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Autore: Ely_Jacko93    30/05/2010    3 recensioni
Il suono della macchina che controllava i battiti cardiaci cominciava a diminuire. Due flebo erano attaccate con un ago, che tanto odiavo, al mio braccio. Mi sentivo il corpo pesante per via di tutti quei medicinali, che quella mattina una dottoressa mi aveva somministrato. Era sul punto di morte, lo sapevo.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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22yeah yeah  SINCERAMENTE NON SO DA DOVE MI SONO ISPIRATA PER SCRIVE QUESTA STORIA. L'HO MESSA SU EFP PERCHè MI SEMBRAVA CARINA, ORA STA A VOI GIUDICARLA...COMMENTATE PLEASE...VOGLIO SAPERE COSA PENSATE! è CARINA? MAGARI...POTETE DARMI DEI CONSIGLI PER LE MIE PROSSIME STORIE O DIRMI VOI COME AVRESTE FATTO FINIRE QUESTA STORIA! BUONA LETTURA E UN BACIO =)





Il suono della macchina che controllava i battiti cardiaci cominciava a diminuire. Due flebo erano attaccate con un ago, che tanto odiavo, al mio braccio. Mi sentivo il corpo pesante per via di tutti quei medicinali, che quella mattina una dottoressa mi aveva somministrato. Era sul punto di morte, lo sapevo. I dottori continuavano a ripetermi che stavo bene e che nel giro di qualche giorno sarei tornata a casa. Io non ci credevo, ero vecchia e avevo un tumore allo stomaco, non ce l’avrei mai fatta. Girai, con grandissimo sforzo, la testa e guardai il piccolo calendario attaccato alla parete. Era il 14 agosto dell’ anno 2000, avevo esattamente ottantadue anni. Nella mia vita avevo visto morire e succedere tante cose: la seconda guerra mondiale, la morte di mia nonna, di mia madre e infine, quella di mio padre. Ora toccava a me e ancora mi chiedevo se ero pronta a fare il salto nel nulla. Sin da piccola avevo sempre avuto paura della morte e avevo sperato, che quando sarei stata grande abbastanza, gli scienziati potessero inventare una pozione contro la mortalità. Ancora, però, nessuno aveva inventato niente e io, come tantissime altre persone prima di me sarei morta. Ma quando mi sarei addormentata per sempre, cosa ci sarebbe stato dopo? L’ aldilà o il buio più assoluto. Forse, la mia anima sarebbe andata in cielo, insieme a quelle dei miei genitori e tutte le persone che conoscevo. Forse, non mi sarei neanche accorta di morire. Per fortuna, dopo la mia scomparsa, nessuno si sarebbe disperato. Non mi ero mai sposata e mia sorella era morta quando era nata, quindi non avevo neanche un nipote, non avevo nessuno che avrebbe pianto o qualcuno che mi sarebbe venuto a trovare nelle mie ultime ore di vita. Ero sola. Anche se per tutti questi anni mi ero rassegnata a non avere nessun amico, ora, desideravo avere qualcuno accanto a me che mi stringesse la mano e mi dicesse di non andarmene e lasciarlo. Ma non c’era nessuno. C’ero solo io, nella stanzetta di un ospedale di Boston. Essere lì era veramente orribile, le pareti della stanza erano grigie e infondevano tristezza, così come delle rose appassite accanto al mio comodino. Guardando quest’ ultime, vidi me stessa, anche io stavo per appassirmi e come loro, ero stata un bellissimo fiore da giovane. In quel preciso momento entrò il dottor. Reeve, con la mia cartellina delle analisi in mano.

- Allora signora Marston, sta meglio?-, mi chiese mentre si passava una mano tra i capelli neri come la pece.
-Suvvia dottor. Reeve, sa benissimo come stanno le cose, perché continua a chiedermelo, proprio non capisco-.
Chris Reeve sbiancò come non mai. Sembrava un fantasma, dato che era già bianco di suo e impallidendo era diventato quasi trasparente.
-Signora, ora, sono io che non capisco. Lei sta bene non si deve preoccupare-.
Alzai gli occhi e sbuffai. Possibile che continuassero a pensare che io non avevo capito che di lì a poche ore sarei morta? Invece di dirmi, che probabilmente, non avrei passato la notte, continuavano a dire che stavo bene. Più continuavano a ripeterlo più ci stavo male. E poi, se stavo bene a quell’ ora non sarei stata in ospedale. I dottori e le dottoresse, però, non smettevano mai di dirmelo e anche con tutte le suppliche che avevo fatto di dire la verità e solo la verità, loro continuavano. Il dottor. Reeve iniziò a controllare la macchina dei battiti cardiaci e certe volte, premeva qualche tasto. Io chiusi gli occhi e non mi preoccupai di cosa stava facendo il dottore. Lui era una bravissima persona, molto capace e intelligente. In tutta la sua carriera non aveva mai fatto un errore. Poco dopo sentii un rumore di fogli. Aprii lentamente gli occhi e vidi che Reeve stava sfogliando la cartella, che quando era entrato teneva in mano.
-Qui dice che lei ha vissuto qualche anno in Italia-, esclamò stupefatto, -come si sta laggiù? Io ho sempre desiderato visitarla. Posso chiederle, se non sono di troppo, se può raccontarmi come mai è andata là e poi tornata?-.
Non avrei mai raccontato ad uno sconosciuto la mia storia, ma il dottor. Chris era molto amabile e simpatico. Non rispondeva mai male e di tutte le mie conoscenze era l’ uomo più educato che avessi mai incontrato. Così non ci pensai due volte a raccontargli la storia, ma prima chiesi se era veramente propenso ad ascoltarla. Lui rispose che non aveva niente di meglio da fare, dato che il suo turno era finito e anche perché non avendo figli, ne moglie a casa, non era obbligato a tornarci subito.
-Signora Marston, lei è una donna molto simpatica, la mia paziente preferita e, non ho niente in contrario ad ascoltare una storia, soprattutto se viene raccontata da lei. Deve sapere che nel corso della mia vita ho ascoltato racconti assai noiosi, ma il suo…il suo non può essere tedioso. È da tanto che desidero ascoltarla, è da quando è arrivata lei qui. Sa, ho letto la sua cartella e vedendo i suoi dati mi sono stupito al tal punto che ora sono qui a supplicarla di raccontare-.
Che cara persona! Forse, non aveva neanche la minima voglia, ma per farmi contenta era lì seduto sullo sgabello accanto al mio letto.
-Bene allora. Deve sapere che io sono nata tantissimi anni fa, esattamente il 5 maggio del 1918. Quel giorno, in questo stesso ospedale, si erano riuniti tutti i miei parenti. Non avevano ancora scelto il mio nome e mia nonna chiese se poteva avere l’ onore di darmi lei quello che fino alla mia morte sarebbe stato il mio nome. I miei genitori acconsentirono e così diventai Vicky Marston. Naturalmente, io non mi ricordo niente di questo, sono stati miei amatissimi genitori, che me lo hanno raccontato. Due mesi dopo la mia nascita, mia nonna partì per tornare a casa sua, a Charleston, io e la mia famiglia comprammo una villetta a Boston, poiché mi padre era commercialista e potevamo permettercela. La mia casa mi piaceva molto. Nel retro avevamo un giardino tutto nostro dove Edgar, mio padre, aveva costruito un altalena per me. La villetta aveva due piani. Il primo piano comprendeva la cucina, il bagno e un salone dove mangiavamo e davamo feste private. Nel secondo piano c’ erano le camere, quella dei miei e la mia. Quest’ ultima era sempre stata il mio personale rifugio. Quando mi sentivo sola o litigavo con qualcuno, ero solita a rifugiarmi là dentro. Mi divertivo tanto là. Era una camera enorme, con un letto a due piazze, una scrivania e uno scaffale dove riponevo i miei libri e le bambole. Giocavo sempre con quest’ ultime. Le avevo chiamate Kitty e Anna. Era state fatte da mia madre, con delle pezze e dei bottoni per gli occhi. Io mi divertivo, invece, a cucire vestitini per ognuna di loro. Ci tenevo molto, così stavo poco fuori con gli amici di scuola e non uscivo quasi mai in giardino, per giocare con l’altalena. Poiché, come tutti sanno nessun bambino deve stare troppo in casa, alla sola età di cinque anni, venni ricoverata nell’ ospedale di Chicago per due giorni, per una forte mancanza di vitamine. Tre giorni dopo ero di nuovo a casa e mia mamma aveva portato tutti i miei giochi e libri in giardino, per farmi stare il più possibile all’aria aperta. Quando ebbi sette anni ero sana come un pesce e non avevo più nessun problema, ero guarita grazie alle attenzioni dei miei genitori. Intanto avevo iniziato a studiare alle scuole private. Lì non ebbi nessun amico o amica, ero sempre chiusa in me stessa e quando qualche bambino della mia età mi salutava o mi chiedeva di giocare, io correvo in un angolino dell’ aula, sperando di non farmi vedere. A quell’ epoca ero molto timida e lo sono tutt’ ora, dottor. Reeve-.
-Le persone timide, di solito sono sempre le più simpatiche, hanno solo paura di aprirsi. Io credo sia così da piccoli, poi, quando si inizia a diventare grandi cambia tutto-, disse Chris Reeve un po’ dispiaciuto per aver interrotto la storia.
Aprii la bocca per continuare a raccontare, ma una dottoressa entrò correndo nella mia stanzetta. La dottoressa era disperata, aveva le mani in testa e i capelli che quella mattina erano pettinati accuratamente, erano ora disordinati e spettinati. Iniziò a urlare al dottore che il signore ricoverato nella stanza numero quarantuno era morto e che non sapeva cosa fare, dato che era da poco che lavorava lì. Reeve mi guardo e poi, si scusò per non poter continuare ad ascoltare la mia storia. Mi disse che aveva solo bisogno di un paio d’ ore per sistemare tutto. Dopodiché sarebbe tornato a sentire cosa era successo nella mia vita. La dottoressa mi intimò di dormire mentre attendevo. Io non ne volevo sapere. Se Dio mi avesse concesso di vedere il giorno seguente, avrei dormito quella notte. Così chiesi se potevo leggere un po’. I dottori acconsentirono,presi il mio libro preferito dal comodino e iniziai a leggerlo. Due ore dopo, chiusi il libro e lo riposi dove prima si trovava. Aspettai un'altra oretta, ma di Chris Reeve non si vedeva l’ anima. Forse, la persona della stanza quarantuno aveva molti parenti e per avvisarli tutti ci sarebbe voluto ancora  un po’. E quando sarei morta io? Ci sarebbe voluto pochissimo. Sicuramente, avrebbero chiamato il becchino e nel giro di un ora sarei stata portata e sotterrata al cimitero di Boston. Cinque ore erano passate ma del dottore ancora niente. Guardai l’ orologio appeso al muro, erano le sette in punto. Tra poco mi avrebbero portato la cena e poi, mi sarei addormentata. Mi sarei addormentata pregando. Pregando che il giorno dopo avrei aperto gli occhi e avrei potuto finire di raccontare la storia, che qualche ora fa avevo iniziato.
Alle sette e mezzo, come avevo previsto arrivò un’ infermiera con il vassoio della cena. La ragazza che era arrivata mi aiutò ad alzarmi un po’ dal lettino in cui ero sdraiata e mi mise sulle gambe il piatto con una minestra di verdure e un cucchiaio. Mangiai tutto anche se non mi piaceva per niente. Quando finii, l’ infermiera mi sistemò la coperta e mi diede la buonanotte, poi uscì.
Il dottore ancora non si era fatto vedere e io ero disperata. Ero sicurissima che l’indomani la mia fiammella di vita si sarebbe spenta, stavo troppo male. Forse, la mia storia non avrebbe mai avuto una fine...
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Ciao a tutte! Come vedete ho modificato la storia, poichè ora ho finalemente istallato bene il programma.
Inoltre vorrei ringraziare 'blackmoral' per aver risposto all' e-mail e di avermi dato dei consigli, grazie!
Un bacio : *
Ely_Jacko93
  
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