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Autore: Kukiness    10/06/2010    28 recensioni
La prima volta che mi venne il ciclo avevo tredici anni e due mesi, e con me non c'era nessuna donna che potesse aiutarmi.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Charlie Swan, Isabella Swan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
- Questa storia fa parte della serie 'Parenthood'
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Nota del 7/9/2012

Questa storia è dedicata a mio padre.





SPAZZOLE

La prima volta che mi è venuto il ciclo avevo tredici anni e due mesi, e con me non c'era nessuna donna che potesse aiutarmi.

Mi trovavo a Forks da ormai due settimane, per i miei “tre-mesi-con-papà”. Ero più o meno preparata psicologicamente al fatto che prima o poi mi sarebbe dovuto succedere, e a grandi linee sapevo anche che cosa sarebbe successo – la mamma mi aveva riempita di strani opuscoli presi dal ginecologo e mi aveva più o meno costretta a fare un “discorsetto speciale” fra donne – ma la mia idea di prima o poi aveva più a che fare con il poi che con il prima. Quando successe, scoprii di non essere pronta. Per niente.

Erano le dieci del mattino e io avevo cominciato a fare i compiti delle vacanze per riempire il vuoto piattume delle giornate estive a Forks. Mi ero accorta di provare uno strano fastidio al basso ventre, ma mi ero convinta di aver probabilmente mangiato cereali e latte scaduto a colazione. Era tipico di Charlie non pulire il frigo troppo spesso ed era già capitato che scoprissi pezzi di formaggio verdi di muffa o vasetti di sottaceti con una strana patina bianca che galleggiava in superficie. Non mi preoccupai molto e continuai a fare i compiti in cucina.

Poi accadde.

Fu una sensazione strana, come se si fosse improvvisamente sciolto un nodo sconosciuto tra le mie viscere e improvvisamente qualcosa di caldo e viscido mi scivolò tra le cosce. Il mio primo pensiero fu “okay, riesco a farmi male persino sedendomi su una sedia.”

Poi realizzai.

Oh.

Scattai in piedi e barcollai in bagno con le gambe larghe e una sgradevole sensazione di umido calore tra le cosce. Presi della biancheria pulita, mi tolsi i vestiti scalciando e mi lavai frettolosamente sotto la doccia, sforzandomi di nonguardare il sangue che colava nello scarico. Cercai a tentoni le mutandine che avevo appoggiato sul mobile del bagno. Solo in quel momento mi resi conto di non avere assorbenti con me.

Mi sentii improvvisamente disperata e mi venne da piangere.

Rimasi a singhiozzare per qualche minuto appoggiata alle piastrelle e mi venne persino in mente di non uscire mai mai mai più dalla doccia, di restarci per tutti quei quattro orribili giorni finché non fossi morta dissanguata. Ma la pancia mi faceva male e quel fastidio insistente mi ricordò che era il caso di darsi una mossa.

Avvolsi le mutande nella carta igienica – penso di aver consumato un intero rotolo, per il terrore di toccare il sangue con le mani – e aprii lo sportello dei medicinali dietro lo specchio. Non rimasi sorpresa nel non trovare niente che potesse aiutarmi, eppure la cocente delusione mi fece strizzare gli occhi nel tentativo di trattenere le lacrime. C'era schiuma da barba, il rasoio di Charlie, una scatola di cerotti, una confezione di aspirina vuotadel... 1980. Mio Dio. Un barattolo di cotton-fioc e due flaconi di sapone. Ah, e un rotolo di spago.

Wow. Se fossi McGyver con tutte queste cose potrei costruirci un assorbente. O una bomba.

Sospirai e mi diressi in salotto con le gambe larghe e con la sensazione che qualcuno, dall'interno, mi stesse spingendo le viscere verso il basso. Presi il telefono e credo che restai immobile con la cornetta in mano per una manciata di minuti, pregando nell'intervento divino per qualsiasi cosache mi evitasse di fare quellatelefonata. Un venditore ambulante di assorbenti, per esempio. O un armadio di cui non conoscevo l'esistenza pieno zeppo di tampax.

Ovviamente non accadde nulla.

Gemetti e composi il numero. Due squilli e poi il clickdella cornetta che veniva sollevata.

«Stazione dello sceriffo di Forks, buongiorno,» disse una gracchiante voce maschile.

«Ehm. Sì, salve. Posso parlare con lo sceriffo Swan? Sono sua figlia.»

«Oh, Bella, sei tu! Non ti avevo riconosciuta. Te lo passo subito.»

Attesi in linea qualche secondo, poi rispose la voce di mio padre.

Esordì con un «Che succede?», perché di solito non lo chiamavo mai a lavoro.

«Papà? Senti, ehm, ho bisogno di andare un attimo al supermarket. Posso...»

«Al supermarket?» mi interruppe, un po' sorpreso. «Perché? Guarda che è lontano, non ci puoi andare a piedi.»

«Sì, lo so che è lontano. Per questo ti ho chiamato. Volevo sapere dov'è la tua vecchia bici, così faccio prima.»

«La vecchia bici? Ma l'ho buttata un paio di anni fa, tanto non la usavo mai.» Si schiarì la voce. «Ma se ti serve qualcosa per la cena posso passarci io dopo il lavoro.»

Mi venne voglia di urlare.

«No, non è per la cena. È... un'altra cosa.»

«Ah, sì, mi sono dimenticato di dirtelo. Se hai fame, ho preso delle merendine. Sono nell'armadio basso, puoi mangiare quelle.»

«No, papà, non si tratta di cibo.» Mi accorsi di digrignare i denti. Mi sembrava di essere sul punto di morire: mi faceva male la pancia, mi sentivo bollire dall'imbarazzo e la carta igienica tra le mie gambe mi dava un gran fastidio. Non riuscivo a dire quella parola e mi sentivo così stupida. «È un'altra cosa. Una cosa da donne

«Ti serve una spazzola?»

Gemetti. «Non posso chiedere alla vicina se mi accompagna?»

«Perché vuoi disturbare la vicina per una spazzola? Abbiamo tre pettini nel cassetto.»

Fu come se qualcosa in testa si fosse spezzato. «Non capisci niente!» strillai nella cornetta. «Mi sono venute le mestruazioni!»

Appesi. Poi scoppiai a piangere.

§*§

Mi rinchiusi di nuovo nel bagno. Non so quanto tempo trascorsi a singhiozzare, seduta nella doccia. So solo che mi sentivo come se avessi perso qualcosa di importante e che non sarebbe mai tornato indietro. Mi facevano male la pancia e la testa, mi sembrava di avere la schiena a pezzi e non osavo neppure pensare a quello che stava succedendo dentro i miei pantaloncini da ginnastica. La sola idea mi dava la nausea.

Volevo la mia mamma, volevo che mi dicesse che andava tutto bene, che era normale, e che mi preparasse un tè caldo. E non volevo più stare così.

Poi qualcuno bussò alla porta del bagno.

«Bells?» Era la voce di Charlie.

«Va' via! Io di qui non esco.»

Sentii il crocchiare della carta e il frusciare di qualcosa. «Allora te li metto qui?»

Alzai la testa verso la porta chiusa.

«Cosa?» mugugnai.

Dal corridoio ci fu un attimo di silenzio. Pensai che se ne fosse andato, poi lo sentii schiarirsi la voce. «Le, ehm, cose. Per te. Per quella cosa.»

Mi alzai dolorante, con la sensazione di avere le gambe rigide come tronchi. Barcollai fino alla porta e aprii uno spiraglio. Charlie era vicino alle scale, ancora in divisa, che fissava a disagio un punto indefinito all'altezza dei miei piedi. Abbassai lo sguardo.

C'erano tre borse della spesa, gonfie come zucche di Halloween. Erano piene zeppe di scatolette e pacchettini quadrati, di sacchettini di plastica dai colori pastello – azzurrino, violetto, verdino, rosa confetto. Erano assorbenti. Assorbenti lunghi con ali, senza ali, con salva-slip. Assorbenti flusso intenso, flusso debole, assorbenti da notte, da giorno, corti, doppi, profumati. Per la menopausa. Per le piccole perdite. Anche quelli per la pipì.

Mancavano solo i pannolini per i neonati ed eravamo a posto.

Alzai lo sguardo su Charlie, che ora fissava me con una strana espressione sul volto.

«Ti ho preso anche delle merendine»

E tornò di sotto senza aggiungere altro.

Mi sentii un po' meglio, dopo.

 

Fine

 

 

© Non possiedo ovviamente né Twilight né i suoi personaggi né la sua ambientazione, ma questa storia sì. È stata scritta senza scopo di lucro e gradirei che così rimanesse. Se volete pubblicarla altrove, citarla, recensirla, tradurla, stamparla e farci coriandoli, siete assolutamente liberi di farlo, basta riportare i dovuti credits. So long, and thank you for all the fish.




   
 
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