Storie originali > Avventura
Segui la storia  |       
Autore: cabol    25/05/2010    1 recensioni
Una locanda di un piccolo borgo isolato da una tormenta di neve diventa teatro di misteriosi fatti di sangue.
«Cosa cambia? Innocenti o colpevoli. Io non credo che volessero davvero uccidere. E poi, chi è davvero innocente, a questo mondo? Che differenza c’è fra un morto assassinato e uno giustiziato? Il primo muore nascosto, il secondo offre un edificante spettacolo alla popolazione. E quanti sghignazzano, davanti a quell’agonia! Chissà se a loro interessa se si tratta di un colpevole o un innocente… forse gli basta soddisfare la propria sete di sangue. Ma un morto è sempre un morto. No, amico mio. Uccidere mi fa orrore. Fare uccidere, altrettanto».
Un'avventura fantasy secondo i canoni del mistery.
Mille e mille sono le leggende che i bardi raccontano, sull’isola di Ainamar. Innumerevoli gli eroi, carichi della gloria di imprese epiche. Eppure, in molti cantano anche le imprese di un personaggio insolito, che mosse guerra al suo mondo per amore di giustizia.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'I misteri di Ainamar'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 4

Capitolo 4: Epilogo

La mesta serata volgeva al termine. L’odore delle vivande era ormai svanito da tempo, sostituito da quello acre del fuoco che continuava a scoppiettare allegramente, quasi irreale nell’atmosfera greve che permeava la sala della locanda. Le voci degli ospiti erano sommesse e la conversazione languiva nel disagio.

La figuretta affilata di Lilian Faulkner discese le scale lentamente, osservando la stanza con un curioso misto di apprensione ed eccitazione, con i grandi occhi che brillavano e le labbra sottili strette in un teso sorriso.

Monia la seguiva, decisamente a disagio, cercando di evitare gli sguardi degli ospiti mentre si muoveva agilmente fra i tavoli, diretta in cucina. Notò che il giovane lord era nuovamente seduto al tavolo, sicché suo padre avrebbe dovuto trovarsi dietro il bancone. Dal momento che non c’era, era verosimile che fosse affaccendato in cucina.

Quando la cameriera scomparve dietro la porta, Lilian si avvicinò al tavolo cercando di assumere l’aria più innocente del mondo.

«Lord Windström, avete chiarito tutto, vero?».

Il giovane la guardò con aria perplessa. Nei suoi occhi espressivi c'era, però, una luce divertita.

«A proposito di cosa, signorina?».

«Ma dell’omicidio! Voi sapete benissimo che quei due non hanno fatto altro che impadronirsi di un oggetto che ritenevano di valore».

«Davvero?». Adesso il giovane lord stava ascoltando con estrema attenzione e i suoi occhi erano fissi su miss Faulkner, intenti a studiarne ogni minimo particolare. Quello sguardo indagatore e vagamente preoccupato mise un certo disagio addosso alla ragazza.

«Ma certo». Monia uscì dalla cucina, lanciandole uno sguardo ammiccante. La giovane sorrise e proseguì a voce più alta, in modo che tutti potessero udire. «Noi sappiamo che il signor Pasterron è stato assassinato con un pugnale. Un pugnale dalla lama sottile e il manico d’avorio».

Molti volti, dai tavoli vicini, si rivolsero verso la ragazza. Il sorriso della biondissima miss Faulkner si allargò, nel veder sbucare il locandiere fuori dalla porta della cucina.

«Quel pugnale, è stato trovato. Non così le due balestre che hanno ucciso la pantera. Ma perché è stata ammazzata la pantera? Chiaramente, il signor Pasterron doveva averla liberata per difendersi da qualcuno che lo aveva aggredito».

«Lilian, ma sei impazzita? Stai dando spettacolo! È chiaro che quei due hanno aggredito il domatore e lui ha liberato la pantera». Il signor Faulkner era pallido d’indignazione.

«Signor padre, avreste ragione se il signor Pasterron fosse stato ucciso a colpi di balestra. Ma il domatore è stato pugnalato. Da qualcuno che sedeva a cassetta con lui». La fanciulla fece una pausa. Nella sala regnava il più profondo silenzio. I suoi grandi occhi esplorarono i volti intenti degli ascoltatori, poi riprese.

«Se gli aggressori fossero stati i due fratelli, inoltre, difficilmente avrebbero sottratto il collare alla pantera, dal momento che ne ignoravano il valore».

Messer Faulkner si agitò sulla sedia.

«Ancora questa storia? Che valore poteva avere il collare?».

«Nel collare era nascosto un gioiello. Quasi certamente il collare di fuoco, rubato a Elosbrand il giorno prima della partenza della compagnia della quale faceva parte il signor Pasterron».

«Ma non era stato Blackwind?». Il mercante era allibito.

«A questo punto penso di no. Evidentemente il nostro domatore aveva anche altri talenti inespressi».

«Ma allora avremmo dovuto trovare il gioiello in una delle stanze, invece non è stato trovato nulla». Quella figlia lo avrebbe portato alla pazzia. Messer Faulkner temette di svenire.

«Perché il gioiello era stato nascosto fuori di qui. In un posto dove difficilmente qualcuno lo sarebbe andato a cercare».

Il volto di lord Bailey si distese in un sorriso. I suoi occhi non si staccavano dalla ragazza. Miss Faulkner se ne accorse e ricambiò il sorriso. Evidentemente, il nobiluomo concordava con la sua ricostruzione.

«Ma questo è un problema di cui parleremo dopo. Volete darmi quel pugnale, Monia?». La locandiera si avvicinò alla ragazza e le porse un piccolo involto dal quale la ragazza estrasse un sottile stiletto.

«Questo, come vedete, è un oggetto molto particolare. Certamente di un discreto valore venale. Sufficiente ad attirare la curiosità e l’avidità di un taglialegna privo di fantasia, che l’ha trovato sulla neve, dopo aver visto il cadavere della pantera».

«Cosa?». Laurel guardò con aria sorpresa la ragazza.

«Signor Cannon, dove avete trovato questo stiletto?».

«Nella casa di Ross e Vernon, nascosto in una catasta di legna. Lord Windström mi aveva chiesto di cercare qualcosa del genere e, conoscendo quei due, non è stato difficile immaginare dov’era». Il locandiere sorrise alla figlia. Aveva avuto ragione a fidarsi di lei.

«Ecco perché uno di loro era uscito di soppiatto: per nascondere il pugnale che avevano trovato e che avrebbe potuto metterli in una posizione difficile. Posizione nella quale, però, si sono trovati lo stesso».

Ora Lilian si era alzata, consapevole che tutti gli sguardi erano fissi su di lei. Non sembrava trovarsi troppo a suo agio, in quella situazione, però si fece forza e continuò.

«Il signor Pasterron aveva un sistema per aprire la gabbia dalla cassetta del carrozzone, signor Jorgelin?».

Lo gnomo esitò, guardandosi nervosamente intorno. Poi annuì.

«C’era un pedale. Serviva in caso di incontri con malintenzionati». Guardò di sottecchi i suoi compagni, poi, lentamente, cominciò ad allontanarsi dal tavolo. La ragazza si rivolse nuovamente agli altri.

«E così fu questa mattina. Il signor Pasterron stava partendo col carrozzone quando fu fermato da qualcuno che lo minacciava. Accanto a lui era seduto qualcun altro».

Si avvicinò al tavolo degli artisti. Un'espressione decisa era comparsa sul suo volto. Non sorrideva più.

«Volete riconoscere il vostro pugnale, miss Miriam?».

«COSA?». La ballerina balzò in piedi, pallidissima. Il marito l'abbracciò, come per confortarla.

«Avete finto una tresca col signor Pasterron, in modo da attirarlo in una trappola. Avete finto di accettare di fuggire con lui ma avete organizzato l’agguato con vostro marito. Basterà controllare sul vostro carrozzone per trovare certamente le balestre. Quando il signor Pasterron si è reso conto dell’agguato, ha liberato la pantera. Ma voi l’avete pugnalato. E avete usato la sua balestra da mano per colpire la pantera e aiutare vostro marito».

«Ma questo è assurdo!». Il giovane acrobata balzò in piedi col viso distorto dall'ira. Lo gnomo si era lentamente portato verso il fondo della stanza, lontano dal tavolo.

«Non tanto, signor Barthington. Voi avete fatto il viaggio con il domatore, lo conoscevate bene e non lo sopportavate più. Solo voi potevate scoprire il suo furto e, allora, avete deciso di vendicarvi di lui… Oh, santi numi!».

Jeff Barthington aveva sguainato il pugnale e lo teneva minacciosamente puntato sul collo di Laurel che era impallidito vistosamente. Deckard si alzò in piedi. Cannon afferrò un bastone.

«Non provate ad avvicinarvi, o il ciccione crepa! Miriam, vai a prendere le nostre cose. Ce ne andiamo!». La ballerina prese un mantello e uscì fuori dalla locanda.

«Jeff… come puoi farmi questo?». La voce lamentosa di Laurel suonò flebile da dietro la lama del pugnale.

«Spiacente, Ollie. O il tuo collo o il mio. State lontani!».

Deckard guardò il suo amico che era rimasto seduto, con gli occhi puntati su Laurel. C’era un’espressione avvilita in quello sguardo. Il barbaro rimase perplesso. Difficilmente il giovane gentiluomo si faceva trovare impreparato ma, stavolta, sembrava decisamente che non avesse intenzione di reagire.

«Barthington, se lo tocchi sei un uomo morto».

«Barbaro, se ti avvicini, LUI è un uomo morto. Io non ho nulla da perdere. Lo capisci?».

Deckard tacque, guardandolo cupamente. L’acrobata sarebbe finito certamente impiccato se fosse stato catturato. Era evidente che un morto in più non avrebbe cambiato il suo destino. Laurel era davvero in pericolo. Guardò lord Bailey. Era sempre immobile, come una statua di cera, gli occhi che vagavano per la stanza, come in cerca di qualcosa, ma che si fermavano spesso sui due che, camminando all'indietro, stavano avvicinandosi alla porta.

«Signor Barthington, siete un vile!». La bionda signorina Faulkner era pallidissima e la sua voce era diventata glaciale.

«Signorina Faulkner, siete una stupida. Avete fatto questa bella sceneggiata dandomi il tempo di prendere le mie contromisure. Avete capito quasi tutto. Ma avete sottovalutato i vostri avversari».

«Jeff, possiamo andare». La chioma rossa balenò dietro la porta. Il giovane acrobata sorrise.

«Ora usciremo. E chiuderemo la porta. Se provate a seguirci. Ollie è morto. Non voglio vedere aprire la porta della locanda finché il villaggio sarà in vista». Sempre parlando, il giovane acrobata indietreggiò fino a varcare la soglia della locanda.

«Addio, signori!». La porta si chiuse sui volti lividi e corrucciati. Una risata echeggiò nell’oscurità della notte. Solo il fuoco continuava a farsi sentire, senza però riuscire a scacciare il gelo dalla sala.

«Cosa facciamo?». La voce di Cannon ruppe il silenzio.

«Temo che non si possa fare nulla, signor Cannon. Sono stata una stupida e ho lasciato loro una possibilità di beffarci». Le parole della ragazza uscirono lentamente, flebili e cariche di pianto.

«Non esagerate signorina. Siete stata davvero molto acuta, invece. Non c’è nulla di male in quel che avete fatto». Il giovane aristocratico si alzò e si avvicinò alla ragazza bionda.

«Milord, così sono scappati». Una lacrima si affacciò sugli occhi della giovane.

«Ebbene? Non ci sono stati altri morti, e non è poco, in questa situazione. Avvertiremo le guardie che daranno loro la caccia. Non andranno lontano». Le sorrideva con quegli occhi affascinanti. Miss Faulkner distolse lo sguardo.

«Avrei voluto essere io a catturarli». Sulle labbra serrate, però, era comparsa l’ombra di un sorriso.

«Li avete smascherati. Non è poco. Complimenti, signorina Faulkner. Non so quanti sceriffi avrebbero saputo fare di meglio». Il giovane si spostò per far posto al padre della ragazza che si era accostato con gli occhi lucidi.

«Sei stata... fenomenale, figlia mia. Scusa questo vecchio caprone che non si fidava di te». Messer Faulkner pose una mano sulla spalla della figlia e l'attirò verso di sé per abbracciarla.

«Oh, padre... sono felice di non avervi deluso». Miss Faulkner era decisamente commossa.

«Deluso? Sono orgoglioso di te, figlia mia!».

Lord Windström si allontanò silenziosamente dalla coppia abbracciata, fece un cenno di saluto al locandiere e uscì fuori, seguito da un Deckard semplicemente fuori di sé. La notte aveva inghiottito il carrozzone degli artisti, del quale non si udiva più neppure il rumore delle pesanti ruote. Il giovane aristocratico sorrise tristemente e alzò le spalle, voltandosi verso la piazza del paesello. Giunse a passi lenti accanto al pozzo e si sedette sul bordo di questo, in un punto dove qualcuno aveva rimosso la neve. Guardò l'amico, senza parlare.

Deckard si aggirava nella piazza come un leone in gabbia. Avrebbe voluto lanciarsi all’inseguimento dei fuggitivi ma le condizioni della pista erano ancora troppo brutte. I rischi di azzoppare un cavallo o finire in una scarpata erano ancora troppi. Vide il suo amico seduto sul bordo del pozzo e la sua espressione malinconica lo fece sbottare.

«Maledizione! Farsi giocare così fa veramente rabbia. Se non avessero avuto un ostaggio li avrei rincorsi. Che ne sarà di quel poveraccio?».

Il giovane lord alzò gli occhi verso di lui e sorrise senza allegria. Il suo sguardo tornò a scrutare nel vuoto, nella direzione presa dal carro dei fuggitivi.

«Immagino che starà facendosi grasse risate alle nostre spalle».

«COSA?». Il barbaro spalancò gli occhi e li fissò sul suo giovane amico. Si rese immediatamente conto che non stava scherzando.

«Laurel era il capo del gruppo, Deckard. Lui ha organizzato tutto. Compreso lo stratagemma che ha permesso loro di scappare. Dobbiamo riconoscere che è veramente un bravissimo attore».

«Tu lo sapevi». Era una constatazione.

«Naturalmente. L’ho capito quando ho compreso il significato della scomparsa del collare». Un lampo di vanità comparve negli occhi del giovane, subito cancellato da un'ondata di tristezza.

«Mi stai prendendo in giro?».

«Niente affatto. Era evidente che Laurel era sempre stato il capo riconosciuto di quel gruppetto di lestofanti. Pasterron ha pagato con la vita forse anche l'aver messo in discussione la sua autorità, anche se non credo che Laurel avesse voluto la sua morte. Aveva deciso di andarsene per conto proprio. Ma, probabilmente, quella era stata solo l'ultima di numerose ribellioni».

«Ma come hai fatto a capirlo?». Il barbaro era sinceramente stupito.

«C'erano due questioni critiche, Deckard. La prima era: cosa ci faceva la pantera fuori dalla gabbia? E la seconda era: perché è stato sottratto il collare. La risposta alla prima era ovvia, il domatore aveva liberato la pantera per difendersi. Ma da chi? Questo ci riporta al collare. L’unica ragione plausibile perché fosse stato sottratto era che doveva contenere qualcosa di prezioso, esattamente come la nostra miss Faulkner ha intuito. Quello che ha compreso troppo tardi è stato il ruolo di Jorg nella faccenda. E non ha capito che Laurel era stato la mente di tutto il complotto». Il giovane sospirò. «Ma, forse, è stato meglio così».

«Non ti seguo».

«Ti ricordi il misterioso furto? Una stanza con una finestra troppo piccola perché ci potesse passare un uomo. Un uomo. Ma uno gnomo è riuscito a passare di lì. Jorg ha commesso materialmente il furto, anche se il piano era quasi certamente di Barthington».

«Così anche lo gnomo… ed io che l’ho difeso!».

«Era uno schiavo, amico mio. Doveva fare quel che il suo padrone ordinava. In realtà, lui è la vera vittima di tutta questa faccenda».

«Perché?».

«Perché ha perso tutto. Il lavoro, le persone di cui si fidava, la sua adorata pantera. E rischia il capestro come gli altri, per quel furto».

«Forse hai ragione. Ma io non capisco ancora come hai ricostruito tutto».

«Pensaci, amico mio, chi poteva essere a conoscenza del contenuto del collare, oltre alla vittima? Ovviamente Jorg, che era al corrente del furto. Ma Jorg non poteva essere l'aggressore e non avrebbe mai ucciso la pantera, dal momento che poteva avvicinarcisi senza alcun timore. Allora doveva essere qualcun altro. Qualcuno che aveva raccolto una confidenza dello gnomo».

«Laurel?». Deckard cominciò a comprendere la verità.

«Certamente. Laurel godeva della fiducia e, forse, della riconoscenza di Jorg. Inoltre, quando Monia ha sentito Pasterron parlare con la misteriosa donna, lo ha sentito vantarsi di essere diventato ricco ma non di come lo fosse diventato. La donna, che ovviamente era Miriam, secondo Pasterron, era all'oscuro del furto. Dunque, l'informazione poteva provenire solo dallo gnomo. Immagino che Jorg, dopo l’ennesima umiliazione, abbia confidato il segreto a Laurel, durante il viaggio da Elosbrand a qui. E lui ne ha parlato con gli altri. Così, insieme a Miriam e Jeff hanno organizzato il colpo. Lei si è finta innamorata, lui si è finto geloso ed hanno atteso l’occasione giusta. Quando Pasterron, però, fece capire che voleva partire con la bella ballerina, non hanno potuto attendere. Sinceramente, immagino che non volessero ammazzarlo. Posso sbagliarmi ma credo che le cose siano precipitate quando Pasterron ha liberato la pantera. Jeff lo minacciava con la balestra e, forse, Miriam col pugnale. La rabbia per il tradimento lo ha sopraffatto e lui ha aperto la gabbia col pedale, senza che gli altri se ne accorgessero. Quando Kira si è presentata di fronte a Barthington, questi ha temuto per la propria vita e ha usato la balestra contro la belva. Un solo colpo non sarebbe bastato a ucciderla, sicché Miriam, disperata, ha colpito il domatore col pugnale, ha afferrato la sua balestra da mano, che Jorg ci ha detto era sempre nascosta sotto la cassetta, e ha tirato sulla pantera. La povera bestia si è fermata quel tanto da dare a Jeff il tempo di ricaricare e finirla. Se Pasterron non avesse scatenato Kira contro Jeff, probabilmente sarebbe ancora vivo. Costretto a dividere il bottino con gli altri, ma vivo».

Il barbaro si sedette accanto all'amico. La rabbia era ormai sfumata.

«Poveraccio. Credeva di essere un tipo in gamba e si è fatto infinocchiare così».

«Era vanitoso. Ma era anche uno che sfruttava gli altri per fare tutto. Il vero domatore era Jorg, me l'ha confidato lo stesso Laurel e non aveva alcun motivo di mentirmi a questo proposito».

Deckard si alzò nuovamente in piedi per porsi di fronte all'amico. Lord Bailey lo guardò negli occhi, leggendovi gli ultimi bagliori dell'ira.

«Ma perché non me l’hai detto prima? Avremmo mandato all'aria il bluff e li avremmo presi. Mi spieghi perché li hai lasciati fuggire?».

«Cosa avrei dovuto fare, secondo te?». Un sorriso stanco accompagnò le parole del giovane.

«Mi pare chiaro: smascherarli e fare in modo che venissero consegnati alla giustizia».

«E, magari, impiccati seduta stante al primo albero, vero?». La voce, generalmente allegra, del nobiluomo era permeata di rabbiosa tristezza.

«Se lo sarebbero meritato».

Lord Bailey si alzò in piedi e sollevò i suoi occhi profondi sul volto dell'amico.

«Hai mai visto un impiccato, Deckard?».

«Be’… no. Ho visto gente ammazzata in guerra e nell’arena dove combattevo anni fa… ma impiccati no».

«Io ho visto tutta la mia famiglia impiccata[1]. Mio padre, mia madre, mia sorella. I volti tumefatti negli spasimi dell’agonia, gli occhi fuori dalle orbite, la lingua vomitata fuori dalla bocca, urine e feci che colano lungo le gambe. Tutto ciò in nome della giustizia, Deckard. Eppure erano tutti innocenti. Vittime dei pregiudizi e delle calunnie».

«Ma quelli sono colpevoli». Il barbaro era sorpreso dalla passione che accompagnava le parole dell'amico.

«E io sono un ladro. Devo ricordartelo? Io sono Blackwind». Parlava sommessamente, quasi a se stesso, eppure Deckard si voltò a guardarsi intorno temendo che qualcuno potesse udire le parole del giovane. Erano soli, dunque si tranquillizzò.

«Va bene, ma questo che c’entra? Quelli sono tre assassini».

«Inoltre, consegnando loro, avrei messo sulla forca anche Jorg».

«Lui? Perché?».

«Perché la giustizia lo avrebbe ritenuto complice, quantomeno del furto. Figurati se si sarebbero preoccupati di distinguere la sua posizione! Un impiccato in più fa sempre bene alla giustizia». C'era un'amarezza insolita nella sua voce.

«Mi spieghi dove vuoi arrivare?».

«Cosa cambia? Innocenti o colpevoli. Io non credo che volessero davvero uccidere. E poi, chi è davvero innocente, a questo mondo? Che differenza c’è fra un morto assassinato e uno giustiziato? Il primo muore nascosto, il secondo offre un edificante spettacolo alla popolazione. E quanti sghignazzano, davanti a quell’agonia! Chissà se a loro interessa se si tratta di un colpevole o un innocente… forse gli basta soddisfare la propria sete di sangue. Ma un morto è sempre un morto. No, amico mio. Uccidere mi fa orrore. Fare uccidere, altrettanto».

«Ma è una questione di giustizia! Gli Dei…». Deckard si interruppe, guardando gli occhi lampeggianti del giovane.

«Gli Dei stanno lassù. Qui la giustizia la amministrano gli uomini. E gli uomini bramano il sangue».

«Ma questo è il mondo! Come puoi pretendere di cambiarlo?». Deckard si rese conto che sarebbe stata una discussione inutile. Il suo amico parlava sinceramente e lo conosceva troppo bene per sperare di spuntarla.

«Non m’illudo di cambiarlo. Ma non mi renderò complice di questo sistema che chiamano giustizia. Io sono un fuorilegge. Fuorilegge, capisci? Io rubo. Quelli che assicurano i fuorilegge alla giustizia stanno dall’altra parte della barricata. Loro sono le guardie. Io il ladro».

«Ma non sei un assassino».

L'ombra di un sorriso comparve negli occhi di Blackwind.

«No. Non lo sono. Ma c’è mancato poco che lo diventassi in nome della giustizia. Di una giustizia che è solo vendetta. Mi dispiace, Deckard. Credo di essere un giusto. Non sarò mai un giustiziere».

Ora Blackwind era nuovamente nascosto sotto le spoglie dell'elegante lord Bailey. I lampi nei suoi occhi si quietarono e la sua voce era nuovamente ferma e controllata.

«Io cerco di capirti. Mi fa solo rabbia che quei due siano scappati con il gioiello».

Un sorriso divertito irruppe negli occhi del giovane.

«Ti sbagli, amico mio. Il gioiello è qui».

«COSA?».

«Ma ti pare che li avrei lasciati scappare col bottino?». Ora sorrideva apertamente.

«Come hai fatto?». Il barbaro sprofondò nuovamente nella confusione.

«Facile, mentre stavate perquisendo le stanze, io sono uscito, l’ho recuperato e l’ho sostituito con un pezzo di catena».

«Ma dov’era? Com'è possibile che tu sapessi dove cercare?».

«Ho pensato cosa avrei fatto nei loro panni. Giustamente, l’hanno nascosto in un posto dove nessuno va, in questo periodo ma dove non c’è nulla di strano se qualcuno ci gira intorno. Nel pozzo, questo pozzo, in un sacchetto appeso a una corda. La gente di qui, in questa stagione, usa la neve per procurarsi l’acqua, che è meno faticoso e più rapido di andare al pozzo e manovrare una catena ghiacciata. D’altra parte, nessuno ci fa caso se qualcuno si appoggia al pozzo».

«E nessuno si era accorto della corda?».

«Chi se ne poteva accorgere?, era coperta dalla neve, come tutto il bordo. Bisognava andarla a cercare per trovarla. Era proprio qui, dove Miriam ha rimosso la neve per recuperare il bottino, dove ci siamo seduti».

«E tu sapevi che l’avresti trovata. E loro sono partiti a mani vuote». Ancora una volta, Deckard si limitò a constatare che il suo amico aveva interpretato nel modo più semplice e logico i pochi indizi a disposizione.

«Esattamente».

Rientrarono nella locanda, accolti dal tepore del fuoco. Il gelo della notte cominciò a sciogliersi anche dentro di loro. Erano stanchi per le emozioni della giornata. Si resero conto che anche gli altri dovevano essersi sentiti allo stesso modo ed erano andati a dormire. La grande sala era quasi deserta, ormai. Solo una piccola figura era ancora seduta davanti al camino. Non si voltò sentendoli entrare.

Lord Bailey si avvicinò al fuoco e si sedette accanto allo gnomo.

«Quanto costano certe vendette, vero, messer Jorg?».

Lo gnomo si voltò di scatto, fissando i suoi occhi velati di lacrime in quelli limpidi del giovane aristocratico. Un lampo di paura passò nel suo sguardo, seguito da una quieta rassegnazione.

«Lo… sapevate?». Chiese, con voce piatta.

«Chi altri avrebbe potuto informare Laurel del collare? D’altronde, mi sembrava impossibile che il signor Pasterron fosse stato capace di rubare da solo quel gioiello. Era racchiuso in una stanza con solo una piccolissima finestra. Troppo piccola per un uomo. Non per voi, però».

«Siete acuto, milord. Ora mi consegnerete alle guardie?». Non c'era più paura nella voce di Jorg. Solo rassegnazione.

«Non ho consegnato quei tre. Anche per non coinvolgere voi». La voce del gentiluomo era calma e gentile. Una carezza dopo tanti schiaffi.

«E allora?». Gli occhi scuri dello gnomo si fissarono in quelli del giovane che lo guardava sorridendo.

«Allora, siete libero. Vi è costata cara, questa libertà. Fatene buon uso».

Lo gnomo lo guardò con un’espressione piena d’incredulità. Poi le lacrime tornarono a sgorgare.

«Scusate… non è dignitoso… ma sono un semplice schiavo… perdonatemi milord».

«Non siete più uno schiavo. Kira non c’è più ma siete libero. Lei sarebbe contenta così». La voce del giovane accarezzò ancora la piccola creatura, addolcendo l'amarezza che Jorg sentiva dentro il cuore.

«Voi… oh, milord! Kira è stata l’unica amica da non so più quanto tempo… non avrei mai barattato la mia libertà con la sua vita. Preferivo essere uno schiavo… insieme a lei».

«Non possiamo cambiare quel che è accaduto, Jorg.». Da quanto tempo non era stato trattato da pari a pari da qualcuno? Laurel era gentile ma condiscendente, Miriam lo considerava buffo e lo trattava bene ma come avrebbe trattato un cagnolino. Per gli altri, lui era sempre e solo uno schiavo. Si sentì in dovere di scusarsi con quel gentiluomo che lo trattava con tanto rispetto.

«Non avrei mai immaginato…».

«Ne sono certo. Altrimenti non sarei qui. Volevate che qualcuno desse una lezione al vostro padrone e vi siete confidato con Laurel. Gli avete raccontato del furto e di dove fosse nascosto il gioiello. Lui vi promise di dargli una lezione. Non potevate immaginare che Miriam e Jeff lo avrebbero ucciso per impadronirsi del gioiello. Non credo volessero farlo ma la situazione è precipitata, anche per l'odio fra Jeff e William».

«Avevo promesso che avrei consegnato loro il gioiello, purché gli dessero una bella lezione. Mi hanno tradito». Non c'era rabbia nella sua voce. Solo una profonda tristezza.

«Forse. Forse sono stati trascinati dagli eventi. In ogni caso pensavano di essere al sicuro. Voi non avreste potuto denunciarli perché sarebbe saltata fuori la storia del furto. Rischiavate la forca, al pari loro».

«E ora? Che sarà di loro? E di me?».

«Di loro non c’interessa. Non credo andranno lontano. Quanto a voi, siete un domatore. Potete ricominciare daccapo. Tornate con me a Elosbrand. Sono certo di potervi garantire un ingaggio degno del vostro talento».

«Milord?». Lo gnomo si voltò verso il giovane, gli occhi pieni di stupore.

«Conosco molti che apprezzerebbero un domatore con le vostre qualità. E posso assicurarvi che nessuno oserà più trattarvi da schiavo».

«Ma io...».

«Andate a dormire, messer gnomo. Domattina dobbiamo partire presto. Sempreché accettiate la mia offerta, naturalmente». Il sorriso sincero del nobiluomo restituì un po' di serenità al piccolo domatore che sorrise e si congedò cerimoniosamente per sgattaiolare su per le scale e sparire nel corridoio.

«Gli hai dato più ancora della libertà. Ora ha una speranza». Deckard sorrise all'amico.

«Mi auguro che abbia più fortuna di quanta ne abbia avuta finora. Sono certo che ha le carte in regola per rifarsi una vita».

La mattina dopo, Deckard si alzò, come al solito, all'alba e guardò subito fuori dalla finestra. Il cielo era terso e non era più caduto un fiocco di neve dalla sera prima. Il viaggio poteva proseguire. Quell'altro dormiva beato, come al solito. Si lavò e uscì dalla stanza attirato dal profumo che arrivava dalla cucina. Giunto ai piedi delle scale, trovò Monia ad accoglierlo con un sorriso sfolgorante. Accanto a lei, a testa china, stavano i due fratelli, ancora malconci.

«Buongiorno messer Deckard! Volete fare colazione?».

«Volentieri, Monia». Uno dei due fratelli emise una specie di grugnito. Poi Ross si rivolse al barbaro.

«Vorremmo chiedere scusa... ci rendiamo conto che abbiamo fatto una figura da stupidi».

Deckard li guardò seriamente. Dovette sforzarsi, però, per trattenere un sorriso nel vedere i loro volti ancora tumefatti.

«Alla fine, credo che voi due siate fra quelli che ne escono meglio. Siate più prudenti in futuro, però. Avete rischiato la forca per un coltello da donna».

Rimasero a chiacchierare per circa un'ora, davanti alla ricca colazione. Alla fine, Deckard aveva riacquistato il buonumore. Così, accolse con un largo sorriso il suo elegantissimo amico che scese la scala chiacchierando fittamente con miss Faulkner e suo padre. Tutti fecero colazione con appetito, dimostrando che la disavventura del giorno precedente era stata quantomeno archiviata, se non sepolta del tutto. I Faulkner avevano deciso di fermarsi ancora qualche giorno alla locanda, in attesa di potersi aggregare a qualche altro gruppo di viaggiatori diretto a nord. Lord Windström e Deckard, invece, sarebbero ripartiti subito, accompagnati da un raggiante Jorg.

Al momento della partenza, i Cannon e i Faulkner accompagnarono alla stalla i due amici, salutandoli cordialmente. Il locandiere abbracciò vigorosamente il barbaro mentre Monia gli elargì uno schioccante bacio sulla guancia che lo fece diventare rosso come un pomodoro. Anche messer Faulkner strinse vigorosamente la mano di Deckard. Non ci si poteva attendere nulla di più ma, da uno così, quel gesto significava più di un fiume di scuse.

Miss Faulkner parve colpita dal vedere lo gnomo prepararsi a partire col gentiluomo. Si avvicinò a lord Bailey elargendogli uno dei suoi sorrisi più smaglianti. Una rarità sul volto severo di quella ragazza.

«Così gli avete proposto di tornare con voi e di trovargli un lavoro?».

Il gentiluomo le sorrise col suo solito fare affascinante.

«Lavorerà per me, finché non gli avrò trovato qualcosa di adatto al suo talento».

« Tutto sommato, sono contenta che sia finita così. Quel poverino, almeno, potrà avere un futuro sereno. Se solo l'avessi capito prima, mi sarei consigliata con voi. Siete un uomo estremamente generoso, milord. Spero di rincontrarvi al mio ritorno a Elosbrand». La ragazza arrossì.

«Ne sarò lietissimo, madamigella. Voi e vostro padre siete invitati a cena nel mio palazzo, al vostro ritorno. Ci conto».

Un altro sorriso illuminò il viso affilato della ragazza.

«Buon viaggio, milord».

«Grazie, Lilian. A presto».

Lord Bailey li guardò allontanarsi, sorridendo, poi rientrò nella stalla per sellare il suo cavallo. Il barbaro era lì che lo guardava sornione, con le mani sui fianchi.

«Siete un uomo estremamente generoso, milord! Ma lo sa che hai preso tu il gioiello?». Deckard era fra l’indignato e il divertito. «Un po’ d’oro in cambio di sette rubini che valgono ognuno tre volte tanto!».

«Quel gioiello non ha mercato, Deckard. Chiunque cercasse di venderlo rischierebbe la galera».

«E tu cosa vuoi farne, allora? Non hai paura di finire in prigione?».

«Ma io sono Blackwind. E posso fare quel che agli altri non riesce». Ora lord Bailey rideva allegramente.

«Ah sì? E come risolvi questo problema?».

«Ma è facile, amico mio. Lo restituisco al suo proprietario. Ovviamente, dietro il compenso che mi spetta per averlo ritrovato».

«Hai davvero una gran faccia tosta! Quindi scambieresti quel magnifico gioiello con del volgare denaro?».

«Quel gioiello non vale il sangue che è stato versato, Deckard. E poi ricorda i versi del grande bardo Faber: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».


[1] Cfr. il racconto “Il ladro e il gentiluomo”

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Avventura / Vai alla pagina dell'autore: cabol