsennato dei
pacchi di doppioni degli amici, così pieni di promesse
agli inizi e così insignificanti alla fine se non possedevano la figurina tanto
ambita.
Wow… se non era divertimento quello… trovo anche
robot, modellini di automobili, un Monopoli
appartenente alla preistoria, con i dollari ormai ingialliti dal tempo, più o
meno come il televisore che ho in camera da letto, ma fa tutto parte di quel
periodo che credevo di aver rimosso e che invece adesso riesco ad inquadrare
meglio per via di particolari che tornano alla luce.
C’è anche un pallone da basket.
Un attimo… c’è ancora il canestro appeso di fuori?
Onestamente non ci ho fatto caso, ma Zach era sempre ad allenarsi o giocare con i suoi amici. A
me sembra di ricordare che fosse pesantissimo per me
quel pallone. Rimbalzava da solo, d’accordo, ma non era certo uno di quelli
leggerissimi con cui si gioca a pallavolo d’estate al
mare. Anzi, una volta me lo sono proprio beccato in faccia per via di uno
strano rimbalzo sul ferro del canestro.
Era stato Tim a tirare dalla
zona dei tre punti, ma il lancio non aveva centrato il canestro. Proprio no. La mia faccia doveva essergli sembrata più appetibile
per qualche strano motivo. Un male cane, le lacrime brucianti e spontanee che
mi erano scese dagli occhi, per via della sorpresa e
del dolore, il rossore sulla pelle pulsante del viso. Ero seduto a terra, un
noiosissimo libro delle vacanze sulle ginocchia e, anziché studiare in casa,
avevo preferito il giardino sul retro, l’ombra del castagno e i commenti,
infarciti di slang che faceva tendenza all’epoca, di mio fratello e del suo
gruppo di amici che si dedicavano alla solita
partitella pomeridiana. Ho avuto un livido sul volto per un
bel po’, ma almeno nessuno mi ha preso in giro. La mia espressione
sofferente deve avergli dovuto suggerire un qualche
atteggiamento di cameratismo nei miei confronti. Non ricordo perché sia stata
messa tra le mie cose questa palla, ma va bene così.
La afferro saggiandone la superficie rugosa sotto i
polpastrelli. È arancione scuro e divisa idealmente in spicchi per via del
disegno che riporta. Un orgoglioso stemma dei Lakers.
Ancora leggibile. Una specie di segno del destino, visto il
nostro trasferimento proprio a Los Angeles.
Prendo a farla rimbalzare. Perfetta. Non va nemmeno
gonfiata e se di fuori c’è ancora il canestro, oppure lo trovo in giro, di
sicuro faccio due tiri. Zach mi ha insegnato in
California, quando ero diventato un po’ più robusto dello scricciolo che ha
fatto il suo debutto nel video dell’icona trash/punk
degli anni ’80, voglio dire, la geniale Paula Abdul.
Che volete… si deve pur iniziare da qualche
parte…
Curioso poi, non posso fare a meno
di aprire le scatole di Hannah. Mi trovo di fronte
un’infinità di bambolotti e peluche che probabilmente non amava più, altrimenti
sarebbe stato impossibile farglieli abbandonare. Sono
perfettamente imballanti nel cellophane e nessun insetto sembra averli
danneggiati. Chissà che faccia farebbe rivedendoli adesso…
Mi sa che ho preso una mezza decisione, anzi direi
proprio di sì…
Cerco in giro dell’altro nastro isolante e risigillo i cartoni, portando fuori con me solo la figura
in miniatura di Skywalker – Hamill,
la mia supposta minaccia cinematografica e, facendo rigirare la palla tra le
mani, esco in cortile. Gli occhi mi vanno sul muro del garage, sopra la porta.
È lì che era il canestro. Era appunto. La sua presenza però è testimoniata da
una specie di sagoma triangolare, sulla parete altrimenti tinteggiata di
bianco, laddove un tempo poggiava la base del
tabellone. Anche i due fori che indicavano la posizione
degli stop che lo sorreggevano sono visibili.
È stato tolto, quindi. Calcolando che il dinosauro e i
nostri giocattoli sono ancora qui, non vedo il perchè debba
dubitare di trovare il canestro conservato ancora in qualche angolo. Con questa
convinzione mi dico che potrebbe essere in soffitta,
visto che nel ripostiglio non l’ho visto. Prima di rientrare in casa però,
prendo a palleggiare un pochino e poi provo a fare un tiro, concentrandomi su
un ideale obiettivo. Leggera flessione delle gambe, braccio
piegato in direzione, polso che carica, lancio che parte e traiettoria
parabolica che colpisce in pieno il triangolo dai bordi nerastri sfumati,
dipinto sul muro dall’azione perenne del tempo. Non so se avrei fatto canestro, ma c’ero quasi. Magari avrei preso il
ferro e la palla sarebbe rimbalzata in faccia a mio padre, sbucato
improvvisamente dall’angolo della casa in un fortuito quanto appropriato… uh…
intervento divino.
Scuotendo l’idea al pensiero, continuo a seguire la
traiettoria della sfera che sbatte contro uno dei
roseti del giardino. Non posso fare a meno di stringermi nelle spalle e
contrarre il volto nell’espressione tipica di chi è nei guai. “Cazzo…”. Aspetto quasi l’usuale: “Accidenti, Lij! Zach! Piantatela di
prendervela con i miei fiori!”, esasperato e puntuale come un orologio svizzero
di Debbie. Mia madre.
Beh, nessuno mi rimprovera questa volta, ma il reagire
da moccioso colto in flagrante è duro a morire. Fortunatamente le rose non sono
ancora fiorite, sicché quelle che hanno avuto la peggio sono state le foglie
appena nate e magari qualche spina. Recupero la palla,
notando che il roseto sembra ancora in piedi e che, da un lato, la superficie
marrone/arancione si è graffiata appunto contro qualche spino.
“Zach mi ammazza…”, è il mio
primo pensiero. Anzi no, mi correggo. Zach mi ammazzerebbe se fosse qui,
ma non c’è, quindi me la scampo. Pensiero decisamente
più gradito.
Volete dunque sapere il perchè questi cimeli del
passato si sono conservati intatti?
Presto detto a questo punto. Perché
nessun rompicoglioni li ha disturbati o bistrattati
per quindici anni. E non mi sembra poco. Con
cinque minuti ho fatto un disastro. Figurarsi se fossi stato
anche con Han e Zach.
Poggio il pallone sulla poltrona vicino la porta sul
retro ed entro in casa. Direzione soffitta dunque. Prima però mi fermo in
camera e poggio la statuina sul letto. Un tempo era su una delle mensole
accanto a Leia Organa e
agli altri personaggi. Proprio lì, e sotto di loro un poster
gigante di Patrick Ewing,
cestista mito di quegli anni per Zach.
Salgo la breve rampata di scale che conduce in
mansarda. Sebbene non sia mai stata sistemata a dovere e si sia
appunto trasformata in soffitta-ripostiglio, un luogo dove conservare
gli abiti per i cambi di stagione e cose simili insomma, non ha comunque
l’aspetto tipico della stanza cupa, tutta ragnatele e polvere soffocante. La
luce funziona perfettamente e tutto è disposto con una certa cura. Credo che
anche questo sia opera di Claire. Di sicuro ci è passata, magari qualche mese fa, ma c’è passata.
Ecco il canestro.
Mi avvicino toccandolo quasi con riverenza.
Accidenti, credevo di essere
molto meno legato a questi oggetti o ai ricordi che fanno riemergere in
superficie. Non me lo sarei mai aspettato, eppure vedendo la base metallica con
il simbolo appunto dei Lakers in giallo e viola, mi
torna in mente il giorno nel quale Zach era rientrato con papà, un sorriso entusiasta sul volto,
questo canestro qui in mano e il casino per montarlo, nel nostro caos
caratteristico.
Poi ancora, forse un paio di anni
dopo, quando non era più nuovissimo, rivedo Zach in
cortile che lo aveva staccato e lo osservava, intento ad avvitare i bulloni che
sostenevano il cesto. Lo aveva anche ridipinto e il giallo era così forte da dare agli occhi. Aveva giocherellato con il cacciavite e,
utilizzandolo come fosse stato un pennarello, aveva scritto il suo nome in
stampatello, nell’angolino in alto. Io ero
inginocchiato davanti a lui e lo guardavo con la tipica ammirazione dei
fratelli minori. Mi ha porto il giravite, invitandomi così ad imitarlo.
Premetto che avevo cinque anni, ma andando all’asilo stavo
imparando a leggere e scrivere. Cose semplicissime e basilari. Tipo il mio
nome. Le guance però mi bruciavano, un po’ per l’emozione di imitare davvero mio
fratello, credo, un po’ perché ero effettivamente teso. Di solito scrivevo con
mia madre che mi ronzava intorno ed annuiva orgogliosa e con la sua tipica
spontaneità di fronte ai miei progressi.
Non mi sentivo teso con lei.
Con Zach era un po’ diverso.
Volevo renderlo orgoglioso di me. La mano mi tremava,
ma concentrandomi al massimo e sentendo il suo sguardo addosso
tutto il tempo, iniziai a delineare tre lettere, per poi tornarci di
nuovo sopra, e rendere l’incisione più netta.
Una volta terminato, sollevai il
volto tesissimo, sentendo il labbro inferiore tremarmi senza che potessi fare a
meno di evitarlo. Se Zach avesse detto anche una sola
parola negativa, per quanto scherzosa, sarei scoppiato
in lacrime penosamente e l’idea di essere un buono a nulla rispetto a lui, mi
avrebbe accompagnato per diverso tempo. Quello che vidi fu invece un sorriso,
credo di orgoglio, simile a quello con il quale
spessissime volte mi gratificava la mamma, se ce n’era motivo, e poi un: “E
bravo, Lij…”, allegro e con tanto di botta affettuosa
e rude, certamente, di mano sulla spalla. Cosa che mi riempì
d’orgoglio, sebbene l’emozione mi avesse effettivamente tagliato la lingua ed
impedito di replicare. Mi ero limitato ad osservare le nostre due firme,
l’una sopra all’altra, spiccare su quel mare di giallo che ancora odorava di
vernice fresca.
“Devo proprio trovarlo quel cane”, disse poi Zach, guardandomi serio in viso. L’espressione
interrogativa che misi su lo fece spiegare meglio,
mentre si metteva in piedi, con l’intenzione di riappendere il canestro. “Il
cane che ha spaventato il gatto, che ti ha mangiato la lingua”, cantilenò con
una smorfia da idiota sul volto, che mi fece scoppiare a ridere spontaneamente,
dimenticando un po’ la tensione del momento e ritrovare le parole.
“Sei uno scemo, Zach”.
“E tu un nano”.
Colpito e affondato.
Già da piccolo. Ma non è un
male. Se già in famiglia evidenziano i tuoi difetti,
quando sarà il mondo all’esterno a palesarli, anche nei modi più offensivi,
potrai dire di essere preparato. Non che sia mai stato preso in giro
pesantemente per la mia altezza, ma non ho mai frequentato normalmente l’High School. Dopo
I ragazzini sono di una perfidia unica
quando decidono di rendere un malcapitato il loro zimbello preferito. Ma Zach lo faceva senza astio
come, in effetti, me lo testimoniarono dopo, il suo sorriso da canaglia e la
mano a scompigliarmi i capelli con affetto.
“Allora Lij, che te ne
sembra?”, chiese riferendosi al canestro. Adesso come adesso avrei risposto:
“Pacchiano e kitsch, in un certo senso”. Insomma, quei due colori insieme erano
quantomeno vistosi, ma allora me la cavai con un: “E’
perfetto. Un giorno mi insegnerai a giocare, vero Zach?”, sentendo l’emozione e l’aspettativa tornare.
La prima, per il fatto di essere interpellato da
quello che per me era, ed è ancora oggi, sotto tanti punti di vista, un mito.
Con i loro anni in più, Zach e il gruppo di amici che gironzolava per casa, tra feste e compleanni
vari, i discorsi sulle ragazze e tutto il resto erano una sorta di icona, dal
basso dei miei scarsi cinque anni e della mia altezza ovviamente.
La seconda, perché mi piaceva giocare con lui e la
pallacanestro mi sembrava divertente. Vedevo le partite in tv e avevamo un
videogioco nel quale ero bravino. Non avevo ancora
preso la pallonata in faccia, comunque…
“Certo, Lij man! Contaci”, era stata la risposta spontanea di lui, passandomi
una mano dietro la spalla e stringendomela incoraggiante. “Quando
saremo sicuri che il pallone non ti schiacci, giocheremo insieme”. Era un po’
una presa in giro, ma nascondeva un fondo di verità della quale non pensai
nemmeno un attimo di dubitare. Ed avevo, infatti,
ragione. Lo spavento che Zach prese il pomeriggio del
tiro sulla mia povera faccia, era veritiero. Credo avesse ricordato le prese
per il culo varie che
vertevano sul peso della palla e sulla fragilità del mio fisico, ancora più che
esile.
È accedendomi una sigaretta
che prendo in mano il canestro e senza propriamente pensarci su, passo la punta
delle dita sui solchi ormai arrugginiti che ancora spiccano sul giallo, qua e
là macchiato dalla ruggine del tempo. I nostri nomi sono ancora qui.
ZACH, sopra.
LIJ, sotto.
Scendo le scale con in mano
il... tesoro… deformazione professionale
immagino, pensando a Gollum… ed è uscendo sul retro
che vedo mio padre rientrare con l’auto e parcheggiarla nella rimessa. La
portiera sbatte chiudendosi e Warren si avvicina con
una busta in mano.
Rimango impassibile sotto il suo sguardo semi
indagatore e poi mi sorride, come se l’immagine di me con la sigaretta praticamente per metà andata a puttane, visto che non l’ho
più tirata, quel canestro in mano e la maglietta di cotone bianca un po’ sporca
qua e là per via delle visite nei ripostigli vari, sia divertente.
“Lo hai trovato”, mi dice a mo’ di saluto.
“Mi va di fare due tiri”.
“Dovrai rimontarlo”.
“Direi di sì” e così getto la cicca ormai quasi sul
punto di ustionarmi le dita per terra, la spengo e raccolgo per buttarla nella
pattumiera, a due metri da dove mi trovo.
Inizio a trafficare cercando una scala e suppongo, un
trapano e delle viti per fissarlo. Non mi accorgo che mio padre è nel frattempo
entrato in casa e riuscito. “Ti do una mano”, sobbalzo, quasi sentendolo
parlare. Non so se dirgli sì o no, ma evidentemente scambia il mio silenzio per
un assenso e, miracolosamente, gli attrezzi che cercavo saltano fuori. Lo vedo
trotterellare quindi in cortile, posizionare la scala
e chiamarmi. “Dov’è il canestro, Elijah?”.
Lo raggiungo allora, porgendogli l’oggetto in
questione e lo vedo sistemarlo in due nanosecondi. Quel
trapano senza fili e più che efficiente e lui evidentemente abituato a questo
tipo di lavoretti. “Che te ne sembra?”, mi
chiede, quando il rumore infernale è messo a tacere.
“Sta bene”, annuisco. Effettivamente è così. E’ quello
il suo posto.
Prendo allora la sfera ed inizio a palleggiare, gambe
che molleggiano e poi prendo la mira per il primo tiro. Non va lontanissimo
dall’obbiettivo, recupero la palla e ritento, ci siamo quasi, terzo tentativo, ok canestro. Scopro stranamente che mi andava di muovere un
po’ il sedere, dopo quattro giorni di ibernazione
mentale e fisica. Provo da tre, e la infilo, mio padre recupera il rimbalzo e
mi rilancia la palla. Non mi sono accorto di avere uno spettatore. Provo
ancora, da due e ancora canestro e di nuovo rimbalzo per mio padre. È così che
quasi casualmente si unisce al gioco ed iniziamo a portare avanti una
partitella, in una scena piuttosto classica, per una famiglia americana classica.
Ovvero quella che noi non siamo mai stati.
Ma lascio da parte i se e i ma, divertendomi a giocare. Le regole sono tacite ed universali, non c’è bisogno di ripeterle.
Stiamo portando avanti un uno contro uno, seguendo una
versione casalinga dello street-basketball, così tanto in voga ultimamente.
Mi padre non è male, tutto sommato.
Io non sono Michael Jordan,
ma sono agile proprio per via di quell’altezza che mi
manca, e bravo da tre. Una specie di John Stockton, viva la modestia, insomma. So solo che quando
arriviamo a 100 è ormai quasi notte e solo il fatto che siamo in movimento, ci impedisce di congelarci. La temperatura è rigida e c’è
anche una specie di nebbiolina tutt’intorno, specie
sull’erba del prato che traspira copiosamente, creando quella coltre
lattiginosa.
Lo batto 100 – 97.
Un buon risultato, che la dice lunga però sul fatto
che ce la siamo battuta davvero. Wow, scarica di adrenalina
più che positiva e un po’ dell’umore nero mandato a farsi fottere.
“Bella partita!”, si congratula mio padre, dandomi una
pacca sulle spalle, in maniera…uh… paterna, appunto. È uno strano groviglio
quello che mi stringe le viscere, ma non toglie il fiato in negativo. È come
quel giorno con Zach. La soddisfazione di averlo
sorpreso positivamente, se non reso orgoglioso. “Ho avuto il maestro migliore”,
annuisco sorridendo e rientrando in casa dopo di lui.
“Lo vedo”, argomenta ancora, versandosi un bicchiere
d’acqua e chiedendomi con lo sguardo se ne voglio anch’io.
In effetti, sto morendo di sete e sento già il sudore
gelarsi addosso, per quanto i locali siano ben
riscaldati.
“Zach è stato un buon
maestro, ma anche tu un buon allievo, direi”, mi dice
con uno di quei mezzi complimenti dei suoi, porgendomi un bicchiere colmo.
Cerco di evitare che la mano mi tremi, facendo
sfracellare il vetro in mille pezzi sul pavimento e sollevo lo sguardo in sua
direzione, cercando una sincerità che leggo schietta nei suoi occhi. Sorrido
così di nuovo, non apertamente come prima, ma sento che il clima miracolosamente
complice, o almeno quasi tale, rimane immutato.
“Converrà farci una doccia subito”, osserva
lui pratico, riponendo la bottiglia in frigo.
“Prima tu”, dico mettendo il bicchiere nel lavello.
“Non c’è problema”, nega. “Anche
il bagno nel sottoscala è funzionante”.
“Va bene”, dico allora. Effettivamente avevo dato per
scontato che non funzionasse.
“Sali tu”, mi invita,
lasciandomi così il bagno di sopra. Sarei lì lì per
replicare il contrario, quando mi dico che sarebbe da
idioti litigare sul bagno, per un eccesso di cavalleria. Un bagno è un bagno. La dimensione della doccia è identica e l’acqua calda
da ambo le parti. A che serve accapigliarsi per cedere
un posto che poi di fatto migliore dell’altro non è?
L’acqua bollente è una manna dal cielo.
Rimango sotto il getto a lungo, sentendo i muscoli rispondere arrendevoli e non
ancora atrofizzati per via dell’acido lattico ristagnante che domani mi farà
camminare piegato in due. Nessun dubbio al riguardo. Faccio sport più per
divertimento che per passione o in maniera costante e di solito rollerblading. Qui ho utilizzato una serie di muscoli
diversi invece, che di solito rimangono a sonnecchiare. Avrò
le braccia a pezzi, rimugino asciugandomi.
La sorpresa però maggiore l’ha riservata la serata, quando
mio padre mi ha detto che aveva tolto il canestro per
evitare così che la pioggia finisse col distruggerlo e che non aveva mai
pensato di buttarlo. È stata la conferma di quello che immaginavo, ho annuito,
mandando giù una cucchiaiata di gelato. Abbiamo praticamente
cenato solo con questo. Ho afferrato allora che era uscito a comprarne appositamente, e ci siamo ritrovati un po’ come due scapoli
senza guida femminile che vivono di un regime alimentare tutt’altro
che sano. L’Häagen-Dazs al caffè
è uno dei migliori. Non so come sia possibile che abbia scelto proprio questo,
ma forse non è stata una decisione difficilissima, se ha cercato di indovinare
i miei gusti. Sono un caffeinomane
convinto, quindi l’associazione è logica per un buon 90%.
Volpe che sono…
Come ti spieghi allora i
successivi quattro giorni di clima tornato nel semimutismo, freddezza,
distacco?
Al diavolo!
Io non sono
un ragazzino idiota, poteva affrancarselo lo sforzo di giocare con me e
comprarmi il gelato. Non ho più due anni, non ho
bisogno di essere viziato per un paio d’ore e poi rimesso nel dimenticatoio. Perché accidenti quel pomeriggio e quella sera sono sembrati
così stramaledettamente perfetti, come avrei detto all’età di cinque anni,
abbagliato più dall’aspetto delle cose, che dalla sostanza intrinseca?
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Scusate se non riesco a postare regolarmente a
distanza di pochi giorni
=(
So quanto sia noioso
aspettare i capitoli nuovi di una storia che si sta seguendo.
Ad ogni modo, questa era la quinta parte. Ce ne
sono ancora quattro da postare, per un totale di nove.
Come sempre un ringraziamento a Sonya, Sheila, Elentari,
Olivia, Raina, Laila e Fefe90 (sono lieta che tu stia leggendo questa ficcy
nonostante ti piacciano altri attori^^).
A dire il vero la mia passione / ossessione per Elijah è piuttosto scemata negli ultimi mesi (voglio dire
lo apprezzo ancora come attore, ma non ho più degli attacchi
quando lo vedo LOL) quindi non saprei se adesso come adesso scriverei
ancora una ficcy su di lui, ma avete ragione su un
punto, ad ogni modo. Neanche allora avrei potuto scrivere una ff con una protagonista femminile (sicura mia
auto-proiezione per quanto inconscia tra l’altro) a rubargli la scena. Ho
dovuto obbligatoriamente creare un nuovo plot, e mi fa piacere che lo stiate apprezzando. Temevo esattamente il contrario, LOL ;)
A presto!
Neeva