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Autore: Luine    08/06/2010    1 recensioni
Quando mi hanno regalato questo diario per il mio dodicesimo compleanno, non credevo che mi sarebbe stato tanto utile. Credevo che sarebbe rimasto intonso come quando l'ho scartato. E, invece, eccomi qui a scrivervi sopra e a raccontare la mia (strana) vita.
Mi chiamo Ken Iccijojji, vivo a Tokyo con i miei genitori, Videl e Gohan, e con mia sorella maggiore, Pan.

Kenny ha dodici anni, una sorella maggiore alquanto turbolenta e una situazione familiare decisamente movimentata. A causa del terrore di sua madre di vederlo diventare come Pan, si ritrova iscritto in una scuola speciale per ragazzini problematici che già da subito si rivela essere una vera e propria caserma militare.
Tra paure, insegnanti molto duri, amici fidati e misteriosi, incomprensioni, equivoci e risate, si snodano le vicende di Kenny che come valvola di sfogo ha il suo diario, sul quale annota le sue più intime paure e i fatti di vita quotidiani, cercando di convincere se stesso che, forse, poteva andare peggio.
[ Dragon Ball, Digimon 02, Gundam Wing, What a mess Slump e Arale, e altri ]
Genere: Comico, Commedia, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Le lezioni al primo anno.

Domande imbarazzanti.


14 Novembre


«Si può sapere che diamine ti ha preso ieri sera, Kenny?» ha voluto sapere Arale, piazzandosi accanto a me, durante l'alzabandiera, posandosi una mano sul cuore, mentre partiva la musica. «Dovevo parlarti di cose importantissime e tu sei scappato come se avessi le fiamme al culo!»

Ho fatto una smorfia e finta di cantare, così come ieri ho fatto finta di dormire, quando sono tornati tutti dalla mensa: in questo modo sono scampato al terzo grado già da subito. Non avrei saputo come giustificare il mio comportamento: diciamo che non mi sarebbe piaciuto per niente dover dire "ehi, veramente non volevo scegliere tra i miei amici", sarebbe stato un po' come tradirsi da soli e, dato che mi sentivo abbastanza in colpa, ho preferito evitare la discussione.

Ero sicuro che Arale non avrebbe capito il mio punto di vista e non avevo, né ho un modo efficace per spiegarglielo.

«Allora?» ha insistito lei.

«Avevo sonno.» ho buttato lì, improvvisamente folgorato da quella scusa banalissima. In quel momento mi sembrava la migliore che potessi inventarmi. Ho ripreso a far finta di cantare e, teso, ho spinto più forte la mano contro il mio petto. Batteva parecchio forte: era per via di quella discussione, del fatto che mi sentissi un vero verme nei confronti di Alex e, un po', anche in quelli di Frank che, forse, era implicato in faccende losche.

«Senti, lo capisco che tu hai paura!» mi ha detto Arale, dopo un po'. «Ma se ci facciamo mettere i piedi in testa così, non scopriremo mai cosa è successo. E Kushrenada, con la faccenda dei soldi sporchi, la farà franca!» L'ho ignorata e lei ha sbuffato, spazientita. «Kenny, non puoi fare finta di niente per sempre! Devi affrontare la realtà dei fatti e combattere per ciò in cui crediamo.»

«E cioè?» ho chiesto, dubbioso.

«E cioè la libertà e l'onestà.» ha dichiarato lei, subito, pronta. Non ho replicato neanche a questo, decisamente più perplesso di prima: potevo capire l'onestà, ma non me la sentivo proprio di mettermi contro qualcuno che poteva tirarmi il collo senza che io potessi fare qualcosa per impedirlo. Sì, è una cosa abbastanza vigliacca, ma non posso farci niente se tengo tanto al mio collo.

«Fai come ti pare.» ha sbottato, irritata, quando ha visto che non avrebbe ottenuto niente.

«Arale... sono i nostri amici!» ho esclamato, lasciando scivolare la mano dal petto. Subito dopo, mi sono voltato indietro, ma per fortuna, la Une era impegnata a guardare altrove. «E... non me la sento di... scegliere!»

«Scegliere...» ha ripetuto Arale, solo quando ci avviavamo a colazione, come se avesse dovuto ragionare sul significato di quella parola. Ho cercato di mettermi il più lontano possibile da lei e da tutti gli altri, ma non ci sono riuscito: mi seguiva come un'ombra. «Kenny, qua non si tratta di scegliere tra me e loro... si tratta di fare ciò che è giusto.» ha tagliato corto. «Onestà e libertà sono le parole chiave!»

Ho cercato di ignorarla ed ho mangiato come un animale, dato che avevo saltato la cena. Ma qualsiasi cosa mangiassi, andava giù a fatica, come se, invece di mettere in bocca cibo, avessi preso pezzi di ferro e anche parecchio aguzzi. Mi sentivo un mangiatore di chiodi, ma capivo cos'era: era la stessa angoscia che mi aveva preso i primi giorni, prima di incontrare Marquise per le scale.

Mi sentivo proprio come allora, solo che questo problema mi pare insormontabile, più di quanto non fosse capire se essere un buon soldato o meno. Ho guardato il tavolo degli insegnanti e mi sono reso conto che Marquise non c'era. Ero sicuro, in qualche modo, che lui mi avrebbe capito e saputo consigliare. Magari mi avrebbe detto che quella era una delle tante prove alle quali avrei dovuto sottopormi.

La sua mancanza mi ha fatto sentire anche peggio, mi ha chiuso lo stomaco e impedito di finire quel panino croccante e caldo che avevo trangugiato fino a metà (non doveva averlo cucinato mia sorella).

Arale, intanto, aveva continuato a parlare di qualcosa, ma me ne sono reso conto soltanto quando ha concluso con un perentorio: «Hai capito?»

«Cosa?» l'ho fissata confuso e lei ha semplicemente arricciato le labbra.

«Devi parlare con Heero ed Ernesto Taylor.» mi ha ricordato.

«Arale...» ho cominciato a giocare con le molliche di pane che erano cadute sulla tovaglia, indeciso se continuare a fissare loro o lei. «Ecco... non so se lo farò.»

«Ma certo che lo farai!» ha esclamato, battendomi il dorso della mano sulla spalla. «Capisco come ti senti, è normale!» Stavolta ho davvero alzato gli occhi su di lei: non si era fatta molti scrupoli a condannare sia Frank che Alex, ma scoprivo che aveva i miei stessi dubbi.

Lei ha sospirato, con fare saputo ed io sono stato più attento che potevo: «Anche io ho paura di quel che potranno farmi, come tutti quelli che sono stati uccisi per mafia, ma se siamo coraggiosi, saremo ricordati come degli eroi! Onestà e...»

«Libertà.» ho concluso, con un sospiro stanco.

Ha riso divertita, mentre io facevo una smorfia. Non aveva capito niente.

«Dai, andiamo a lezione.»

Me ne sono andato, corrucciato. Sembravo la versione maschile di mia sorella persino a me stesso. Mi sono messo in disparte in tutte le lezioni, a parte in quelle della Une, nelle quali sono costretto a sedermi accanto ad Arale per cause di forza maggiore, dato che la direttrice ci impedisce di cambiare i posti come ci va.

La mia amica ha anche più volte tentato di coinvolgermi nelle sue chiacchiere; mi bastava guardare la Une, scrivere qualcosa sul quaderno mentre interrogava o girarmi dall'altra parte quando Arale cominciava a parlare per riuscire a farla desistere. E alla fine credo di averla fatta davvero arrabbiare, perché dopo la lezione si è allontanata da me senza dire una sola parola.

Mi sono sentito in colpa, ma mai come quando incrociavo lo sguardo di Alex e mi affrettavo a distogliere il mio. Mi sentivo un vero verme, un pessimo amico e anche una persona deprecabile perché preferivo nascondermi ed ignorare piuttosto che discutere apertamente. La verità è che mi spaventa molto il dover parlare con Alex: dire quelle cose potrebbe farmi perdere la sua amicizia e dall'altra, potrebbe essere come dice Arale e Alex, invece di una risata, si farà venire un raptus kennycida.

Il bisogno di confidarmi con qualcuno, a quel punto della giornata, era diventato sempre più impellente, quasi simile a quello di respirare. Volevo parlare con qualcuno che sapesse ascoltarmi, che fosse neutrale. Volevo liberarmi di quel peso e far sì che il qualcuno che mi avrebbe ascoltato mi indirizzasse nella direzione giusta, per sapere come dovevo comportarmi. È stato così che, durante l'ora di pranzo, invece di correre a mensa anche se avevo una gran fame, sono andato alla ricerca di Marquise. Sono sceso al pianoterra, dove sono affissi gli orari di tutti gli insegnanti e, dato che sapevo quale materia insegnava lui, cioè Materiali per la Costruzione di Macchine, mi sono fiondato sulla colonna del mercoledì. Ho visto che aveva avuto lezione con quelli del secondo anno corso B e che avrebbe avuto un'altra ora subito dopo quella di pranzo.

Sono corso nella sua aula, la 19, sperando che non fosse già sceso a mensa. Ma anche quella era vuota, anzi, deserta.

«Ehi, stai cercando qualcuno?» un ragazzo biondo e gli occhi azzurri ha attirato la mia attenzione. Era un primino, anche se era più alto di me di almeno dieci centimetri e sembrava anche più grande. Se non sbaglio, si chiama Ryan, ma non ne sono sicuro. E' in classe con Hermione Granger e dicono che è un secchione quasi quanto lei, ma che alla Une non piaccia perché è uno senza troppi peli sulla lingua. Ha anche uno strano accento, pare americano.

«Ecco... io... cercavo... il professore...» ho borbottato.

«Ah. Non sei l'unico.» ha sorriso lui. «Tutti quelli delle sue classi non l'hanno visto per tutto il giorno.»

Ho sbattuto le palpebre, cominciando a preoccuparmi. «Sta... sta male, per caso?»

Lui ha fatto spallucce. «Non lo so... so solo che c'è stato il caos per il corridoio tutta la mattina. Questo finché non è arrivata la Une a dire che Marquise non si sarebbe presentato a lezione. Vai a sapere...»

L'ho ringraziato e me ne sono andato con la coda tra le gambe. Sono sceso in cortile, al freddo di metà novembre. C'era un vento pungente che faceva muovere le chiome degli alberi esterni alle mura della caserma. Mai come in quel momento questo posto mi è sembrato una prigione. I miei amici erano in guerra tra loro ed io mi sentivo nel mezzo, incapace di prendere una decisione.

Quella situazione era solo un altro colossale dejà vu: mi sembrava di essere tornato indietro, a prima del mio incontro con Marquise e dovevo scegliere da che parte stare.

Mi sono buttato a sedere sulla scalinata d'ingresso, sconfortato. Mi faceva schifo quel comportamento, eppure non facevo niente di diverso da quelli che ignoravano o scansavano uno dei miei amici. Mi sembrava di non avere nessuna scelta e l'unico che poteva aiutarmi a cercare una soluzione sembrava irreperibile.

Poi i miei occhi si sono spostati da soli sul terreno in terra battuta rossa, verso il punto in cui sapevo trovarsi l'hangar 14. Mi sono chiesto se Marquise, per caso, fosse lì e cosa sarebbe successo se avessi percorso quei pochi metri che ci separava. Probabilmente mi avrebbe solo mandato via: se era lì, stava sicuramente dando una mano a sistemare i Suit e Pioggia di Fuoco.

Lui, mi sono ricordato, è un graduato, un insegnante, un importante pilota dell'esercito spaziale e non ha di certo tempo da sprecare per i miei stupidi problemi. Così, sconfortato, ho semplicemente abbassato lo sguardo, sconfitto, sulle mie scarpe sporche. Sono rimasto così, finché una folata di vento più forte delle altre non mi ha convinto a rifugiarmi all'interno.

Neanche stavolta sono andato a mensa. Mi sono diretto in biblioteca senza un motivo preciso, forse lo ritenevo l'unico posto che potesse aiutarmi a ritrovare un po' di buonumore.

In realtà, era deserta; persino Hopkins se n'era andato. Aveva lasciato il suo vecchio Olivetti acceso ed un messaggio sulla sua scrivania che recitava: "torno subito".

Mi sono sentito più solo che mai.

Per un attimo mi sono soffermato a guardare il nostro tavolo, quello dove, ogni fine settimana e momento libero, con Arale, Alex e Frank ci sedevamo per studiare. Mi è sembrato che fosse passata un'eternità dall'ultima volta e, invece, non era stato più tardi di sabato passato. Poco più di quattro giorni fa.

Ho soffocato l'impulso di mettermi a piangere. Dopotutto, mi rendo conto, non c'era neanche un vero motivo per cui dovessi farlo. Mi sentivo sciocco e infinitamente puerile, un vero cagasotto, come avrebbe detto Pan. Ero contento che non fosse nei paraggi. I ragazzi non piangono, di solito... non in pubblico. Anche se non c'era nessuno, però, mi sentivo come spiato, come se non fossi davvero solo.

Ho capito di essere diventato paranoico senza motivo, forse perché ancora aleggiava in me il terrore di Sark che cercava un altro paio di occhi.

Ho fatto un giro nell'angusta biblioteca, guardavo i titoli dei libri senza realmente capirli. Credo che siano inseriti negli scaffali del tutto casualmente, ma mi aspetto questo ed altro dal vecchio sergente. Il giro non è stato particolarmente lungo ed alla fine mi sono ritrovato davanti alla scrivania del sergente, illuminato dalla luce azzurrognola ed inquietante del suo Olivetti e, seduto lì davanti, Heero Yuy.

«Iccijojji.» ha esclamato, la fronte appena appena corrugata, quando mi ha visto.

«Ehi, Heero... che ci fai qui?» mi sono avvicinato.

«Ehm...» lui ha indicato il computer. «Una ricerca... per la Une. Se cerchi Hopkins, è andato in bagno.»

Ho annuito, ancora indeciso sul da farsi: andarmene o non andarmene? L'orologio alla parete mi diceva che l'ora di pranzo stava finendo e che, comunque, sarebbe stata la campanella a decidere per me.

Finché l'immagine spettrale di Arale non ha aleggiato nella mia mente, sentire il ticchettare veloce dei tasti premuti da Heero erano stati una valida compagnia. Ma l'immagine di Arale mi ha fatto ricordare che dovevo interrogare proprio il responsabile del mio piano che stava a pochissimi passi da me, illuminato dalla luce azzurrognola di quel vecchio Olivetti.

«Ehm... Heero?»

Aveva smesso di scrivere, mentre io avevo smesso di respirare, teso. «Che c'è?» è stato allora che ha alzato la testa, lentamente, scoccandomi un'occhiata leggermente infastidita, forse per via della mia interruzione. Diciamo che lui non mi aiutava a dire quello che volevo dire.

«Ehm...» mi sono grattato la nuca, cercando il coraggio. «Hai... ehm... saputo di Alex?»

«Sì.» ha risposto lui, lapidario, tornando a digitare sulla tastiera. Siamo piombati di nuovo nel silenzio e io non avevo idea di continuare: avevo paura che, qualunque cosa avessi detto, avrei suscitato la sua ira.

«E... che ne pensi?»

In effetti, è proprio quello che è successo: ha smesso di scrivere e ha alzato gli occhi su di me. «Penso che sia una stronzata.»

Ho sussultato. «In... in che senso?»

«Nel senso che parlarne non cambierà le cose.»

Mi sono ritrovato a grattarmi nuovamente la nuca. «Che... che vuoi dire?» ho balbettato. Lui ha sospirato e si è passato una mano tra i capelli, sembrava, per qualche motivo, rassegnato.

«Voglio dire che Alex rimane comunque Alex, qualunque cosa possa aver combinato.»

Quelle parole mi hanno colpito, perché somigliavano a quelle che ha detto la Johnson appena qualche giorno fa, sul fatto che, per lei, Alex rimane un bravo ragazzo.

«Ma i mafiosi vogliono i favori indietro e... ti fanno trovare la testa di tua sorella nel letto... o...» mi sono ritrovato a sciorinare le convinzioni di Arale, senza un motivo particolare. Avevo capito poco e niente di ciò che aveva voluto dirmi e quelle parole mi sono uscite di bocca prima che avessi il tempo di fermarmi; in più, lui mi guardava come se fossi impazzito.

«Kenny...» mi ha chiamato per nome, e la cosa mi ha mandato ancora di più in confusione: quella doveva essere la prima, se non una delle rarissime volte in cui l'ha fatto. «ma che cazzo di film hai visto?»

Film? Perché avrei dovuto vedere un film?

«Il Padrino?» ho chiesto, infatti, piuttosto perplesso.

«Ma quale Padrino?»

Sembravamo due dementi. Mia madre parla spesso di fare un "dialogo tra sordi", ma solo in quel momento capivo cosa significasse.

Heero ha ripreso a sospirare. «Senti, non so quanto ci sia di vero nelle voci che sono state messe in giro... non credo nella storia delle sparatorie e nelle altre stronzate. Alex non sarà uno stinco di santo, ma non è né un trafficante d'armi, né tanto meno un mafioso.»

«E tu... come fai ad esserne sicuro?»

«Lo conosco da molto più tempo di te.» ha risposto, risoluto. «Parola, Iccijojji, credevo che fossi un po' più sveglio...»

«Eh?»

Heero ha fatto una smorfia che ritengo tuttora indecifrabile e poi ha scosso la testa, sospirando stancamente. «Niente, niente...»

«Arale pensa che sia invischiato in faccende di soldi sporchi.» ho buttato lì, senza pensarci. Dopo che l'ho fatto, ho capito di aver fatto una sciocchezza: Heero mi ha rivolto uno sguardo torvo, molto più di quanto sarebbe stato necessario. Probabilmente, se ne avessi parlato con lei, mi avrebbe detto che ero stato troppo precipitoso o che lui era sospetto.

E da come mi guardava, mi sembrava di averci azzeccato in pieno: mi faceva paura, Heero, in quel momento, mi metteva la tremarella addosso e già me lo immaginavo a prendere un mitra da sotto la scrivania di Hopkins e puntarmelo addosso, dicendomi: "ora che hai scoperto tutto, non puoi più vivere".

Mentre pensavo alle possibilità che avevo per sbrogliarmi da quella spinosa situazione e trovare il modo di andarmene, la porta della biblioteca si è aperta ed io sono balzato sulla sedia. Ho lanciato un grido di spavento, e sono saltato verso l'interno della biblioteca, mentre Heero è rimasto pressoché impassibile.

«Ehilà, Iccijojji! Siamo nervosetti?» è stata la domanda allegra del sergente, quasi quanto lo era la sua faccia. Poi, quando ha visto che io non gli rispondevo, si è rivolto a Heero e ha fatto un cenno verso di me. Mi sentivo come se non ci fossi. «Ma che ha?»

«Crede che Ramazza sia un poco di buono.» ha risposto Heero, tornando a guardare il computer.

«Ah, anche lui?» Hopkins ha scosso la testa e sospirato con fare stanco. Mi sono chiesto perché. «Povero Ramazza, è un tipo così per bene... è triste vedere che, per una stupida voce, anche i suoi amici non si fidino più di lui... pure la ragazzina bassa... Norimaki...» ha scosso di nuovo la testa, stavolta davvero dispiaciuto. «E' così simpatica... ma ha idee bizzarre, in testa. Pensa che Douglas Kushrenada sia un esponente della mafia.»

Heero ha alzato gli occhi su di lui, un'espressione sconcertata gli ha deformato il volto. «D-davvero?»

«Eh...» ha confermato il bibliotecario. Heero ha nascosto il viso tra le mani, ma, come già un'altra volta, non ho capito se ridesse o piangesse.

Ma la sua reazione ha avuto il potere di farmi sentire anche peggio: ho sempre saputo che avrei dovuto pensare anche io che era una grandissima scemenza, eppure mi ero lasciato abbindolare dal fatto che Alex e Frank fossero amici e che il primo sia stato in riformatorio. Mi ha fatto spaventare e non ho pensato alla cosa più importante: che Alex è un mio amico.

«Sergente, a parte gli scherzi, non ha un programma per aprire gli zip?» ha chiesto Heero, interrompendo il profondo silenzio che si era venuto a creare.

«Mi dispiace, ho solo solo solitari di terza categoria!» ha ribattuto lui e ha rivolto a Heero un sorriso colpevole. «Il Ministero mi impedisce di avere un computer un pelino più potente. Sai com'è... i soldi che mancano. Mancano sempre e quando c'è da tagliare, chi tagliano fuori, eh? Il povero bibliotecario, ecco chi! Uno che di computer ci capisce quanto un dromedario.»

Non ho fatto in tempo a pregare che suonasse la campanella e mi desse la scusa per allontanarmi da quel posto, che il suo suono inconfondibile è esploso quasi a festa. Salutando a malapena, sono corso fuori, in cerca della libertà. Avrei voluto tornare in camerata, in barba a tutte le lezioni (oltretutto c'era educazione fisica), ma Arale mi ha intercettato su per le scale.

«Ah, ti ho trovato! Dov'eri?» ha chiesto, affiancandomi e seguendomi fino al pianerottolo del secondo piano.

«In biblioteca.»

«A fare che?»

«Ho parlato con Heero.»

Lei si è illuminata. «Oh, bravo!» mi ha lodato, con un sorriso radioso. «E che cosa hai scoperto?»

Per esempio che eravamo pessimi amici, ma ho evitato accuratamente di dirlo. «Ehm... non molto.» mi sono limitato a rispondere.

«E cos'è questo... non molto?» ha insistito.

«Heero non crede che le voci che circolano siano vere...»

«E ci credo!» ha ribattuto lei, con convinzione. Mi sono sentito un idiota: perché lei stessa diceva che ci credeva, quando anche lei ha contribuito ad alimentare le voci? «Chi può credere alla storia del falso rapimento di Kushrenada o al fatto che Alex è il figlio segreto del senatore Douglas? Dai...» ha scosso la testa, con indignazione. «sono supposizioni che non reggono!»

Se lo diceva lei ci credevo, anche perché era la prima volta che sentivo dire che Alex è il figlio segreto di Douglas Kushrenada. A dire la verità, non ho ancora ben chiara la faccia di questo senatore.

«Ma no...» ho risposto. «Parlavo delle sparatorie e della mafia.»

«Oh, certo... anche lui non ci può credere... sembra che nessuno ci creda. E la cosa mi puzza assai.» si è grattata il mento, osservando il soffitto illuminato e grigio, mugolando tra sé e sé. «Un vero rompicapo...»

«Arale?» l'ho chiamata, dopo che, arrivati al quarto piano, ci avviavamo verso la nostra camerata. Non ne potevo più di sentirla borbottare cose che non riuscivo ad intendere e che, sicuramente, portavano Alex nella posizione di essere ancora più pericoloso di quanto non credessimo.

«Che c'è?»

«Perché non lasciamo perdere?»

«Onestà e...»

«A parte quelle!»

«Perché dovresti trovare un altro motivo?» ha sbuffato. «Anzi, ce l'ho: la giustizia!» di nuovo, si è battuta il pugno sul palmo; nei suoi occhi c'era una luce sinistra che mi ha fatto una paura enorme. Somigliava a Pan, in uno dei suoi momenti maniacali.

«Ma...»

«Niente ma. Adesso io e te andiamo da Ernesto Taylor e finiamo di raccogliere informazioni.»

«Veramente...»

Non ho potuto ribattere: la mia amica mi ha trascinato fino alla camerata del suo anno ed è entrata senza neanche bussare. La cosa non ha suscitato stupore, ma non in quelli che avrebbero dovuto provarlo: in quella camerata, nella stanza dei ragazzi, insieme ad un gruppo, in cui riconobbi anche Ernesto, c'erano Alex e Frank. Erano tutti intorno ad un letto e, sebbene non potessi vedere cosa ci fosse nel mezzo, vedevo che avevano tutti delle carte tra le mani.

«Oh, Kenny, Arale!» ci ha salutati Alex, con un sorriso smagliante. «Perché non venite a giocare con noi?»

«A che si gioca?» ha voluto sapere lei, con una faccia tosta così incredibile che sono arrivato a chiedermi se tutto quello che è successo nei giorni precedenti non fosse stato altro che un brutto sogno.

«A poker.» ha risposto lui, orgoglioso.

«Sì, ma fasciamo puntate piccole.» ha risposto Ernesto Taylor. A guardarlo da vicino è ancora più brutto di quanto si possa immaginare: non solo ha la faccia costellata di brufoli pieni di pus, ma ha anche i denti gialli e un fiato pestilenziale. Il fatto, poi, che li abbia sempre fuori non migliora le cose.

Ci ho passato tutto il pomeriggio accanto, a giocare a poker e a perdere i pochi spiccioli che mi rimanevano. Immaginavo solo cosa avrebbe detto la Une, nel vederci sperperare il nostro denaro, piuttosto che arricchire le nostre menti. Ho preferito non pensarci, sinceramente, e di godermi quel momento di assoluta tranquillità insieme a tutti i miei amici. Mi hanno dovuto insegnare le regole, ma sarebbe stato più facile insegnarlo ad un muro e questo se le ricorderebbe sicuramente meglio di me. Tutti gli altri giocatori, quando buttavo via delle carte, ululavano come lupi. «Kenny, quella dovevi tenerla!» mi dicevano sempre. L'ultima volta, Alex ha imprecato.

«Ah... ah, sì?»

Arale ha annuito. «Non che ci dispiaccia che l'hai buttata, ma sai... in questo modo perderai tutto...»

«Beh, forse è meglio che mi ritiro, allora...» ho detto, mogio.

«Ah, tranquillo, ti restituiamo tutto.» mi ha consolato Frank.

«Eh, no, Frankie!» ha ribattuto Alex, indignato. «Se io vinco, me li prendo! Lo sai che Heero ha alzato i prezzi delle sigarette?»

«E come mai?» ha voluto sapere Ernesto.

«Perché quella vacca della Une ha qualche vago sentore di questi traffici, a quanto sembra... e Heero ci gioca il culo, ogni volta. È il prezzo del rischio!»

«E come l'ha scoperto?» ho chiesto.

Frank ha lanciato un'occhiataccia ad Alex. «Colpa di qualche coglione che ha buttato il pacchetto vuoto in uno dei cestini in corridoio.»

«E chi è stato?» ho chiesto.

Arale ha alzato gli occhi al cielo, mentre Alex ha sbuffato.

«Io, io sono stato! Sono io il coglione! Porca puttana... è che ho visto una sventola del terzo anno... porcaccia la miseria, aveva due bombe qui davanti!»

«Grazie per la delucidazione, Alex.» ha risposto Arale, piccata.

«Non c'è di che.»

Abbiamo riso tutti quanti, persino Arale che, però, ogni tanto mi lanciava degli sguardi significativi, come per dire che era tutto calcolato o che, in quella partitella tra amici, c'era invece un giro di soldi sporchi o qualcosa di simile.

Ci siamo staccati da lì solo verso l'ora di cena, per scendere tutti insieme. Gettando le carte in mezzo al tavolo, ero pronto a lasciare la stanza e la compagnia di Ernesto, quando proprio lui mi ha afferrato per una spalla. Arale ha notato il gesto e così ha esortato tutti gli altri a sbrigarsi, spingendoli letteralmente fuori dalla stanza. «Su, sbrigatevi! Ho una fame da lupi!»

«Piano, Arale, non spingere!» ha protestato Alex.

«Tu non hai fame?»

«Sì, ho fame, ma hai proprio bisogno di mandarmi col culo per aria?»

«Oh, quanto la fai lunga...»

Nel giro di qualche secondo, io ed Ernesto eravamo soli, in piena intimità. Mi sentivo come una specie di animale braccato. Ho deglutito, particolarmente nervoso.

«Scenti...» ha esordito. «Arale mi ha detto che tua sciorella ha un debole per me.»

La mia prima reazione è stata quella di ridergli in faccia, ma poi mi sono trattenuto: mia sorella, che io sapessi, non aveva un debole per nessuno e, chissà perché, ero convinto che non potesse piacerle Ernesto. Insomma, non rientrava nei suoi canoni di bellezza, o almeno così pensavo, dato che dice sempre che Trunks, il figlio di Bulma e Vegeta, che è tutt'altro tipo di ragazzo, rispetto ad Ernesto, anche se, devo dire, Trunks è anche molto più grande. Anzi, per la verità, dice sempre che è l'unica cosa buona che quei due siano mai stati in grado di fare.

Mi sono salvato in calcio d'angolo con un mezzo sorriso. «Eh?»

«Eh... Arale mi ha detto che io le pascio. Non è incredibile?»

«Sì... sì, abbastanza.»

Ernesto mi ha guardato con un'espressione di educata perplessità. «Scenti, allora... posso chiederti un favore?»

Stava per chiedermi il modo migliore per dirle che non era il caso, che lui amava un'altra o che non era il suo tipo. Già mi figuravo la scena: Ernesto che cadeva a gambe all'aria, il naso sanguinante e mia sorella di fronte a qualche corte marziale, insieme a qualche pannocchia.

Ho deglutito, ma ho annuito, per educazione.

Lui sembrava soddisfatto. «Le puoi dire che sarò felisce di passare la pauscia pranzo di domani con lei? E che, sce vuole, posciamo shtudiare inscieme?»

Sono letteralmente saltato sul posto gridando, cosa che mi ha garantito un'occhiata più che stupefatta da parte sua.

La sola idea di fare una cosa del genere mi faceva pensare a me stesso in una bara. Ebbi l'impulso di dire di no, ma mi fermai di nuovo e stavolta in tempo: avrei fatto la parte dello schifoso maleducato a rifiutare così. Poteva anche non piacermi per via del suo alito o dei suoi brufoli, ma non mi andava di essere la causa dei mali di qualcun altro: dopo aver ammazzato me, Pan avrebbe ammazzato pure il mandante.

«Vedi...» mi sono grattato dietro la nuca, in imbarazzo. «Pan... è... un po'... complicata.» ed era l'aggettivo più carino che mi fosse venuto in mente. Insomma, non ha visto che cosa aveva voluto fare a quel ragazzino, motivo per cui mangiavamo schifezze tutti i giorni?

«In che scenscio?»

«Ehm... nel senso che... ogni tanto... picchia la gente.»

«Oh, lo scio. È per queshto che mi piasce.»

La mamma dice spesso che nessun uomo sano di mente chiederebbe la mano di mia sorella, a meno che non cambi e diventi una perfetta donna di casa, paziente, disponibile e sensibile. Ora ho un dubbio: o Ernesto è completamente matto, oppure mia madre ha torto marcio. Ma io propendo di più per la prima.

«Ti prego, diglielo tu!» ha continuato. «Io sciono troppo timido... poi, quando sono davanti ad una ragazza che mi piasce, divento roscio e balbetto come un idiota. Ma quella è tua sciorella. Sciono scicuro che ti ashcolterà.»

Mi ha preso sottobraccio e, come se fossimo stati amici di vecchia data, mi ha condotto fino alla sala mensa. Abbiamo tenuto lontano l'argomento Pan (io non ho mai neanche accettato di parlarle), e ci siamo concentrati sulle lezioni.

Pare che anche per Ernesto le lezioni di Bristow siano monotone. Mi ha raccontato che, l'anno prima, quando era al primo, si è fatto delle dormite impressionanti. Mi ha anche confidato che per il suo esame di fine anno non mi devo preoccupare e che Bristow dà una mano e che non fa come la Une, che se si è titubanti su qualcosa, ti marca ancora più stretto.

«E come sono quelli del secondo?»

«Sciono più cattivi, ma lo devono escere perché le materie sciono più difficili.»

«E Marquise?»

«Oh, Marquish è fantashtico! Shtudiereshti sciolo la sciua materia per come è interesciante. Sciolo che ci sciono anche le altre. Sciono più pescianti, ma non sciono male. Il primo anno è il più duro, poi ci fai l'abitudine.»

Sono rincuorato solo da questo, perché per il resto...

Quando siamo entrati nella mensa, mi ha stretto, se possibile, ancora di più a lui. «E' belliscima!» ha sospirato. Stavo per chiedergli chi, ma mi è bastato seguire il suo sguardo per capire che stava davvero parlando di mia sorella, seduta di spalle al tavolo del primo anno corso B.

Bellissima, non è l'aggettivo che userei per mia sorella, a meno che non debba farlo sotto una delle sue peggiori torture.

«Se... se lo dici tu...» mi sono ritrovato a borbottare.

«Oh, mi raccomando! Diglielo!»

E così dicendo, mi ha lasciato andare e si è fiondato al tavolo con i suoi compagni. Sono andato al mio e, con lo stomaco che brontolava per la fame, mi sono seduto tra Arale e Tai Yagami, che stava mangiando un pezzo di pane al burro. Dato che tutto quello che c'era nei piatti degli altri era qualcosa di informe e di un improbabile color viola, ho seguito il suo esempio.

«Allora, che ti ha detto?» mi ha chiesto Arale, solo quando ho finito il secondo.

«Che gli piace Pan.» ho risposto, in un sussurro, troppo spaventato che lei potesse sentirmi, a due posti di distanza.

«Ma no! Io parlavo di Alex e Frank!»

«Perché avrebbe dovuto parlarmi di...» mi sono fermato, mentre mi tornava in mente un'informazione. Ho abbassato la voce, stando bene attento a quello che facevano gli altri prima di continuare. Nessuno era interessato a noi: Bra era impegnata a parlare con le altre, Yagami parlottava con Trowa Burton dall'altra parte del tavolo, Alex e Frank non c'erano, Pan mangiava e stava in silenzio, del tutto incurante di quello che le accadeva intorno. «Sei stata tu a mandarlo da me, dicendo che a Pan piace Ernesto!»

Arale ha alzato gli occhi al cielo, esasperata. «Sì, perché volevo che tu lo interrogassi!»

Non credevo di aver capito. «Non sarebbe stato più facile dirglielo e basta?»

Di nuovo, ha mostrato esasperazione. «Kenny, ti prego... connetti il cervello, ogni tanto.» mi ha detto. «Vedi, se gli avessi detto che lo dovevi interrogare su Alex, non pensi che si sarebbe insospettito e gli avrebbe detto qualcosa, che ci avrebbe smascherati? Così ho pensato: diamogli un pretesto per avvicinarsi a Kenny così le nostre teste staranno al sicuro sui nostri colli!»

«Ma... scusa... tu eri vicino a lui, oggi... perché non gliele hai fatte tu, le domande?»

«Oh, che suocera!» ha sbottato lei. «Senti, Kenny, se tu vuoi fare il cagasotto a vita, fai pure. Non vuoi partecipare alle indagini? Bene! Continuo da sola! Stai pure con i tuoi amici mafiosi!» e così dicendo si è presa un altro panino e l'ha trangugiato. Ho abbassato lo sguardo, sentendomi un bel po' in colpa: quello poteva essere considerato l'ennesimo tradimento ad un amico?

Arale sembra pensarlo, perché non mi ha parlato per tutto il resto della sera.


*****


Aggiorno con un mostruoso ritardo, ma spero che sia valsa la pena di aspettare. La verità è che ho proprio avuto un blocco mostruoso con questa storia e solo stasera mi è venuta voglia di riprenderla e di completare questo capitolo, già a buon punto da diversi mesi.



Prof: spero che la mia fedelissima commentatrice non abbia perso le speranze! XD Come ho già detto, ho avuto qualche difficoltà a completare il capitolo, ma spero che ti sia piaciuto ugualmente. Non esitare a farmi notare errori e imprecisioni, anche di trama. >.<

  
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