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Autore: Kokky    25/05/2010    3 recensioni
(A Liv-Liv)
SiriusHerm. Memorie sbiadite di un'anima già morta.
Aveva paura di essere inchiodato da due semplici parole, come se lei potesse leggerlo fin troppo a fondo, senza pudore, senza malizia, senza pietà per lui.
Genere: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hermione Granger, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Under your skin


La luce del mattino s’infiltrava dal vetro opaco e sporco della sua stanza. I raggi del sole tracciavano una linea calda sul pavimento e sul suo letto, svelando il pulviscolo di sogni infranti che riempiva l’aria.
Quella non era più la sua stanza, pur utilizzandola per dormire. Era quella di un adolescente voglioso di trasgressione, d’intransigenza verso le regole troppo strette del suo stesso mondo; era il ricordo di un se stesso lontano e passato, un’ombra offuscata dagli anni e dall’oscurità – era un cimelio di poster Babbani e di buffi tentativi di ribellione mancata.
Si svegliò con la luce, infastidito dal calore opprimente del sole, e si mosse annaspando, alla ricerca di un riparo. Si nascose sotto le lenzuola fresche, come un bimbo accoccolato nel proprio giaciglio, respirando a fatica; rantolando di una vecchiaia precoce.
Si sentiva uno scheletro che combatteva contro il vento, un vecchio dal volto di morto che preannunciava la sua dipartita – di cosa si nutriva, se non di orgoglioso passato? Gli erano rimasti soltanto i ricordi e non la vita – ma non osava pronunciare niente, se non le gesta eroiche che aveva compiuto; non aveva il coraggio, codardo, di proferire la propria morte.
Si nascose meglio, accucciandosi su se stesso, mentre la polvere copriva le lenzuola rendendole grigie.

Quando Harry non lo guardava – accadeva di notte o di mattina presto – Sirius diventava pallido e spesso si perdeva nella casa, vagando per le stanze ombrose. Diveniva tappezzeria, il padrone. Non notava più il rumore proveniente dall’esterno o l’eterno borbottare di Kreacher, quasi fosse troppo distante per poter prestare attenzione.
Fu di mattina che la incrociò.
Lei non riusciva più a dormire, forse per il caldo o per le letture che le rubavano l’anima da giovane, ancora fresca, ancora rosea; perciò aveva deciso di girare la casa.
Era troppo presto perché il sole illuminasse le stanze, che erano allora fatte di scure linee e angoli bui, e tutto appariva spaventoso, ma allettante al tempo stesso; come se non avesse una forma ben precisa, bensì una mutevole incertezza di fondo.
Hermione andava a piedi nudi sul pavimento ligneo, scrutando i lineamenti della casa; ed era notte, era ancora notte, ma non accese la luce. Non si aspettava d’incontrare qualcuno – c’era l’intimità propria delle ore notturne, quando tutti dormono e la casa ti appartiene, e i respiri di essa sono profondi e vicini, vicinissimi, a un soffio da te. Hermione camminava da sola, sicura di non essere scoperta: portava in seno l’euforia e la gioia della segretezza.
La casa era tutta sua.
E non di lui, il padrone dal sorriso stanco, che sembrava rianimarsi soltanto con Harry – a nessun’altro donava il proprio mondo – quel Sirius, un uomo troppo lontano da lei, bambina. Per questo Hermione andava sicura di sé, nel buio profondo di Grimmauld Place n° 12. Entrò nel salone con spavalderia, quasi, certa di poter posare le dita sugli antichi libri della famiglia Black, ma s’interruppe nel vedere un fantasma.
L’apparizione sedeva su una poltrona consunta e pareva non averla notata – trattenne il respiro, Hermione, sentendosi immediatamente una sciocca, un’infante; c’era qualcuno lì con lei e la casa era di nuovo sua... non c’era più spazio per lei.
La bimba, rossa in viso, stette ritta ed immobile a fissarlo. Non aveva il coraggio di muoversi e scappare via, per tornare nella sua camera divisa con Ginny e poi tuffarsi nel proprio letto, nascondendosi così sotto le lenzuola bianche.
Lui non la vedeva. Sirius non la guardava.
E la notte passò, mentre Hermione si sentiva pesante sui suoi piedi scalzi e lui rimaneva seduto e stanco; la notte passò e il suo andar via portò la luce del giorno. Allora Sirius alzò gli occhi grigi per la prima volta e la vide, la vide senza pudore, e tremò di fronte alla sua luce.
Hermione, con le mani congiunte in una stretta dolente, era illuminata dal sole mattutino e lo fissava senza poterlo scorgere: Sirius appariva in controluce, col volto scuro e inconoscibile; di lui si potevano intravedere soltanto i capelli neri macchiati di grigio – colore che la prigionia gli aveva reso.
«Che fai?», le domandò.
«Sto. Sto e ora vado via», borbottò Hermione, socchiudendo gli occhi bruni e riuscendo finalmente a sfuggire via. Sentiva la propria pelle scottare, quella pelle toccata dalla luce e dalla stoffa leggera della camicia da notte; era un minuscolo essere insignificante, per lui, una stupida scintilla di vita che non sapeva nemmeno brillare.

Si gettò sui libri, Hermione, perché le davano la certezza dell’immutabilità. I caratteri neri delle parole non cambiavano di posto né di significato, stavano lì, muti e incarcerati nella carta.
Si chinava fino a non comprendere le scritte troppo vicine, annusando l’odore di muffa e polvere che i tomi possedevano, antichi e giallognoli – avevano l’odore di tutta quella casa addosso, un aroma intenso che riempiva le narici di Hermione fino a farla starnutire.
I quindici anni sono l’età dell’innocenza perduta. Hermione non s’accontentava più delle fiabe o della morale a fine storia – non l’aveva mai fatto, d’altronde – e riusciva sempre meno a concentrarsi su ciò che lo scrittore cercava di dirle. Vagava con la mente, sfuggiva via a quelle parole immobili, anche se avrebbe voluto donarsi ad esse; andava oltre le pagine, senza riuscire a coglierne il senso.
Allora lanciava lontano il libro e si gettava sul letto, pensando a quanto fosse inutile nascondersi in una casa piena di gente, dove incontrarlo era quasi impossibile. Tanto sapeva che lui non c’era, almeno non per lei.

Era notte e la luna mancava.
Hermione guardava il cielo dalla finestra della sua camera, giocherellando con le dita. Premette l’indice sul davanzale pieno di polvere, tracciando un cuore bizzarro e un po’ troppo allungato. Poi lo cancellò con il palmo, ingrigendo la mano di pulviscolo e desideri mal celati.
Le stelle non illuminavano abbastanza la stanza e il volto d’Hermione, che stava inquieta, pronta a scappare via.
Era troppo giovane per aver conosciuto altro se non carta e parole di cui saziarsi: l’unico sentimento che aveva provato era quello del voler bene ai suoi, ad Harry e Ron, a Ginny. Non sarebbe dovuta esistere in lei l’immagine vetusta e stanca di un eroe ormai morto – un eroe romantico che aveva combattuto, ponendo se stesso come scudo fra il buio e la luce – e d’altra parte era inspiegabile come quella pallida ombra, quel ricordo lontano, la riempisse.
Si sentiva infantile nel non sapere cosa fare, nel seguirlo con lo sguardo – Sirius sapeva rendersi invisibile, ma non a lei, non ad Hermione che aveva occhi per guardare e un cuore per scovarlo.
Non sapeva cosa dirgli: era una sciocca bisbetica che taceva inutilmente, con orgoglio, o che, quando lui le domandava qualcosa, gli rispondeva con affrettata gioia.
Hermione scostò lo sguardo dalle stelle e si allontanò dal davanzale. Ginny dormiva silenziosamente nel suo letto, accoccolata come un gatto satollo di luce e di sole, quieto nel suo sonnecchiare intercalato da sogni piacevoli. La studiò con un sorriso, come se un anno ponesse la differenza tra lei e la Weasley.
Bastavano pochi giorni per renderti diversa – ma diversa come e in che senso? Non lo sapeva neanche lei.
Hermione avrebbe potuto rintracciare le risposte in qualche libro – c’era sempre un modo per trovare se stessi nelle parole di qualcun altro – eppure non riusciva a leggere, né a pensare o a ragionare.
Era l’istinto e fu l’istinto a condurla fuori dalla sua camera, un’altra volta.

C’era più silenzio del solito nel corridoio. Tutta la casa dormiva, anche le stanze infestate, o lo stesso Kreacher, che soleva gironzolare di notte per cercare cimeli della famiglia Black da conservare, e perfino Fierobecco e i mobili incantati che tentavano di morderti le dita.
Hermione non sentiva più l’intimità della volta precedente, era percorsa dai dubbi. L’avrebbe trovato? Chi, chi ci sarebbe stato nel salotto, un fantasma?
Aveva visto Sirius l’eroe e Sirius lo stanco, eppure voleva incontrarlo ancora, lui, soltanto lui, pur sapendo che l’avrebbe guardata con un sorriso canzonatorio e lei ne avrebbe provato fastidio. Disprezzo, quasi, di quella vecchiaia – e, d’altro canto, la voglia di conoscerlo, di toccare quelle rughe e quei capelli e di carpire quegli occhi grigi che le sfuggivano.
Era sempre lei, era Hermione la So-tutto-io. E quella era la sete di conoscenza che le vibrava nell’anima – ma non solo, si disse, non solo, Sirius non era un libro da cui succhiare la linfa e l’inchiostro e lei non era solamente la migliore studentessa del suo anno.
Era per questo che Sirius scappava da lei, stupido romantico dalle idee antiche: non voleva che quella ragazzina si struggesse per lui, o almeno così si diceva. Ma erano l’egoismo e la paura di perdere tutto che lo spingevano a nascondersi, e la stanchezza che lo rendeva invisibile. Aveva paura di essere inchiodato da due semplici parole, come se lei potesse leggerlo fin troppo a fondo, senza pudore, senza malizia, senza pietà per lui.
Hermione non lo trovò nel salotto. Salì le scale lentamente, attenta a non far scricchiolare il legno degli scalini, e si ritrovò sul suo pianerottolo.
Non aveva mai visto la sua stanza – lui non l’aveva mai invitata, né lei si era azzardata ad entrare senza permesso – e non ebbe il coraggio d’intrufolarsi. Lui dormiva, ne era certa; giaceva sotto le lenzuola fresche, lontano.
Hermione rabbrividì: l’aria notturna arrivava fredda sulla sua pelle, c’era uno spiffero da qualche parte, non sapeva dove, e l’ombra profonda della casa divenne improvvisamente opprimente. Fece un passo indietro e sbatté contro di lui.
Sirius, insonne, la osservò con quieta condiscendenza. Non le chiese perché era davanti alla sua porta e Hermione non disse nulla.
Non la sfiorò con le mani, ma con gli occhi – il buio non faceva vedere molto, ma Hermione cercò di scorgerlo lo stesso. Sirius era sempre oscuro, stavolta solo il suo sguardo brillava, il resto era una macchia informe.
Nemmeno lei era visibile.
«C’è fresco. È una casa vecchia e cadente, piena di spifferi», borbottò lui.
«È estate, va bene così», balbettò lei, scostandosi.
«Non- non sarà il massimo per Harry, ma la lascerò a lui», la buttò così l’uomo, alla leggera. Sirius appariva allegro, ma il suo tono di voce era sempre più stanco, rauco, ruvido. Con un po’ d’immaginazione, la sua voce sembrava un flebile sussurro giunto dall’oltretomba.
«Ah. Ah sì? Ne sarà contento, certamente. Harry ti adora», replicò Hermione – avrebbe voluto aggiungere molto altro, ma non riuscì a dirlo. Harry era sopra di loro, una presenza che riempiva il cuore di Sirius. Era il giovane figlio dei suoi amici defunti che sapeva idolatrarlo come lei non riusciva e che non chiedeva mai più del dovuto, non notava mai la stanchezza del padrino, perfetto e unico tramite per il suo passato. Non era scomodo, Harry.
«Lo spero», ribatté Sirius. Non disse «Hermione». Com’era intimo chiamare qualcuno per nome! Era per lui qualcosa in più, qualcosa di troppo.
Neanche lei pronunciò il suo, quando gli chiese, incerta: «Perché ne parli ora? Non è presto, pensarci?».
Non è presto discutere d’eredità? Hai trent’anni e qualcosa, c’è il futuro nella tua carne non incancrenita.
«Perché è notte e il sonno porta con sé rivelazioni strane. È meglio che tu vada a dormire, piccola», si protesse lui. L’aspettava un letto in cui morire – non poteva scorrazzare via come un cane né come un uomo, incarcerato in una casa che odiava; e lei, lei sapeva anche di più, sapeva che ciò l’avrebbe ucciso. Forse era già morto prima.
«Buonanotte, allora», disse Hermione rigidamente, scappando via.
Lui non la vide nella notte, non la vide andarsene; eppure gli mancò.

«Grattastinchi?», chiamò Hermione, muovendosi rapidamente per il corridoio grigio.
I suoi capelli illuminati dal sole avevano delle sfumature bionde che si riflessero su di uno specchio insieme alla sua immagine: appariva spaurita e piccola, senza alcun motivo per esserlo; quasi tremula, come se non ci fosse davvero e fosse un semplice riverbero. Hermione si guardò distrattamente nel vetro appeso alla parete e continuò a camminare, incurante.
Aveva visto la rossa fiamma del suo gatto scappare via su per le scale e la rincorse. Aveva voglia di cingerlo fra le sue braccia, per consolarsi e sentirsi ancora più sciocca ed infantile in quell’abbraccio. Non c’era una soluzione al suo problema – non esisteva per lei altro se non la consolazione.
«Grattastinchi?», lo cercò nuovamente, salendo gli scalini. La casa era riempita dal rumore dei suoi passi soffici – il padrone, invece, non si sentiva, così come gli altri abitanti di Grimmauld Place n° 12.
Hermione scorse il gatto balzare sul pianerottolo successivo e, irritata, lo seguì.
«Grattastinchi», ripeté con esasperazione, vedendolo entrare in una stanza. Spalancò la porta e si bloccò nel vedere il suo gatto sulle sue gambe. Non era la prima volta che Grattastinchi si acciambellava su di lui – Hermione ricordava la penombra della Stamberga Strillante e l’ombra dei suoi occhi e dei suoi zigomi incavati; ricordava la presenza buia di Sirius in quella casa e la convinzione d’Hermione che lei fosse dalla parte giusta e lui da quella sbagliata.
Ricordava l’esaltazione di avere un ricercato davanti agli occhi – l’adrenalina che l’aveva colta e il battito accelerato del cuore che le aveva spezzato il fiato e l’orgoglio che l’aveva stesa insieme al coraggio di combattere, di combatterlo. Lui, l’ombra della morte.
«È qui», esclamò alla vista di Grattastinchi e Sirius.
Sirius la guardò con un sorriso morbido e svogliato. Aveva il volto più colorito del solito e gli occhi grigi pieni di vita non sua. Hermione lo fissò con incertezza e fece per aprir bocca, saccente, ma rimase in silenzio.
Notò solamente allora Harry, seduto lateralmente rispetto al padrino. Aveva lo sguardo verde che la allontanava con poca gentilezza, come se l’aria intorno fosse sua e lo stesso Sirius fosse un oggetto che solo lui poteva avere – le parole rimaste fra loro due e i ricordi schiacciati del passato erano suoi, soltanto suoi; Hermione era in più e Harry, in modo inconscio, la scacciava via duramente.
Hermione fece un sorrisetto frivolo e disse: «È in ottime mani», poi scappò giù per le scale.
Sirius la seguì con lo sguardo e quindi tornò a parlare ad Harry, lasciandosi andare, svuotandosi e liberandosi del passato. Brillava mentre si confidava – il suo interlocutore non poteva scorgere l’ombra che vi era dietro il sole, non poteva percepire il fantasma che era Sirius.
Hermione si fermò al piano terra, col fiatone – non era stanca per la corsa, ma per ciò che aveva visto: la maschera – e lasciò correre i propri pensieri.
Anche l’essere padrino di Harry lo allontanava da lei, ragionò. Non era l’età in sé a metterle paura: erano gli anni trascorsi a vedere cose che lei non avrebbe mai potuto scorgere, a compiere fatti che avrebbero cambiato la loro storia... l’inquietudine nasceva da tutti quegli attimi volati via che Hermione non poteva conoscere e che lui non le avrebbe detto, soltanto perché lei era d’un altro tempo e lui era vento del passato.
Sospirò, riprendendo a respirare normalmente, e camminò sino alla cucina. Tutto ciò che era suo, Grattastinchi stesso, era nelle mani di lui, soggiogato da quella malinconia che le prendeva l’anima.
Hermione si mosse goffamente fra il lavello e i fornelli, sentendosi sempre più piccola in quella grande casa. Invisibile agli occhi e invisibile al suo cuore, che di mattina splendeva e di notte era risucchiato dal buio.

Sirius osservò il cielo mattutino di Londra da una finestra del corridoio: le nuvole grigie riempivano la visuale, coprendo tutto quanto di una luce spenta. Qualche corvo volava fra le case basse, in cerca di prede.
Sirius sospirò, senza neanche aver la forza di voler scappare via. Non c’era una destinazione da raggiungere – era solo molto stanco, ma avrebbe comunque indossato il vestito della felicità per Harry.
Hermione, nell’ombra, lo vide salire le scale verso la stanza di Fierobecco. Non lo seguì, pavida, ma si rifugiò nella propria stanza, riflettendo sull’inutilità di tutto quello. Gli incontri casuali con lui non portavano a nulla e lei si sentiva debole e incerta.
Odiandosi per quell’indefinito sentimento di rassegnazione, si gettò su un libro trovato nella libreria Black. Annusò la carta consunta e giallognola – anche lui l’aveva fatto, anni prima? Magari aveva patito lo stesso sentimento di noia e accettazione e si era dedicato alla lettura.
No, probabilmente era scappato via di casa per qualche ora, gironzolando per le vie di Londra. Era ancora libero, poteva farlo.
Chissà quanto gli mancava poter girare per il mondo senza essere ricercato... com’era il suo volto prima di lei, prima di loro? Prima di Voldemort? Aveva quelle occhiaie grigie sotto gli occhi stanchi? Aveva la pelle cerea e tirata sulle ossa sporgenti? O era più florido, più sorridente, più acceso?
Hermione non riusciva a immaginarlo nel tempo in cui lei non era esistita. Non lo vedeva ridere e scherzare con i suoi amici, ma desiderava poterlo fare.
Ecco, stava di nuovo pensando a quelle inutili storie, a dei ricordi che non le appartenevano e che erano fittizi, immagini che la sua mente partoriva senza alcun fondamento reale.
Con orgoglio si costrinse a pensare ad altro. Andò da Ginny e chiacchierò con lei, quietamente, cercando argomenti frivoli e futili su cui discutere.
Provava a trovare qualcosa che riuscisse a cancellarlo dalla sua mente – un qualcosa che potesse spegnere quel fuoco fatuo, qualsiasi cosa. Anche il rimpianto del suo rifiuto.

Sirius la incrociò nel corridoio del primo piano. Hermione era appena uscita dalla cucina, pronta ad andare a letto, mentre gli altri erano rimasti un altro po’ a chiacchierare sulle storie giovanili dei signori Weasley.
Lei si bloccò, come scossa, ma tentò con un gesto meccanico di continuare a camminare. Lui le sorrise quietamente, con gli occhi accesi di pacata gioia.
«È di sotto, in cucina», borbottò Hermione, già pronta a rispondere a una sua ipotetica domanda.
«Chi? Harry?».
Lei annuì, superandolo con qualche passo. Lui la bloccò con le parole.
«Sai, mi ricordi un’amica, era proprio come te. Anche lei intelligente, la migliore del suo anno», sussurrò. Era molto stanco, eppure aveva voglia di vedere cosa poteva offrirgli Hermione. Tastava il terreno, cercando una consolazione che la vita non poteva più dargli. Un appoggio.
«Lily?», chiese Hermione con emozione. Non voleva ascoltarlo e perdersi in lui, anche se fino ad allora non aveva desiderato che questo.
«Sì, lei».
«L’amavi?», domandò lei di getto. Poi si coprì la bocca, come a scusarsi, cercando di cancellare le proprie parole. Lui si voltò a guardarla, silenzioso.
Era come lei – pure Hermione poteva essere amata? Era quello che desiderava, alla fine. Quello che non gli aveva mai chiesto.
«Era di James», sussurrò Sirius. Si rabbuiò e Hermione gli tese una mano, ma lui l’afferrò e la fermò prima che gli sfiorasse il viso. Lei arrossì e rimase immobile: cosa aveva fatto?
«E io non l’ho amata abbastanza, alla fine».
Erano i suoi ricordi che si versavano su di lei, quelli, parole che lui non aveva mai rischiato di dire a Harry. Polvere.
Non avrebbe potuto pronunciare quella parte di sé al figlio di James e lo disse a lei, forse per liberarsi di un peso che si portava da tempo. Sembrava lasciarsi indietro ogni zavorra, a poco a poco, in modo di potersi librare in volo e sfuggire via, verso la cinerea morte.
Hermione percepì la sua stanchezza tramutarsi in assenza. Era come se lui non ci fosse già più – era già successo altre volte, d’altronde.
«Forse l’amavi fin troppo», ribatté.
Sirius lasciò la presa e la mano di Hermione si abbassò da sola. Lui sorrise smortamente, senza dire nulla; le apparve come un cadavere.
«Devo andare da Harry. Gli ho promesso di raccontargli di quando ho picchiato un Serpeverde per un suo insulto», mormorò, scostandosi. La lasciò senza remore, volgendosi una sola volta a guardarla dalle scale, a rimirare la sua figura piccola e scomposta e a invidiarne la luce.
«Buonanotte, Hermione» e fu come un addio. Lei era un ricordo di vita troppo doloroso per poter essere amato, almeno da lui.
Era giunta l’ora di liberarsene.













N/A:
Prima di tutto, voglio ringraziare con il dovuto peso e merito la mia cara Panda Kacchan, Karyon per inteso, perché ha letto questa fic in ogni sua singola virgola, pezzo per pezzo, e mi ha anche aiutato a trovare il titolo (che non è riferito all’album di Avril Lavigne XD). Ti amo! *ò*
Poi, voglio dedicare questa fic a Livia. Sappi che ho messo un mese intero o più a farla, perché sono complessata rispetto alle tue fics su di loro, ma spero che vada bene e che ti piaccia =)
Non credo ci sia altro da aggiungere, vi saluto.
   
 
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