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Autore: Joey Melian    25/05/2010    1 recensioni
Una piccola storia, riguardante uno dei miei attori preferiti. Un attore molto dotato, ma notato assai poco. Scritta in un momento di profonda depressione. Tutta vostra.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Billy Boyd
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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What a day to be alive.
What a day to realize I'm not dead.
What a day to save a dime.
What a day to die trying.
What a way to say goodbye.
What a wonderful life now all a lie.
What a way that you survive.
What a day to say good night.

La voce ovattata continuava a parlare al suo fianco.

Dominic doveva star esaurendo tutte le parole del suo stupido inglese di Manchester.

Ma Billy non lo ascoltò e fece un passo avanti: “Mi sei mancata, Jo”. Non vide la sua mano tremare, non vide la rabbia delle sue nocche bianche strette sul maniglione della porta, non ascoltò il suo respiro disturbato dall’ansia di fuggire via.

Non riuscì mai a comprendere pienamente perché avesse detto quelle parole. In quel momento avrebbe solo voluto che Dominic smettesse di parlare.

“Come fai a conoscerla?”, chiese Dominic.

“Era mia amica. Quando eravamo piccoli”, disse Billy e si accorse di avere il fiato corto come chi, in barba all’asma, si fuma un pacchetto di sigarette. Guardò l’amico. “E tu come la conosci?”, domandò. Ma senza sapere perché, già aveva in mente quale sarebbe stata la risposta.

“Hai presente la furia scatenata di cui ti parlavo prima?”, disse Dominic, assumendo di nuovo l’aria da uomo vissuto. “Era precisamente quella strana tipa che era qui prima”.

Rimasero in silenzio, mentre l’espressione di Dominic andava esaurendosi. “Piccolo il mondo”, disse l’inglese.

“Già. E’davvero piccolo”, rispose Billy tornando ad osservare la porta.

 

“Staremo insieme per sempre, non è vero Jo?”

“Il per sempre è lungo, Bill”.

“Lo so quant’è lungo, ma credo che con te potrebbe essere anche abbastanza breve”.

“Questa frase non ha senso, Bill”.

“Lo so, ma l’ho letta in qualche libro. E dopo i due facevano l’amore”.

“Ma che razza di libri leggi?”

“Era sul comodino di mia madre”.

“Sarà. Comunque di tempo per fare l’amore ce n’è anche troppo”.

“Il per sempre è lungo”.

“E’vero, Bill”.

 

Quando la pioggerella mattutina cessò di cadere dal cielo Johanne quasi si sorprese. Credeva che la pioggia potesse durare in eterno, piangendo per lei lacrime che i suoi occhi non riuscivano a far uscire. Sollevò la testa, osservando la cima dei palazzi che aveva attorno; e solo in quel momento si accorse di non aver mai osservato la città di giorno.

Trascorreva le mattinate nel letto della sua stanza d’albergo, o a fare sesso con qualche malcapitato notturno. Dormiva qualche ora ed usciva di nuovo quando ormai era buio, alla ricerca di qualcosa che potesse alleviarle il vuoto che sentiva nel petto.

Un vuoto a cui non pensava, a cui non voleva pensare.

Proprio quel vuoto che sembrava essersi riempito di nuovo di oscurità in quella grande stanza degli studios.

E ricordò il rumore del piatto che andava in frantumi e il sangue che le sgorgava dalla gamba che in quel momento non riusciva quasi a sentire più.

Non aveva fatto male, non allora.

Sembrò allora che il sangue che usciva a fiotti non fosse il suo, ma fosse come in uno di quei film che lei e Billy guardavano in tv nella casetta verde dove le piaceva tanto andare. Dove c’è il palloncino pieno di colore rosso che esplode quando il finto colpo di pistola colpisce la vittima. Era un ottimo trucco; Billy gliel’aveva insegnato e un giorno si erano così divertiti a fare uno scherzo alla sorella di Billy usando uno di quei palloncini.

Si era spaventata tanto.

Ma Johanne non si era spaventata nel vedere tutto quel sangue uscirle dalla ferita aperta sulla coscia. L’aveva spaventata molto di più sentire sua madre gridarle “PuttanaPsicopatica” mentre le lanciava ogni genere di cosa addosso. E tutto perché quella mattina aveva trovato qualche goccia di sangue nelle mutandine.

Stupida, stupida mamma.

Johanne aveva provato ad alzarsi, ma la gamba ferita cedette. E così si trascinò fuori dalla cucina, verso la porta nero chiaro che l’avrebbe portata all’esterno, dove sua madre non usciva mai.

Ma proprio mai.

E dove forse Billy l’avrebbe aspettata; quindi fu con poca sorpresa che lo vide correrle incontro, il volto pallido e sudato. Non si stupì quando Billy la prese in braccio e la portò lontana dalla porta da dove giungeva una voce rauca che gridava “SiPortalaViaQuellaPuttanaPsicopatica”.

Ma la gamba aveva iniziato a fare veramente male, così Johanne gridò.

 

“Ti porterò via di lì, Jo”.

“E come?”

“Non lo so ancora. Ma so che un giorno ti porterò via da quella casa blu”.

 

 “Ehi, Bill. Oggi il tuo aspetto è quasi peggiore del solito”, disse Elijah entrando sorridendo in una delle grandi roulotte allestite per il trucco.

“Lascialo stare”, disse Dominic, “oggi abbiamo scoperto di avere molto in comune”. Scoppiò a ridere.

Ma Billy non sentì quelle parole. A dire il vero non aveva sentito niente di niente per tutto il giorno, in cui era stato sballottato a destra e manca, legato sulle spalle di un tizio col costume che puzzava di polistirolo e cera per i pavimenti.

Non aveva sentito niente.

“Mi ha chiamato Ali, prima, dicendomi che è tutto il giorno che non ti fai vivo”, disse Dominic. “Le ho detto che non ti sentivi molto bene”, aggiunse in un sussurro, “ma io credo che dovresti dire alla tua fidanzata che cosa è successo oggi”.

“Non ho niente da dire alla mia fidanzata, Dom”, disse Billy distogliendo lo sguardo dalle protesi per i piedi che stava fissando da una buona mezz’ora.

Dom annuì. “Certo, amico”, disse.

E la sensazione fu chiara nella sua mente. Come era stata chiara il giorno del SiPortalaViaQuellaPuttanaPsicopatica. Quella sensazione profonda quanto la propria anima, che qualcosa si avvicinava.

Che lei si avvicinava.

Sentì la sua voce parlare con Peter Jackson. Ma la voce non arrivava da fuori il camper, ma dalla sua testa. Era come se lei fosse dentro la sua testa, insieme al regista che le chiedeva quante volte avesse letto il libro; e lei gli rispondeva che, si, l’aveva letto, ma una volta sola. Da piccola.

Quando era ancora troppo piccola perché un normale bambino potesse anche solo sperare di capirlo.

Ma lei si. Lei l’aveva capito.

Perché lei era diversa.

Lei era speciale.

Specialissima.

Billy scosse la testa, sperando che quelle voci sparissero, e la voce da cartone animato di Dominic gli inondò nuovamente le orecchie.

“Credo sia ora”, disse Sean interrompendo il monologo di Dominic senza mezzi termini. Osservava l’orologio, impaziente. “Si, è proprio ora”, aggiunse.

“Ehi, amico, calmati”, disse Elijah, “che il set non scappa via”.

Billy sollevò gli occhi quando Dominic gli prese un braccio per tirarlo su dalla sedia su cui ormai aveva deciso di mettere le proprie radici.

Era spaventato, Billy. Come lo può essere un bambino che si sente andare incontro ad un patibolo.

E infatti la vide, dritta in piedi accanto a Peter Jackson. Un fantasma pallido, coi capelli neri ora corti fino alle spalle e quegli occhi che sembravano scrutarti nella parte più profonda del tuo essere.

Ma i suoi occhi non sorridevano mai: erano imperturbabili ancor più del suo volto. Né tristi, né felici.

Era andata al suo albergo a cambiarsi, evidentemente. Portava dei leggins scuri, che mettevano in risalto le ginocchia nodose e una maglietta fin troppo grande per lei, a righe bianche e nere.

“La nostra amica”, disse Dominic al suo orecchio.

Ma Billy non lo ascoltava.

  
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