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Autore: Dragana    28/05/2010    12 recensioni
Il passato di Alice è avvolto nella nebbia; a lei dispiace, ma non moltissimo. Dopotutto, Alice adora gli uragani.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alice Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NEBBIA E URAGANI

 

 

Nascondi le cose lontane:

le cose son ebbre di pianto!

(G. Pascoli, “Nebbia”)

 

“Blu notte”.

L’insegna blu al neon lampeggiò un paio di volte alla sinistra di Alice, e lei la colse con la coda dell’occhio nonostante procedesse a più di centotrenta miglia orarie sotto la pioggia battente.

Tirò il freno a mano e la fedele Porche gialla obbedì al suo tocco virando di centottanta gradi con magnifico stridor di gomme, portandosi nell’altra corsia.

In quel punto era vietato effettuare inversioni a U e tanto più fare dei testacoda, ma in fondo la strada era deserta, e non si poteva mica pretendere che lei rinunciasse ai piccoli piaceri della vita; un conto è nutrirsi di sangue animale al posto di quello umano, un conto rispettare il codice della strada. Quello, assieme all’astenersi dallo shopping sfrenato, era un sacrificio che Alice proprio non se la sentiva di affrontare.

Fermò la macchina di fronte al “Blu notte” (acceso, spento, acceso, spento, spento, spento, acceso) e in un battito di ciglia si trovò alla porta d’ingresso, con i vestiti quasi asciutti. Per non destare sospetti rimase qualche secondo sotto la pioggia (benedetti i miei stivali di gomma con banda laterale in strass che non potevo farmi mancare, pensò), poi entrò.

Sorrise.

Adorava quei locali un po’ squallidi, era in un locale squallido che aveva visto Jazz per davvero, che l’aveva potuto toccare per davvero e sentire la sua voce per davvero. Ed anche quella volta infuriava la tempesta.

Adorava il cd di musica jazz che aveva messo il barista, la musica jazz le ricordava Jazz. Per assonanza e perché era avvolgente, sexy e blu.

Gli avventori erano pochi, l’aveva già notato dall’esigua quantità di mezzi nel parcheggio, e comunque c’era un tempo da lupi; logico che chi aveva una casa in cui era piacevole tornare ci fosse già tornato. Quando lei entrò tutti, nessuno escluso, la fissarono stupiti.

Sempre così. Come se fosse entrata camminando all’indietro e facendo il moonwalk. Un giorno o l’altro lo faccio davvero, pensò. Ordinò al bar giusto per salvare le apparenze: chiese qualcosa di blu e il barista le fece un cocktail con del blu Curaçao talmente pessimo che le avrebbe fatto schifo anche se fosse stata umana.

-Scusi se disturbo, signorina, ma forse dovrebbe tornare a casa, io credo-, le disse il barista mentre le preparava il pessimo cocktail.

-E perché? Ha dimenticato di mettere fuori il cartello “vietato l’ingresso alle ragazze piccolette”?- sorrise lei, arrampicandosi su di uno sgabello.

-No, è che vede, sta arrivando un uragano, pare. L’hanno detto alla tivvì. Quelli della tivvì dicono sempre un sacco di cazzate, mi scusi il termine, però comunque è pericoloso mettersi in strada con un tempo così, uragano o no. E, scusi, qui vado contro i miei affari ma devo proprio dirglielo, è ancora più pericoloso con una cosa come questa nel sangue-, le rispose allungandole il cocktail blu. Blu notte. Pessimo, ma blu notte.

-Grazie del pensiero, ma penso di poter sopravvivere; ne ho viste di peggio-, ammiccò lei gustando con gli occhi il colore della bevanda. Le piaceva quel colore, e le piacevano gli uragani.

Non era vero che ne aveva viste di peggio; oddio, certo c’erano stati James, i Volturi, Victoria, i neonati e poi ancora i Volturi, per non parlare di quegli strani cadaveri a Cincinnati e di quando le erano esplose le bombole del NOS a San Francisco, ma lì era già un vampiro e c’erano Jazz, Edward, Carlisle ed Esme, Emmett e Rosalie, e ad un certo punto perfino Bella.

Ma se si parlava in termini umani, se si parlava di cose come guidare sotto la pioggia dopo aver bevuto un pessimo cocktail, non ne aveva viste di peggio.

Ne aveva soltanto ricostruite di peggio.

 

Da quando se la ricordava, la sua vita era un uragano; travolgente come il vento che faceva tremare le finestre del locale, allegra come le gocce di pioggia che scrosciavano sul tetto, ballerina come le raffiche di vento che turbinavano nel parcheggio. E inoltre era stato proprio un uragano a portarle Jazz.

Prima, era solo nebbia.

Com’era Biloxi, Mississippi, nei primi anni del secolo? Chissà. Si era procurata qualche stampa, ma le stampe non sono ricordi. Rosalie poteva stare ore a parlare dei palazzi di Rochester, quando Edward raccontava di Chicago pareva di entrare dritti in un film di gangster, ed Emmett aveva aneddoti alla “Pomodori verdi fritti” a non finire. Per non parlare di Jazz e dei suoi campi di cotone. Loro erano stati felici, da ragazzi. Lei? Lei no, affatto, a quanto pareva.

Aveva visioni, ma non se le ricordava. Non dovevano essere state precise come ora, di solito dopo la trasformazione il potere si intensifica, o almeno per Edward e Jasper era stato così. Comunque le sue visioni non erano certo passate inosservate. Probabilmente cadeva in trance. Forse ogni volta che apriva gli occhi si ritrovava di fronte agli sguardi spaventati delle persone che amava e avrebbe desiderato soltanto richiuderli di nuovo, gli occhi, per non vedere quelli degli altri. Chissà.

E sua sorella minore? Cinthya? Le somigliava, era anche lei piccoletta e sottile? Aveva anche lei le visioni, ma per paura di finire come sua sorella riusciva a nasconderle e negava di averne mai avute? O era stata tra quelli che la fissavano spaventati, ed ora fissava spaventata tutte le sue nipoti sperando che nessuna ereditasse la maledizione di zia Mary Alice?

Niente, solo nebbia. Perfino il manicomio. E dire che erano stati i suoi stessi familiari a farla rinchiudere, e poi l’avevano dichiarata morta. Non speravano in una guarigione, speravano di cancellare la sua esistenza.

Aveva fatto ricerche su com’erano i manicomi nel primo ventennio del secolo: celle di isolamento buie (come aveva detto, James? “Era sempre al buio”, o qualcosa del genere), bagni ghiacciati, camicie di forza. Chissà se portava i capelli lunghi, prima; probabilmente sì, e i suoi capelli neri e lisci erano diventati graziosi toupet per signora.

C’era un uomo, anzi, un vampiro, che l’aveva amata a quel tempo. Un volto bianco su un camice bianco. Doveva averla trattata al meglio delle sue possibilità alleviandole il dolore in quel luogo orrendo, forse era stato grazie a lui che il suo cervello aveva formulato l’equazione “dottore” più “bianco” uguale “sei al sicuro” che funzionava ancora oggi nei riguardi di Carlisle. Poi il vampiro-dottore bianco era morto, facendo appena in tempo a restituirle la vita che i suoi stessi genitori le avevano tolto, e lei non si ricordava neppure il suo volto. Sapeva che avrebbe dovuto soffrire per lui, e soffriva, ma non come chi perde una persona cara; come chi soffre per empatia, per umana pietà, ma non è coinvolto in prima persona.

Poco meno di una ventina di anni mortali disseminati di cose tristi.

Carlisle le aveva detto che forse, con un percorso d’analisi appropriato, avrebbe potuto ritrovare i ricordi seppelliti nel suo subconscio. Il problema era che avrebbe dovuto trovare un analista vampiro competente, dato che rivolgersi ad un umano era fuori questione, e a nessuno risultava esistessero; intraprendere loro stessi gli studi adatti sarebbe stato peraltro inutile, perché le terapie psicologiche non sono efficaci su pazienti conosciuti, checché ne dicano in Beautiful.

Inoltre lei aveva rimosso eventi traumatici, ma la cosa non le provocava disturbi o squilibri, nessun ricordo lottava per tornarsene a galla; stavano lì, buoni buoni, come se sapessero che era meglio rimanere così: cose lontane nascoste nella nebbia.

Che a volte avrebbe voluto dissipare, ma più spesso no, perché non era sicura di poter essere ancora “il folletto” se l’avesse fatto. E a lei essere il folletto piaceva. Lei adorava il jazz, il blu notte e gli uragani.

 

-Ehy, tesoro, che c’è, sei triste? Le vuoi un po’ di coccole?-

Alice non sussultò. Guardò il tizio sudaticcio ed un po’ ubriaco che le aveva parlato all’orecchio, tolse dalla sua spalla la mano che lui ci aveva appoggiato, e si prese un attimo per concentrarsi. Poi fece una piccola smorfia.

-Se fossi in te cambierei la puntata, sei ancora in tempo: Bimbo che Ride si azzoppa, vince la corsa Una dell’Irpinia-, suggerì.

-...Eh? Ma che cazzo, come hai fatto…-

Lei lo interruppe. –Amico, io ti ho dato una dritta. Tu fanne quello che vuoi, e poi domani vedrai se avevo ragione o no.-

Come previsto, lui abbandonò immediatamente l’approccio per rivolgersi ad un altro avventore.

 –Ehy, Ned, senti un po’ questa-, esordì, poi si mise a confabulare circa la sensatezza del consiglio. Ordinarono altre due birre, gettandole occhiate in tralice.

Alice adorava vedere le corse dei cavalli; i cavalli avevano nomi buffissimi. Adorava vedere cose, in generale: la sua famiglia, non quella nella nebbia, quella nell’uragano, non la guardava mai con occhi spaventati.

La pioggia scrosciava più forte di prima.

Il suo pessimo cocktail blu era ancora lì, intatto. Non era passato molto tempo, comunque; i pensieri sono veloci, e quelli di un vampiro ancora di più. Per l’ennesima volta sorrise al barista.

-Ripensandoci, ha ragione lei. Meglio che io vada; tenga il resto, e lo punti su Una dell’Irpinia… poi brindate alla mia salute!-

Scivolò giù dallo sgabello allungando una banconota da cinquanta dollari all’uomo, che la guardava esterrefatto.

Pochi attimi dopo stava già rientrando in statale sgommando; adorava guidare sotto la pioggia. Squillò il telefono: Ghost riders in the sky.

-Jazz? Sto tornando a casa! Sì, lo so che sta arrivando un uragano… sai Jazz, ho pensato ad una cosa: io adoro gli uragani!-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note: Questa storia è nata per il contest Dai classici alle fanfiction indetto da vouge91 sul forum di EFP; si trattava di creare una stora basandosi su una citazione (nel mio caso il verso di Pascoli riportato all’inizio), un colore e un tempo atmosferico (blu notte e uragano). Io non ho mai scritto niente su Alice, ma in questo caso l’ispirazione è venuta proprio dalla pixie iperattiva!

 

“Ghost riders in the sky” è una canzone di Johnny Cash; pensavo ci stesse bene come suoneria per Jasper. Gli stivali che indossa Alice esistono, e mia mamma ne possiede fieramente un paio (secondo me sono assurdi). La storia della famiglia di Alice e del manicomio è raccontata in “Twilight” e “New Moon”; invece gli accenni a cadaveri e NOS sono mie invenzioni. I nomi dei cavalli non li ho inventati: uno era in un libro di Terry Pratchett, una era la cavalla di una ragazza che conoscevo. Il fatto che non si possa avviare una terapia psicologica su un paziente conosciuto è vero, nonostante quelli di “Beautiful” lo facciano sempre (e infatti si vedono i risultati!).

 

Ringrazio vouge91 per l’accuratezza e la velocità del suo giudizio, OttoNoveTre perché sì, e tutti quelli che leggeranno, recensiranno, non recensiranno ma passeranno di qua. Grazie!

 

 

 

 

   
 
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