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Autore: Hi Fis    31/05/2010    4 recensioni
"Pioveva leggermente quella mattina, anche se il sole si sarebbe mostrato presto: già da una settimana ormai aveva ripreso a scaldare la terra coi suoi raggi, ed era stato due volte benvenuto dopo il duro inverno trascorso." Del destino di Morrigan e del Bambino dopo la fine di Dragon Age.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: OOC | Avvertimenti: Spoiler!
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Presentazione:
Non ho mai amato i finali lasciati aperti. I personaggi che spariscono senza una giustificazione apparente, come risucchiati da un buco nella trama, non mi piacciono. Per cui, nonostante non abbia mai giocato a DA, questa oneshot tenta di colmare il vuoto. L’ho segnata come OOC perché non sono sicuro di aver centrato il personaggio. Fatemi sapere se sono riuscito a scrivere qualcosa di interessante o se vi è piaciuta. Enjoy!



Le foreste situate a ovest delle montagne Frostback ribollivano di vita, così come era sempre stato fin da quando il Creatore aveva infuso le terre di Thedas del suo respiro.
I mali che affliggevano il resto delle terre, raramente si propagavano nelle immensità ombrose di quella foresta, sotto le chiome degli abeti rossi e dei larici: perfino le orde oscure non si avventuravano mai nelle sue profondità.
Ma questo non significava che ci fosse pace: la lotta per la sopravvivenza era serrata e brutale, come in ogni altro luogo. Le piante gareggiavano fra loro in altezza, per sfamarsi il più possibile con la luce del sole, mentre predatori e prede compivano le loro antiche danze all’ombra delle fronde, schiacciando coi loro passi i rovi e gli aghi essiccati del sottobosco.
 
Pioveva leggermente quella mattina, anche se il sole si sarebbe mostrato presto: già da una settimana ormai aveva ripreso a scaldare la terra coi suoi raggi, ed era stato due volte benvenuto dopo il duro inverno trascorso.
 
Era ancora presto, tuttavia un piccolo branco di cervi già pascolava placido in una radura in riva ad un torrente, il manto appesantito da mille piccole gocce di rugiada.
 Acquattato nell’oscurità offerta dalle fronde dei larici e dai cespugli di rosa selvatica, un predatore assisteva alla scena: era un’orsa, che fissava famelica i suoi occhi sul branco.
La bestia era dotata di una mole gigantesca: mai prima di allora in quella foresta c’era stato un predatore di dimensioni comparabili. Simili fiere abitavano di solito i miti e le leggende, ed erano l’oggetto di storie fantastiche di padri e madri che mettevano a letto i loro figli.
Questa orsa, inoltre, aveva la pelliccia irta di creste ossee, come un’armatura naturale: era forse una della sfortunate creature traviate e mutate dalla maledizione dell’orda oscura? Tuttavia l’aura di corruzione che emanava da quelle bestie come un lezzo era assente nell’orsa, e i suoi unghioni che dissodavano il terreno erano la prova di come non fosse una visione fuoriuscita dall’Oblio, il luogo abitato dagli spiriti in cui solo i maghi e gli stregoni potevano entrare.
 
Una femmina del branco aveva attirato l’attenzione della predatrice: era giovane, forte e in salute, una preda degna di essere cacciata. La pioggia aveva fino ad allora coperto il suo odore, ma l’orsa non voleva aspettare ancora: la cerva avrebbe potuto sfuggirle. Contrasse i muscoli della sua imponente mole, attendendo il momento fatidico.
Aspettò che la cerva abbassasse ancora una volta la testa per bere il suo ultimo sorso d’acqua in questa vita, poi scattò.
Nonostante la mole, l’orsa fu veloce come un sogno: piombò in mezzo alla radura in un attimo, lanciandosi oltre i cespugli di rosa selvatica e gettando nel panico gli animali che scapparono in ogni direzione. L’orsa li lasciò fare, non aveva interesse che per la sua preda.
La giovane cerva riuscì solo ad alzare la testa dal rivo, prima che gli artigli della sua carnefice le straziassero il collo, spezzandole la spina dorsale ancor prima che potesse capire cosa stava succedendo.
La cerva crollò a terra senza un lamento, mentre l’orsa lanciava il suo ruggito di vittoria: uno stormo di passeri spiccò il volo verso oriente, terrorizzato. L’orsa li guardò per un poco, mentre si dirigevano verso l’orizzonte.
 
Quando fu sicura che la vita avesse abbandonato la sua preda, l’orsa afferrò il collo della cerva nella morsa delle sue fauci e, con un movimento che denotava lunga pratica, torse il collo, facendo compiere una traiettoria arcuata alla preda, che ricadde sul suo dorso. Con la preda ora salda sulla sua schiena,
la cacciatrice si diresse nuovamente verso la sua tana, spostando con la sua mole i cespugli che le si paravano davanti.
 
La sua destinazione era una grotta, incassata alla base di un’irta altura. L’entrata era protetta da una fitta selva di cespugli spinosi e solo l’occhio più esperto avrebbe potuto determinare dove fosse effettivamente situato l’ingresso.
L’orsa si scrollò di dosso la cerva, mentre sostava davanti all’entrata della sua tana.
Poi, con un brivido, cominciò a mutare: il muso divenne un naso, gli unghioni scomparvero, mentre le zampe si trasformavano in braccia e gambe, ognuna con il suo carico di dita affusolate. La sua mole imponente si ridusse rapidamente, fino a quando l’orsa non fu più.
Al suo posto, c’era ora una donna dai capelli corvini e gli occhi dorati come quelli di un falco, dell’età apparente di una trentina di anni. Indossava una  gonna fatta di piume di volatili, che si fermava ad una spanna circa dalla sue caviglie, nude come i suoi piedi. A coprirle il busto, una semplice casacca di pelle grigia, ornata di piume giallo canarino.
La donna infilò una mano nei cespugli, pescando un lungo bastone di noce, inciso con molte rune mistiche e ornato con un cerchio d’argento sulla cima. Puntò il bastone sul terreno e le piante ubbidienti si ritrassero, svelando l’ingresso della sua casa.
 
Le fronde non avevano ancora finito di ritrarsi, che una figura di altezza infantile schizzò fuori dalla grotta, andando ad aggrapparsi alla gonna di piume della strega.
“Madre, sei tornata!” Il sollievo era percepibile nella voce del bambino.
“Certo che sono tornata, nessuna bestia di questa foresta, né del cielo né della terra, può mettersi contro di me.” La strega pose la mano sul testa di suo figlio, scompigliandogli i capelli castano scuro.
A sentire il tocco gentile di sua madre, il fanciullo levò la testa verso di lei, fissando i suoi occhi grigio acciaio in quelli dorati della madre.
Il bambino doveva avere al massimo sette, otto anni, e mostrava un bellezza inconsueta per qualcuno cresciuto nelle profondità dei boschi: la sua pelle, quella che non era coperta dal vestito di lana che lo teneva al caldo, era pallida come porcellana, tanto da sembrare opera di magia. Il suo innaturale pallore, che neanche il sole riusciva ad intaccare, era interrotto solo sulla fronte da sette piccole scaglie del colore del sangue, che coprivano lo spazio di uno dei suoi pugni chiusi.
Vedendo il sorriso di sua madre mentre lo guardava, anche il bambino sorrise, rivelando una chiostra di denti innaturalmente appuntiti,candidi come la neve.
“Aiuteresti tua madre a portare dentro la cena?”
“Certo!” trillò il bambino liberando sua madre dall’abbraccio.
Afferrando per una zampa la cerva, il fanciullo la trainò nella grotta, come se pesasse quanto un uccellino.
Morrigan, la strega della foresta, sorrise a quella vista. Suo figlio era diverso dagli uomini per molti aspetti, ma la premura con cui voleva sempre aiutarla lo rendeva uguale ad ogni figlio amorevole nei confronti della propria madre.
Quando madre e figlio furono al sicuro nella grotta, Morrigan piantò il suo bastone nel terreno e le fronde si richiusero obbedienti dietro di loro, abbastanza fitte da mascherare l’entrata e tuttavia permettere allo stesso tempo l’ingresso della luce del sole.
Poiché l’ingresso della grotta era situato verso est, avrebbero avuto luce a sufficienza ancora per quattro ore circa, prima di dover ricorrere alle lampade e alle candele che Morrigan ricavava dal grasso delle loro prede, a cui univa poi le erbe della foresta per mascherarne l’odore pungente.
“Accendo il fuoco?” chiese suo figlio con trepidazione.
Morrigan si trovò di nuovo a sorridere: da quando suo figlio aveva compiuto due anni, non aveva mai dovuto usare la sua magia o un acciarino per accendere delle fiamme.
La strega diede il suo consenso con un sorriso e suo figlio prese qualche ciocco tagliato in precedenza, ponendoli in una pila ordinata.
Quando tutti furono posizionati, il bambino si mise a  gambe larghe di fronte ai legni, ponendo le mani sulle ginocchia: una fiammata liquida fuoriuscì dalla sua bocca, riscaldando l’aria.
Di tutte le caratteristiche peculiari di suo figlio, quella era sicuramente la più distintiva e anche quella che rivelava la sua vera natura, ancora più delle scaglie che si aggiungevano ogni anno sulla sua fronte al compiersi di ogni compleanno.
Morrigan si era trovata a chiedersi se gli sarebbero spuntate delle ali membranose, quando fosse cresciuto abbastanza.
Suo figlio, il bambino che racchiudeva dentro di sé lo spirito di uno degli dei antichi, si accoccolò vicino al fuoco che aveva acceso, aspettando che sua madre lo raggiungesse.
In fondo la loro preda poteva aspettare: Morrigan scagliò contro la carcassa un lieve incantesimo del gelo, in modo che non cominciasse a guastarsi, poi raggiunse suo figlio accanto al fuoco.
Il fumo del falò risaliva verso l’alto, entrando in un camino scavato a viva forza nella roccia dalla magia di Morrigan. Sbucava esattamente dietro una cascata sul versante orientale dell’altura che ospitava la loro casa, in modo da risultare impossibile per alcuno notare la presenza di un insediamento fra quei monti.
Morrigan prese per sé un cuscino imbottito con foglie secche, uno dei tanti che ornavano la loro casa e lo posò accanto a suo figlio.
C’erano voluti diversi mesi per creare il tutto, ma Morrigan allora non aveva molto altro da fare, a parte badare al bambino. Usando un misto di magia e ingegno, aveva arredato la loro casa il meglio che poteva, ricavando dal legno quasi tutto: era ricorsa alla pietra e al metallo solo in pochi casi e quando non aveva avuto altra scelta.
Dall’ingresso della caverna si dipartivano quattro accessi, ognuno stretto abbastanza da permettere il passaggio di un solo uomo in arme alla volta.
Il primo passaggio conduceva verso il basso, ad un bacino sotterraneo dove si raccoglieva l’acqua alimentata dai fiumi della montagna. Il secondo passaggio portava ad una dispensa, in cui le porzioni delle loro prede che non erano state consumate venivano conservate, assieme ai frutti che la foresta offriva loro, come miele e bacche. Il terzo portava ad una camera da letto che Morrigan divideva con suo figlio e il quarto ad un’ampia grotta, trasformata negli anni in una via di mezzo tra una biblioteca, uno studio e un luogo di svago. Era il luogo dove trascorrevano la maggior parte del loro tempo e dove educava suo figlio alla magia e ai sortilegi, così come sua madre aveva fatto con lei.
 
Morrigan abbracciò suo figlio, il suo più grande successo come essere umano e il suo più grande fallimento come incantatrice.
La madre di Morrigan, Flemeth la strega del bosco, aveva ordinato alla figlia di unirsi agli eroi che avrebbero combattuto contro l’Arcidemone e l’orda oscura, perché aveva intravisto la superba possibilità che si era offerta: possedere un dio antico.
Il rituale che aveva insegnato a Morrigan avrebbe permesso a sua madre di entrare in possesso dello spirito rinnovato di un dio, mondato della corruzione con cui l’orda oscura creava gli Arcidemoni a partire dai corpi dormienti dei draghi, gli dei dell’antichità.
Grazie al rito, un bambino, concepito la notte precedente alla grande battaglia contro l’Arcidemone, avrebbe posseduto il potere di risucchiare lo spirito del drago una volta che fosse stato ucciso. Il dio antico sarebbe stato così incarnato in una forma corporea e, come effetto collaterale, l’eroe che avesse vibrato il colpo fatale contro l’Arcidemone non avrebbe dovuto sacrificare la sua vita.
I Custodi Grigi, l’ordine di cavalieri che da secoli proteggeva le terre di Thedas dall’orda oscura e dagli Arcidemoni, era composta da uomini che aveva accolto dentro di sé la maledizione portata nel sangue della genia corrotta, divenendo così i Custodi: uomini in grado di avvertire la presenza del male e il cui ultimo sacrificio era sempre stato necessario per sigillare l’anima di un dio antico.
Flemeth aveva intenzione di sfruttare i poteri e il corpo del dio come aveva già fatto con le altre sue figlie per prolungare la sua vita: quando il bambino fosse cresciuto abbastanza, avrebbe potuto prenderne il corpo,  ottenendo un potere tale da rivaleggiare con quello degli dei e, probabilmente, l’immortalità.
Morrigan lo aveva scoperto molto dopo essersi unita alla compagnia di eroi,studiando il grimorio di sua madre, in cui era riportata la pratica che Flemeth aveva usato per rubare i corpi alle sue altre figlie.
Scoprendo questo orrore, Morrigan aveva chiesto a lord Cusland di uccidere sua madre, così da liberare il mondo dalle sue pratiche abominevoli.
Il Custode Grigio aveva accettato, e Flemeth era stata trafitta a morte, nonostante tutti i poteri che aveva accumulato nei secoli.
 
Morrigan se lo era chiesto spesso: perché il Custode aveva accettato? Perché Eric Cusland, ultimo erede di una famiglia le cui origini erano antiche come le rocce di Orzammar, aveva deciso di aiutare una strega? Perché un uomo che aveva consegnato la sua vita all’ordine dei Custodi Grigi, metteva in pericolo la sua missione e la sua vita per lei?
La risposta era stata del tutto insensata:
“Deve esserci per forza un motivo per aiutare le persone che si amano?”
 Nemmeno Morrigan era riuscita a ribattere: quella sincerità era più affilata di una spada.
 
E poi era accaduto qualcosa di inaspettato: lei era stata cresciuta da sua madre, lontana dal mondo degli uomini, che considerava stolti e deboli. Eppure lord Eric Cusland non era né stolto, né debole, anzi: era forte e intelligente.
Morrigan si era innamorata, per la prima volta in vita sua, ed era stata ricambiata.
La figlia della strega del bosco, che mai si era accostata al mondo degli uomini, aveva cominciato ad amarne uno.
 
Morrigan non voleva perdere quell’uomo, così diverso dai suoi simili, anche se non sarebbe mai riuscita a dirgli quanto fosse importante e quanto la possibilità di vederlo morto le straziasse il cuore.
Solo con un anello, uno sciocco ninnolo incantato, era riuscita a dirglielo.
Eric Cusland aveva capito.
 
Il rituale di Flemeth era diventato così il modo di salvargli la vita e Morrigan aveva preteso che si unisse a lei la notte prima della battaglia, rivelandogli come, concependo loro figlio quella notte, sarebbe sopravissuto alla morte del suo nemico. Quando l’Arcidemone era stato sconfitto e Morrigan aveva baciato per l’ultima volta l’unico uomo che avesse mai amato, aveva deciso di andarsene.
Era sicura di non poter restare con lui a corte: avevano potuto dividere una tenda nei loro viaggi, ma di certo non avrebbero potuto fare lo stesso con la camera da letto in un castello.
Morrigan la dama di corte: quale nobile si sarebbe mai inchinato a lei, a meno che gli spezzasse lei stessa le ginocchia? Inoltre era terrorizzata da ciò che cresceva nel suo grembo: cosa sarebbe stato quel bambino?
 
Mentre dirigeva i suoi passi verso ovest, mettendo più strada e persone dietro di sé, si era trovata a chiedersi se avesse potuto usare il bambino come Flemeth intendeva originariamente: potere e immortalità.
Quel pensiero si era insinuato spesso nella sua mente mentre si sedeva accanto al fuoco da sola la notte.
Morrigan era tormentata da quel pensiero: davvero avrebbe potuto fare a suo figlio quello che sua madre voleva per sé?
Ma quando aveva partorito il suo bambino, Morrigan aveva compreso che non sarebbe mai riuscita a fargli del male: quando quel neonato urlante era stato posto al suo seno e lo aveva guardato mentre poppava, la strega del bosco aveva fissato a lungo i suoi occhi: grigi, come quelli di suo padre. Quegli occhi che rivaleggiavano con i suoi per profondità.
 
“Madre, cos’è un Custode Grigio?” La voce di suo figlio la scosse dai suoi pensieri.
Morrigan non aveva mai raccontato a suo figlio di suo padre, ed essendo isolati dagli uomini, il piccolo non aveva mai avuto motivo di fare domande.
“Dove hai sentito quelle parole?” chiese Morrigan improvvisamente attenta.
“In un sogno.” rispose compito suo figlio.
“Mi racconteresti di questo sogno?”
Suo figlio fissò lo sguardo nel fuoco, cercando forse un significato nelle fiamme, prima di continuare:
“È tutto così confuso: ci sono fiamme e distruzione ovunque e strane case di pietra molto più grandi della nostra, con moltissimi buchi da cui si può guardare dentro. Il cielo è rosso, tanto è il fumo che sale dai fuochi. Ci sono io che volo sopra tutte quelle case, e dentro di me sento strane emozioni, cose che non riesco a descrivere, madre, ma di cui conosco i nomi: rabbia, dolore, odio. Sai cosa sono queste emozioni, madre?”
Suo figlio la guardava ora negli occhi, cercando delle risposte.
“Continua a raccontare il tuo sogno, figlio mio.”
“Ad un certo punto sento un dolore fortissimo ad un braccio, come se stessi per morire: qualcuno mi ha colpito. Allora smetto di volare e mi poso sulla cima della casa di pietra. Lì ci sono altri uomini, come te e me, anche se diversi. Tentano di ferirmi, ma io li schiaccio tutti sotto i miei artigli, perché sono deboli. Poi arrivano altre quattro persone, molto diverse da quelle di prima e io so che fra loro c’è il mio nemico.
Forse uccidendolo le emozioni che provo diverrano chiare. Ma loro sono più abili degli altri e non riesco a schiacciarli sotto i miei artigli. Anzi, continuano a ferirmi e a farmi del male.  Uno di loro in particolare sembra che li guidi, lo chiamano in vari modi: Kadan e anche Custode Grigio. Combatto con tutte le mie forze, ma lui è più forte. Alla fine io mi accascio, e lui alza la sua arma. Lo guardo per l’ultima volta e so che l’uomo che sta per calare la spada è mio padre.”
 
A Morrigan venne da piangere: un’unica lacrima cadde silenziosa.
“Non era un sogno.” disse Morrigan con voce rotta.
“È tempo che ti racconti la storia delle tue origini, figlio mio. Te l’ho taciuta anche troppo a lungo.”
 
Il sole era tramontato da molto tempo quando finalmente Morrigan finì di raccontare a suo figlio la storia delle sue origini.
Gli aveva raccontato ogni cosa, da sua nonna, fino al significato dell’anello che si erano scambiati lei e suo padre. Gli aveva raccontato tutto, senza tacere nulla, esattamente come gli avvenimenti si erano svolti.
Infine, gli raccontò tutto quello che sapeva su suo padre, della sua famiglia e della caduta del suo casato e di come si era unito ai Custodi Grigi, così come Eric lo aveva raccontato a Morrigan, mentre osservavano le stelle che brillavano oltre il velo della tenda che avevano diviso nella notte.
Quando Morrigan non ebbe più nulla da raccontare e tacque,  le braci del fuoco che era stato acceso da suo figlio erano ormai spente e fredde.
La strega fissò il suo sguardo sull’anello che portava al dito, che per sette anni aveva continuato fedelmente a dirle che Eric Cusland era ancora in vita.
Anche suo figlio taceva. Morrigan lasciò che fosse lui a infrangere per primo il silenzio:
“Madre, vorrei incontrare mio padre.”
Di tutte le reazioni che aveva immaginato, quella fu probabilmente la più imprevedibile.
“Perché?” Morrigan fece quella domanda con paura e speranza.
“Penso che soffra, a saperci lontani da lui.”
Morrigan fu colpita da quel pensiero: non ci aveva mai pensato davvero, concentrata com’era su se stessa e suo figlio.
“Perché pensi questo?”
Suo figlio prese la mano su cui portava l’anello e lo indicò con lo sguardo:
“Se in questi sette anni nemmeno lui l’ha mai tolto, madre mia, significa che pensa ancora a te: lui ti vuole bene e, forse, riuscirà a volerne anche a me.” C’era speranza nella voce di suo figlio.
Morrigan sentì come un fiocco di neve che le si scioglieva dentro.
“Ne sono sicura, figlio mio. Ne sono sicura.” Disse la strega del bosco, abbracciando suo figlio.
 
Fuori dalla grotta, la prima luna piena di primavera rifulgeva solitaria nella notte.
  
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