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Autore: Aidlyn    06/09/2005    4 recensioni
Luisa è una bambina sveglia e con un gran desiderio di fuggire dalla realtà domestica che la circonda. Un giorno questo desiderio viene realizzato, ma in maniera del tutto inaspettata.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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La veneziana - 1

Questa fiction nasce da una mia precedente one-shot intitolata “Un’alba da lupi”, pubblicata alcuni mesi fa. Ho impiegato un po’ per elaborare la trama e adesso che sono finalmente riuscita a trovare la vena ispiratoria, comincio a pubblicarla. Vi avviso fin d’ora che la pubblicazione non sarà a scadenze regolari, un po’ per i miei impegni e un po’ perché per rivedere e correggere con calma è necessario del tempo.

Passando alla storia vera e propria, per chi non avesse letto la one-shot, consiglio di darci un’occhiata, ma ai fini del racconto, non è strettamente necessario.

La città in cui si svolge il racconto è ovviamente Venezia, città che amo in modo particolare e che non mi stanco mai di visitare. Si tratta di una Venezia passata, però, ed è per questo che il registro usato per i dialoghi è volutamente arcaico e infarcito di parole e modi di dire desueti. In alcuni casi inoltre, mi sono avvalsa di termini tratti direttamente dal dialetto. Al fine di rendere a tutti comprensibile questa lettura, ho ritenuto opportuno aggiungere alcune note che troverete alla fine di ogni capitolo. Per eventuali ulteriori delucidazioni, non esitate a chiedere.

Quanto ai nomi propri, sono stati scelti pensando a quelli che potevano essere più verosimili e in alcuni casi verranno usati nomignoli e abbreviazioni degli stessi; per farvi un esempio, in Veneto il nome Giovanni veniva trasformato in Joanin o Joan (la “j” è da leggere come “i” semplice) o ancora Giuseppe diventava Bepi, e via dicendo.

Bene, detto questo vi lascio alla lettura del primo capitolo.

Saluti,

 

Aidlyn

 

 

 

La veneziana

 

Capitolo 1

 

 

Le braci del camino – l’unico di tutto il piano e malfunzionante – si stavano lentamente spegnendo, emanando stancamente gli ultimi bagliori prima dell’oblio. Anche a volerle riattizzare, sarebbe servito a poco, visto che di legna, per quella sera, non ce n’era più.

Con altrettanta lentezza, la vecchia allungò le mani artritiche sul lampione poggiato accanto a lei, ancora acceso. Sebbene il lume fosse fioco, sapeva bene come muoversi e l’età avanzata non sembrava essere un ostacolo. Con piccoli passi un po’ malfermi, si avvicinò al letto, scostandone le coltri polverose.

Due, tre colpi di tosse, poi di nuovo silenzio.

“Luisa, Luisa… stai bene?” bisbigliò appena una voce di donna di molto più giovane. Caterina era arrivata da poco a servizio dei padroni e poiché non era né bella, né particolarmente brillante per intelligenza, era subito stata relegata nelle cucine, dove nessuno avrebbe avuto da ridire sul suo aspetto o sul suo cervello. Lì, bastava avere un paio di braccia robuste per menare la polenta e tanto olio di gomito e di questo e di quello, Caterina ne aveva in abbondanza.

“Sì…” gracchiò la vecchia, Luisa, sdraiandosi sul materasso umido e indurito, “Va tutto bene.”

Da quasi dieci anni, Luisa divideva la stanza con altre donne. In genere, essendo la serva più anziana della casa, le venivano affidate le ragazze più giovani, quelle appena arrivate dalle campagne, che non avevano idea di come ci si dovesse condurre in una casa di gente danarosa. Insomma, era una specie di balia e di maestra per le giovani apprendiste. Da quasi dieci anni ormai, la sua stanza era diventata peggio che uno dei tanti moli di Venezia: un andirivieni di ragazzine ingenue e rozze da trasformare in cameriere o sguattere. Caterina non era che una delle tante, non era la prima e non sarebbe stata di certo l’ultima.

“Luisa…” mormorò la ragazza, scostando le proprie coperte per guardare nella sua direzione.

“Che vuoi?” domandò bruscamente la vecchia. La ragazza non brillava certo per intelligenza, ma era più curiosa delle scimmiette che la padrona di casa si ostinava a comprare e che morivano nel giro di pochi mesi.

“Niente…” rispose quella, un po’ delusa.

“E allora, mi spieghi perché mi hai chiamato?” borbottò, indispettita.

“E’ che… fa un po’ freddo qui dentro…” osò confessare la ragazza.

“E tu copriti allora!” fece Luisa, di rimando. Aveva raggiunto un’età in cui non sarebbero bastati dieci camini accesi in un’unica stanza per scaldarla a dovere. Ormai le sue vecchie membra consunte dal lavoro erano fredde e raggrinzite. Eppure, c’era stato un tempo in cui anche lei, al pari di Caterina e di tante altre, era stata giovane. Con un pizzico di nostalgia, Luisa ripensò a quando era arrivata in quella grande casa.

Aveva sì e no dieci anni e i suoi occhi scuri erano rimasti sbarrati davanti alla magnificenza che si ostentava in quella grande villa. Era appena una ragazzina, ma di lavoro duro e vita grama ne sapeva come una donna con il triplo dei suoi anni. Luisa era nata e cresciuta nella laguna, dove ci si svegliava con la nebbia, e con la nebbia si andava a dormire, dove l’umidità e l’aria salmastra impregnavano i vestiti e consumavano le ossa. Sì, proprio lì era nata, da una famiglia di vetrai, rozza e numerosa.

Non ricordava il motivo preciso per cui aveva preso servizio presso quei signori di Venezia; erano passati più di cinquant’anni da allora. Però ricordava bene la sensazione di grande aspettativa che l’aveva pervasa quando sua madre le aveva comunicato che di lì ad un giorno sarebbe andata a stare in città.

 

“Domani andrai a Venezia con tuo padre.” Le aveva annunciato all’improvviso la madre, togliendo le mani dall’impasto di farina e acqua e strofinandosi il naso. Luisa rimase di stucco: nei suoi dieci anni di vita, non si era mai spinta oltre il sagrato della chiesa.

“Non guardarmi con quel muso, sciocchina! Tuo padre non ti ci porta per metterti in mostra! Da domani, la tua vita cambierà!”

Le parole della madre, seppure pronunciate in maniera così sbrigativa, erano risuonate alle sue orecchie infantili come qualcosa di solenne: la sua vita sarebbe cambiata. Oh, sì, sarebbe cambiata!

Luisa si molleggiò sulle ginocchia, cambiando espressione: “In che senso?”

“Nel senso che da domani in poi, invece di servire tuo padre e i tuoi fratelli, servirai i tuoi padroni!” sbottò la donna, rituffando le proprie mani nell’impasto.

Non c’era alcuna espressione di rammarico negli occhi di quella donna, nessun rimorso nell’aver detto alla propria figlia che probabilmente non si sarebbero più viste e che quella in cui Luisa era cresciuta non sarebbe più stata la sua casa.

Dal canto suo, Luisa non sapeva cosa dire. Era chiaro come non fosse in grado di comprendere a fondo quanto le era stato appena detto, ma non sembrava importale molto. Ciò che era veramente importante in quel momento, era che finalmente se ne sarebbe andata da quel posto e che non vi avrebbe più fatto ritorno. Non avrebbe più respirato quell’aria putrida e non avrebbe più dovuto sopportare le cattiverie che i suoi fratelli le riservavano solo perché era la femmina più piccola.

“Beh, che c’hai adesso? Ti metterai mica a piangere?!” la minacciò quasi con orrore la madre, agitandole un mestolo di legno sotto il naso e scrutandola con intenzione.

Piangere? Oh, no! Affatto! Al contrario, avesse potuto, si sarebbe messa a ballare sul tavolo! Ma non era prudente mostrare i propri sentimenti. Se c’era una cosa che aveva imparato a sue spese, era che non si doveva mai, per nessuna ragione al mondo, dimostrare i propri stati d’animo; meno che meno la propria felicità.

 

Era andata proprio così, quel giorno. Alla sua veneranda età, erano poche le cose che Luisa ancora riusciva a ricordare con tanta precisione; eppure rammentava il timbro di voce della madre, il rumore ritmico delle sue mani mentre impastava, la luce che proveniva dalle finestre sporche. Ma più di tutto, ricordava la sensazione di sollievo che aveva provato. Sarebbe svanita presto, sovrastata dall’angoscia di trovarsi a vivere con persone delle quali non sapeva nulla e in un luogo di cui aveva sentito solo parlare.

La vecchia Luisa si strofinò le dita artritiche sul viso pieno di rughe.

Sì, anche lei era stata giovane, come lo era Caterina in quel momento. Ma a differenza della sua attuale compagna di stanza, era stata graziosa e intelligente, anche un po’ troppo per il posto in cui si trovava. Del resto, se fosse stata appena un po’ più sprovveduta, non avrebbe potuto vivere come aveva vissuto in quella grande casa, così piena di gente pronta a tutto pur di guadagnarsi un posto sicuro.

 

Tutto era cominciato quando il padre l’aveva portata al palazzo dei signori, una grande casa, piena di belle cose: mobili intarsiati, soprammobili, tappezzerie damascate e lampadari di vetro, come quelli che tante volte aveva visto fabbricare nell’officina di casa, con l’unica differenza che lì i lampadari erano appesi ai soffitti.

La mattina era iniziata come tutte le altre: fredda e cupa. La laguna era fosca e la visibilità non superava i dieci metri. Il padre di Luisa caricò alcuni pezzi sulla barca destinati alla vendita al mercato. Non si trattava di oggetti di valore, ma avrebbero comunque permesso un discreto guadagno.

“Allora, Luisa! Muoviti! Non abbiamo tutto il giorno!” sbraitò la madre. Nonostante fosse un momento particolare, la donna sembrava del tutto indifferente alla partenza della figlia più giovane.

Forse perché prima di lei ce n’erano altri sette, pensò con cinismo la bambina, infilandosi una mantellina logora, avuta in eredità da una delle sue sorelle maggiori.

Aspettò che il padre avesse caricato la merce sulla prua della barca – poco più che un guscio di noce, a ben vedere – e, afferrate le sue poche cose salì.

Non si voltò neppure a vedere se sua madre fosse rimasta sulla banchina a vederla andare via. Da quel momento in poi, non avrebbe più pensato né alla madre, né a quella casa malandata o a tutto ciò che essa conteneva, pensò con decisione.

Il viaggio era stato noioso e tranquillo. Luisa non aveva proferito parola, né aveva avuto intenzione di farlo. Del resto, quell’uomo che a fianco a lei remava era suo padre solo di nome; di fatto, non era più che un semplice estraneo.

Quando la nebbia cominciò a diradarsi un poco, apparirono agli occhi della bambina i contorni di quella che era Venezia. Era proprio come se l’era sempre immaginata nei suoi sogni: eterea e impalpabile, nascosta dalla foschia.

Luisa era così presa da quella vista, da non accorgersi che la barca si era fermata e che il padre stava legando la cima alla bitta sul molo.

Senza attendere che lui la aiutasse, scese da sola e rimase ad osservarlo mentre scaricava i suoi oggetti di vetro, avvolti con cura e infilati in piccole casse di legno.

“Piero! Allora, l’hai portata?” farfugliò una voce alle loro spalle.

L’uomo che stava sopraggiungendo in quel momento era alto e robusto, anche lui avvolto in un mantello scuro.

“Sì… eccola.” Rispose il padre di Luisa, spingendola appena verso il suo interlocutore. L’uomo la guardò come avrebbe potuto fare con un animale da cortile.

“Bene… ecco qui quello che ti devo. Bada che non te ne darò di più, intesi? Fatteli bastare! Per una marmocchia tutta pelle e ossa come questa…” sogghignò, afferrando Luisa per un braccio e tirandola verso di sé.

“Senti, sei tu che hai detto che andava bene così com’era… non venire a raccontarmi storie!” ribatté Piero, intascandosi i denari per la vendita della figlia. In quel modo, rinunciava per sempre ad ogni diritto su di lei, ma sarebbe stato molto più realistico affermare che se ne stava liberando in maniera vergognosa, seppure per necessità.

“Sì..sì… adesso lasciami andare. Non vorrei essere costretto a riportartela!” aggiunse il tizio.

Gli sguardi di Luisa e di suo padre si incrociarono per qualche istante: ecco, era giunto il momento. Nessuno dei due disse nulla, né un saluto, né una frase di circostanza.

Non lo avrebbe più visto da quel giorno in poi. Quando anni dopo le venne comunicato che era morto, Luisa stentava a ricordare persino il suo volto.

Mentre veniva trascinata per un braccio dall’uomo alto e robusto, la bambina non riusciva a non pensare ad altro che a ciò che l’avrebbe aspettata, una volta entrata in quella casa. Sua madre non si era sprecata molto nel dirle che cosa le sarebbe accaduto, a parte un accenno al dover servire i padroni.

Eppure, Luisa non aveva paura: di qualunque cosa si trattasse, non avrebbe potuto essere molto peggio di quanto non fosse già stato in casa sua.

“Siamo arrivati.” Commentò ad un tratto il suo burbero accompagnatore, “Adesso mi raccomando, non fiatare e lascia parlare me.” Si raccomandò, guardando minacciosamente la piccola. Curiosamente, Luisa non aveva notato prima che il viso di quell’uomo era completamente sfigurato dal vaiolo.

Il palazzo che comparve ai loro occhi era pieno di finestre e bifore; la facciata di pietra grigia aveva un’aria importante e il fatto di trovarsi in una calle piuttosto stretta e poco luminosa lo rendeva anche più imponente agli occhi della bambina.

 

“Luisa? Luisa, ma che fai? Dormi con gli occhi aperti?” squittì Caterina, strappando la vecchia ai suoi ricordi che svanirono in un attimo.

“Lasciami in pace, piccola ficcanaso!” mugugnò la vecchia, guardandola con astio. Da quando quella piccola insolente era arrivata lì, non faceva altro che fare domande stupide o darle noia. Che cosa le importava se lei voleva dormire con gli occhi aperti? Non che Luisa lo ritenesse possibile, ma erano comunque affari suoi e un giorno di quelli Caterina le avrebbe sentite.

 

L’uomo continuò la sua inesorabile marcia, trascinando Luisa come avrebbe fatto con un sacco di patate, ma ad un tratto, approfittando di un momento di indecisione, la bambina riuscì a divincolarsi dalla stretta di quel tipo, lasciandolo per un breve secondo a bocca aperta.

“Che cosa diavolo…” imprecò quello, girandosi di scatto verso di lei, mentre il suo pastrano(1) scuro gli turbinava attorno.

“Sono capace di camminare da sola, sfregiato!” lo apostrofò la ragazzina, arricciando il naso e ritraendosi.

Nel sentirsi chiamare in quel modo a suo avviso così poco rispettoso, l’uomo non ci pensò su due volte, assestando un sonoro ceffone a Luisa. In pieno viso.

“E non provarci mai più!” le gridò contro, mentre l’afferrava per il collo e la trascinava davanti a sé.

Luisa era stata picchiata molte altre volte, persino troppe, per potersi risentire di quel trattamento. Con disgusto per l’individuo che l’accompagnava si morse le labbra, ben determinata a non far sentire neanche un lamento.

“E pulisciti!” ordinò alla fine il bieco individuo.

Lì per lì, Luisa non capì a cosa si riferisse, ma non ci volle un’eternità per intuire che lo schiaffo l’aveva colpita in modo che il labbro superiore si tagliasse. Sentendosi ancora informicolata, non se n’era avveduta immediatamente, ma dandosi una ripulita col dorso della mano, notò come si fosse tutta sporcata di rosso.

I due si lanciarono sguardi roventi e fu proprio in quel momento che la ragazzina si ripromise una cosa: mai più, per nulla al mondo, avrebbe permesso ad un uomo di quella risma di picchiarla.

Tirando su col naso il moccio dovuto al freddo e all’umidità, si lasciò condurre fino al portone di legno scuro e pesante. Lo “sfregiato” scostò un lembo del mantello e, mentre con la mano destra tratteneva per la nuca la bambina, con la sinistra si accinse a scuotere il batacchio. Il rumore che produsse il grosso anello di metallo brunito lo avrebbe sentito migliaia di volte ancora, ma in quell’unica occasione, solo in quella, Luisa sentì un brivido correrle giù per la schiena e percorrerla tutta. Forse per il freddo umido o per l’ansia di non sapere cosa ne sarebbe stato di lei, la piccola si passò le braccia l’una contro l’altra, sfregandosele. L’attesa non fu lunga, ma in quel momento le parve interminabile, poiché mille e più pensieri si affacciarono alla sua giovane mente. Chi avrebbe aperto la porta? Forse una vecchia bitorzoluta e gobba, come se ne vedevano tante nel paese dove aveva sempre vissuto? Oppure sarebbe stato un uomo? Magari alto e scheletrico, con quello strano trabiccolo ferroso che le avevano spiegato chiamarsi occhiali. Continuava a chiederselo, mentre ricacciava con insistenza il pensiero inquietante di non sapere cosa le avrebbe riservato il futuro.

Il portone – quello che poi si sarebbe rivelato solo una delle uscite di servizio – si aprì cigolando e, contrariamente a quel che si aspettava, ad accoglierla non comparve né una vecchia, né un uomo occhialuto, bensì una giovane donna dall’aria florida e sana.

Angelina – quello era il suo nome – degnò appena di uno sguardo l’uomo che l’accompagnava, mentre i suoi occhi neri e penetranti come aghi si posarono immediatamente su di lei, su Luisa.

“E’ magra peggio dei gattini di Sant’Urbano(2)!” constatò, afferrandole un braccino e rimirandola come avrebbe potuto fare con un pezzo di carne appena macellata, “E mi sembrava di avertelo già detto l’altra volta che questo non è un ospizio per randagi.” Aggiunse, finendo di esaminarla.

L’uomo al quale si era rivolta, lo “sfregiato”, fece per protestare, ma fu la bambina ad intervenire per prima: “Non sono un gatto randagio io!”

Con somma sorpresa di entrambi gli adulti, la piccola si liberò per l’ennesima volta della stretta dell’uomo e si scostò da lui bruscamente. Non era un gattino, no, dannazione, non lo era affatto!

Angelina sbuffò, posando le mani grassocce sui fianchi, ma era del tutto inutile: per quanto si impegnasse, non sarebbe mai riuscita ad incutere timore in chi la guardava. Era grassa, a meglio guardarla, e le guance paffute e rosee la facevano sembrare in tutto e per tutto un maialino di latte.

“Oh sì, invece… un gattino magro e spelacchiato. E pure selvatico!” la provocò, mentre sul suo viso si disegnava un sorriso sornione.

“No! Non è vero!” le gridò Luisa, di rimando. Fosse anche una strega vera, come aveva cominciato a pensare, non le importava. Non voleva che quella donna la paragonasse ad un animale o che la trattasse come tale.

“Smettila, sfacciata!” le intimò immediatamente lo sfregiato, tornando ad allungare la sua mano su di lei, ma questa volta Luisa fu più pronta. Con un balzo, evitò la presa dell’uomo e, agile com’era, sgusciò oltre la porta, senza nemmeno pensare a quel che stava facendo.

“Piccola insolente!” esclamò quello, prima di gettarsi al suo inseguimento. Piccola e veloce com’era, avrebbe potuto impiegare un po’ prima di riacciuffarla e nel frattempo poteva combinare chissà quali danni.

“Angelina! Che fai lì sulla porta, imbranata! Chiudila e vieni ad aiutarmi!” urlò all’altra. Ma Angelina non si mosse di un solo passo ed anzi, rimase sulla soglia a ridersela.

“Arrangiati! L’hai portata tu, qui. Adesso goditela!”

L’uomo imprecò, lanciandosi all’inseguimento di Luisa. Quella marmocchia le avrebbe prese di santa ragione, una volta che le avesse messo le mani addosso. La rincorse, ben determinato nel suo intento, ma la sua stazza gli impediva di raggiungere quell’agilità che invece sembrava propria della bambina. Aggirava tavoli, sedie e mobili arrivando ogni volta quasi a sfiorarla, ma quando sembrava che fosse fatta, ecco che Luisa sgusciava via, come una bisatta(3) appena pescata.

“Maledetta figlia del demonio!” sbraitò, quasi incespicando.

Dal canto suo, la bambina continuava a spostarsi da una parte all’altra della stanza, senza mai riuscire a raggiungere un’uscita. In effetti, le uniche due disponibili erano entrambe lontane dalla sua portata. Una era occupata da Angelina, alla quale sarebbe di certo bastato allungare una mano per acciuffarla, l’altra era semi-sbarrata da alcuni sacchi di iuta, probabilmente pieni di qualche granaglia.

Quella sorta di pantomima durò per diversi minuti e sembrò quasi volersi protrarre ancora, quando all’improvviso, facendosi largo tra i sacchi, comparve sulla soglia un’altra persona.

“Che cosa succede qui, Angelina? Vi si sarà sentiti fino ai Frari(4)!” irruppe la donna – perché di una donna si trattava.

Con la stessa rapidità con cui quest’ultima era apparsa, altrettanto velocemente l’espressione divertita di Angelina mutò dall’ilarità ad una sorta di tacita ansia.

Anche l’uomo che rincorreva Luisa si fermò all’istante e per un attimo parve voler essere in tutt’altro luogo.

La donna avanzò, uscendo dalla penombra in cui era immersa, guadagnando il centro della stanza. Aveva un’espressione inquisitrice e fredda dipinta sul volto e Luisa si sentì come raggelata. La nuova arrivata aveva l’aspetto più ossuto che la bambina avesse mai avuto modo di vedere: magrissima e piuttosto in là con l’età, era anche molto alta per essere una donna e aveva due penetranti occhi verdi, infossati, che parevano rubati ad un rapace. I suoi capelli, ancora folti nonostante la vecchiaia, dovevano essere stati biondi ed erano raccolti in una treccia fissata alla nuca.

Riconoscendo all’istante il foresto presente nella stanza, la donna non batté ciglio e, seccata, intimò ad Angelina di andare avanti con le proprie mansioni.

“Quanto a te, Selmo(5), non c’è mai stata una volta, dico una, che non ti comporti come in uno stavolo(6) per maiali!” lo rimproverò, notando il disordine che regnava nella stanza.

L’uomo, punto sul vivo, abbassò il capo, ma non prima di aver lanciato a Luisa un’occhiataccia che la bambina ricambiò cacciando fuori la lingua.

“E tu, bambina? Che mi venga un colpo! Sei stata tenuta fuori dalla porta(7) fino ad ora?” osservò, guardandola con qualche perplessità, ma non attese che Luisa le rispondesse perché tornò a rivolgersi a Selmo.

“Dove l’avresti pescata questa qui?”

“E’ l’ultima della covata di Piero, il vetraio.” Specificò l’interpellato.

“Ti avevo detto che ci serviva un aiuto in casa, non un’altra bocca da sfamare.”

“Se non la volete, posso sempre riportarla alla famiglia o lasciarla a mendicare per le calli.” Ribatté l’uomo. Non ne poteva più di sentirsi dire che quella piccola peste era magra, lo vedeva benissimo anche da sé, ma stando a quanto l’aveva fatto penare poco prima, di certo le energie non le mancavano e il lavoro duro l’avrebbe senz’altro irrobustita.

La donna parve pensarci seriamente per qualche istante, poi sembrò capitolare: “No, lascia perdere. Vedremo che cosa si può farle fare.”

A quelle parole, Selmo si rilassò.

“Te ne puoi anche andare adesso. Non c’è ragione per cui ti debba fermare oltre.” Lo congedò lei indicandogli l’uscita.

Quando l’uomo se ne fu andato, soltanto allora, la donna si voltò verso Luisa che non aveva più mosso un muscolo.

“Allora, come ti chiami?”

“Luisa.”

“Perfetto. Io sono Agnese. Qui dentro faccio rigare tutto dritto da quasi trent’anni, quindi occhi aperti e orecchie sveglie: non sei qui per cianciare. Farai quello che ti dico di fare e vedremo se tenerti o no. Ricordati che non abbiamo bisogno di pesi morti, che di bocche da sfamare qui ce ne sono anche troppe. Se ti comporterai bene, sarai trattata bene, altrimenti, finirai fuori di casa.” Spiegò Agnese tutto d’un fiato.

Luisa annuì. Per essere il primo giorno della sua nuova vita, davvero era cominciato di gran lena.

 

 

 


(1)   Il pastrano è una sorta di mantello di lana, lungo fino ai piedi. In dialetto la dicitura esatta sarebbe “pastràn”; veniva chiamato anche tabarro o gabbano. Piccola curiosità: nella Venezia del ‘700 erano molto frequenti questi capi di abbigliamento, anche tra i nobili, che solevano indossare questi mantelli lunghissimi corredati da una maschera bianca chiamata “bautta” per non farsi riconoscere.

(2)   I gattini di Sant’Urbano sono quelli nati per ultimi, quasi al limite del periodo (stagione) di gestazione. La loro caratteristica è quella di essere magri (a causa della scarsità di cibo dovuta al sopraggiungere della stagione fredda) e gracili. Da qui il detto “essere/somigliare a un gatto di Sant’Urbano”, che significa proprio essere malaticcio.

(3)   La bisatta è niente meno che l’anguilla. Letteralmente significa “biscia”. In alcun casi in dialetto veneto si dice anche “bisàt”.

(4)   “Frari” è il nome abbreviato (per esteso sarebbe “Santa Maria Gloriosa dei Frari”) di una delle chiese più conosciute di Venezia all’interno della quale si trovano celebri opere d’arte e tombe di personaggi illustri come quella del Tiziano e il mausoleo al Canova.

(5)   Selmo è l’abbreviazione di Anselmo.

(6)   La dicitura “stavolo dei maiali” indica letteralmente il porcile e viene usato per definire quei luoghi sporchi e in disordine. In alternativa viene usata la dicitura “punèr” che indica invece il pollaio.

(7)   “tenere qualcuno fuori dalla porta” significa trascurarlo, affamarlo, non curarsi di lui. Più o meno quindi si tratta di un sinonimo del termine “gatto di Sant’Urbano”. In alternativa e con la stessa valenza viene usato il termine puramente dialettale - e difficilmente traducibile in italiano - “Bevùo su dala bèa donna”.

 

 

  
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