Questa fiction nasce da una
mia precedente one-shot intitolata “Un’alba da lupi”, pubblicata alcuni mesi
fa. Ho impiegato un po’ per elaborare la trama e adesso che sono finalmente
riuscita a trovare la vena ispiratoria, comincio a pubblicarla. Vi avviso fin
d’ora che la pubblicazione non sarà a scadenze regolari, un po’ per i miei
impegni e un po’ perché per rivedere e correggere con calma è necessario del
tempo.
Passando
alla storia vera e propria, per chi non avesse letto la one-shot, consiglio di
darci un’occhiata, ma ai fini del racconto, non è strettamente
necessario.
La
città in cui si svolge il racconto è ovviamente Venezia, città che amo in modo
particolare e che non mi stanco mai di visitare. Si tratta di una Venezia
passata, però, ed è per questo che il registro usato per i dialoghi è
volutamente arcaico e infarcito di parole e modi di dire desueti. In alcuni
casi inoltre, mi sono avvalsa di termini tratti direttamente dal dialetto. Al
fine di rendere a tutti comprensibile questa lettura, ho ritenuto opportuno
aggiungere alcune note che troverete alla fine di ogni capitolo. Per eventuali
ulteriori delucidazioni, non esitate a chiedere.
Quanto
ai nomi propri, sono stati scelti pensando a quelli che potevano essere più
verosimili e in alcuni casi verranno usati nomignoli e abbreviazioni degli
stessi; per farvi un esempio, in Veneto il nome Giovanni veniva trasformato in
Joanin o Joan (la “j” è da leggere come “i” semplice) o ancora Giuseppe
diventava Bepi, e via dicendo.
Bene,
detto questo vi lascio alla lettura del primo capitolo.
Saluti,
Aidlyn
La
veneziana
Capitolo 1
Le
braci del camino – l’unico di tutto il piano e malfunzionante – si stavano
lentamente spegnendo, emanando stancamente gli ultimi bagliori prima
dell’oblio. Anche a volerle riattizzare, sarebbe servito a poco, visto che di
legna, per quella sera, non ce n’era più.
Con
altrettanta lentezza, la vecchia allungò le mani artritiche sul lampione
poggiato accanto a lei, ancora acceso. Sebbene il lume fosse fioco, sapeva bene
come muoversi e l’età avanzata non sembrava essere un ostacolo. Con piccoli
passi un po’ malfermi, si avvicinò al letto, scostandone le coltri polverose.
Due,
tre colpi di tosse, poi di nuovo silenzio.
“Luisa,
Luisa… stai bene?” bisbigliò appena una voce di donna di molto più giovane.
Caterina era arrivata da poco a servizio dei padroni e poiché non era né bella,
né particolarmente brillante per intelligenza, era subito stata relegata nelle
cucine, dove nessuno avrebbe avuto da ridire sul suo aspetto o sul suo cervello.
Lì, bastava avere un paio di braccia robuste per menare la polenta e
tanto olio di gomito e di questo e di quello, Caterina ne aveva in abbondanza.
“Sì…”
gracchiò la vecchia, Luisa, sdraiandosi sul materasso umido e indurito, “Va
tutto bene.”
Da
quasi dieci anni, Luisa divideva la stanza con altre donne. In genere, essendo
la serva più anziana della casa, le venivano affidate le ragazze più giovani,
quelle appena arrivate dalle campagne, che non avevano idea di come ci si
dovesse condurre in una casa di gente danarosa. Insomma, era una specie di
balia e di maestra per le giovani apprendiste. Da quasi dieci anni ormai, la
sua stanza era diventata peggio che uno dei tanti moli di Venezia: un
andirivieni di ragazzine ingenue e rozze da trasformare in cameriere o
sguattere. Caterina non era che una delle tante, non era la prima e non sarebbe
stata di certo l’ultima.
“Luisa…”
mormorò la ragazza, scostando le proprie coperte per guardare nella sua
direzione.
“Che
vuoi?” domandò bruscamente la vecchia. La ragazza non brillava certo per
intelligenza, ma era più curiosa delle scimmiette che la padrona di casa si
ostinava a comprare e che morivano nel giro di pochi mesi.
“Niente…”
rispose quella, un po’ delusa.
“E
allora, mi spieghi perché mi hai chiamato?” borbottò, indispettita.
“E’
che… fa un po’ freddo qui dentro…” osò confessare la ragazza.
“E
tu copriti allora!” fece Luisa, di rimando. Aveva raggiunto un’età in cui non
sarebbero bastati dieci camini accesi in un’unica stanza per scaldarla a
dovere. Ormai le sue vecchie membra consunte dal lavoro erano fredde e
raggrinzite. Eppure, c’era stato un tempo in cui anche lei, al pari di Caterina
e di tante altre, era stata giovane. Con un pizzico di nostalgia, Luisa ripensò
a quando era arrivata in quella grande casa.
Aveva
sì e no dieci anni e i suoi occhi scuri erano rimasti sbarrati davanti alla
magnificenza che si ostentava in quella grande villa. Era appena una ragazzina,
ma di lavoro duro e vita grama ne sapeva come una donna con il triplo dei suoi
anni. Luisa era nata e cresciuta nella laguna, dove ci si svegliava con la
nebbia, e con la nebbia si andava a dormire, dove l’umidità e l’aria salmastra
impregnavano i vestiti e consumavano le ossa. Sì, proprio lì era nata, da una
famiglia di vetrai, rozza e numerosa.
Non
ricordava il motivo preciso per cui aveva preso servizio presso quei signori di
Venezia; erano passati più di cinquant’anni da allora. Però ricordava bene la
sensazione di grande aspettativa che l’aveva pervasa quando sua madre le aveva
comunicato che di lì ad un giorno sarebbe andata a stare in città.
“Domani
andrai a Venezia con tuo padre.” Le aveva annunciato all’improvviso la madre,
togliendo le mani dall’impasto di farina e acqua e strofinandosi il naso. Luisa
rimase di stucco: nei suoi dieci anni di vita, non si era mai spinta oltre il
sagrato della chiesa.
“Non
guardarmi con quel muso, sciocchina! Tuo padre non ti ci porta per metterti in
mostra! Da domani, la tua vita cambierà!”
Le
parole della madre, seppure pronunciate in maniera così sbrigativa, erano
risuonate alle sue orecchie infantili come qualcosa di solenne: la sua vita
sarebbe cambiata. Oh, sì, sarebbe cambiata!
Luisa
si molleggiò sulle ginocchia, cambiando espressione: “In che senso?”
“Nel
senso che da domani in poi, invece di servire tuo padre e i tuoi fratelli,
servirai i tuoi padroni!” sbottò la donna, rituffando le proprie mani
nell’impasto.
Non
c’era alcuna espressione di rammarico negli occhi di quella donna, nessun
rimorso nell’aver detto alla propria figlia che probabilmente non si sarebbero
più viste e che quella in cui Luisa era cresciuta non sarebbe più stata la sua
casa.
Dal
canto suo, Luisa non sapeva cosa dire. Era chiaro come non fosse in grado di
comprendere a fondo quanto le era stato appena detto, ma non sembrava importale
molto. Ciò che era veramente importante in quel momento, era che finalmente se
ne sarebbe andata da quel posto e che non vi avrebbe più fatto ritorno. Non
avrebbe più respirato quell’aria putrida e non avrebbe più dovuto sopportare le
cattiverie che i suoi fratelli le riservavano solo perché era la femmina più
piccola.
“Beh,
che c’hai adesso? Ti metterai mica a piangere?!” la minacciò quasi con orrore
la madre, agitandole un mestolo di legno sotto il naso e scrutandola con
intenzione.
Piangere?
Oh, no! Affatto! Al contrario, avesse potuto, si sarebbe messa a ballare sul
tavolo! Ma non era prudente mostrare i propri sentimenti. Se c’era una cosa che
aveva imparato a sue spese, era che non si doveva mai, per nessuna ragione al
mondo, dimostrare i propri stati d’animo; meno che meno la propria felicità.
Era
andata proprio così, quel giorno. Alla sua veneranda età, erano poche le cose
che Luisa ancora riusciva a ricordare con tanta precisione; eppure rammentava
il timbro di voce della madre, il rumore ritmico delle sue mani mentre
impastava, la luce che proveniva dalle finestre sporche. Ma più di tutto,
ricordava la sensazione di sollievo che aveva provato. Sarebbe svanita presto,
sovrastata dall’angoscia di trovarsi a vivere con persone delle quali non sapeva
nulla e in un luogo di cui aveva sentito solo parlare.
La
vecchia Luisa si strofinò le dita artritiche sul viso pieno di rughe.
Sì,
anche lei era stata giovane, come lo era Caterina in quel momento. Ma a
differenza della sua attuale compagna di stanza, era stata graziosa e
intelligente, anche un po’ troppo per il posto in cui si trovava. Del resto, se
fosse stata appena un po’ più sprovveduta, non avrebbe potuto vivere come aveva
vissuto in quella grande casa, così piena di gente pronta a tutto pur di
guadagnarsi un posto sicuro.
Tutto
era cominciato quando il padre l’aveva portata al palazzo dei signori, una
grande casa, piena di belle cose: mobili intarsiati, soprammobili, tappezzerie
damascate e lampadari di vetro, come quelli che tante volte aveva visto
fabbricare nell’officina di casa, con l’unica differenza che lì i lampadari
erano appesi ai soffitti.
La
mattina era iniziata come tutte le altre: fredda e cupa. La laguna era fosca e
la visibilità non superava i dieci metri. Il padre di Luisa caricò alcuni pezzi
sulla barca destinati alla vendita al mercato. Non si trattava di oggetti di
valore, ma avrebbero comunque permesso un discreto guadagno.
“Allora,
Luisa! Muoviti! Non abbiamo tutto il giorno!” sbraitò la madre. Nonostante
fosse un momento particolare, la donna sembrava del tutto indifferente alla
partenza della figlia più giovane.
Forse
perché prima di lei ce n’erano altri sette, pensò con cinismo la bambina,
infilandosi una mantellina logora, avuta in eredità da una delle sue sorelle
maggiori.
Aspettò
che il padre avesse caricato la merce sulla prua della barca – poco più che un
guscio di noce, a ben vedere – e, afferrate le sue poche cose salì.
Non
si voltò neppure a vedere se sua madre fosse rimasta sulla banchina a vederla
andare via. Da quel momento in poi, non avrebbe più pensato né alla madre, né a
quella casa malandata o a tutto ciò che essa conteneva, pensò con decisione.
Il
viaggio era stato noioso e tranquillo. Luisa non aveva proferito parola, né
aveva avuto intenzione di farlo. Del resto, quell’uomo che a fianco a lei
remava era suo padre solo di nome; di fatto, non era più che un semplice
estraneo.
Quando
la nebbia cominciò a diradarsi un poco, apparirono agli occhi della bambina i
contorni di quella che era Venezia. Era proprio come se l’era sempre immaginata
nei suoi sogni: eterea e impalpabile, nascosta dalla foschia.
Luisa
era così presa da quella vista, da non accorgersi che la barca si era fermata e
che il padre stava legando la cima alla bitta sul molo.
Senza
attendere che lui la aiutasse, scese da sola e rimase ad osservarlo mentre
scaricava i suoi oggetti di vetro, avvolti con cura e infilati in piccole casse
di legno.
“Piero!
Allora, l’hai portata?” farfugliò una voce alle loro spalle.
L’uomo
che stava sopraggiungendo in quel momento era alto e robusto, anche lui avvolto
in un mantello scuro.
“Sì…
eccola.” Rispose il padre di Luisa, spingendola appena verso il suo
interlocutore. L’uomo la guardò come avrebbe potuto fare con un animale da
cortile.
“Bene…
ecco qui quello che ti devo. Bada che non te ne darò di più, intesi? Fatteli
bastare! Per una marmocchia tutta pelle e ossa come questa…” sogghignò,
afferrando Luisa per un braccio e tirandola verso di sé.
“Senti,
sei tu che hai detto che andava bene così com’era… non venire a raccontarmi
storie!” ribatté Piero, intascandosi i denari per la vendita della figlia. In
quel modo, rinunciava per sempre ad ogni diritto su di lei, ma sarebbe stato
molto più realistico affermare che se ne stava liberando in maniera vergognosa,
seppure per necessità.
“Sì..sì…
adesso lasciami andare. Non vorrei essere costretto a riportartela!” aggiunse
il tizio.
Gli
sguardi di Luisa e di suo padre si incrociarono per qualche istante: ecco, era
giunto il momento. Nessuno dei due disse nulla, né un saluto, né una frase di
circostanza.
Non
lo avrebbe più visto da quel giorno in poi. Quando anni dopo le venne
comunicato che era morto, Luisa stentava a ricordare persino il suo volto.
Mentre
veniva trascinata per un braccio dall’uomo alto e robusto, la bambina non
riusciva a non pensare ad altro che a ciò che l’avrebbe aspettata, una volta
entrata in quella casa. Sua madre non si era sprecata molto nel dirle che cosa
le sarebbe accaduto, a parte un accenno al dover servire i padroni.
Eppure,
Luisa non aveva paura: di qualunque cosa si trattasse, non avrebbe potuto
essere molto peggio di quanto non fosse già stato in casa sua.
“Siamo
arrivati.” Commentò ad un tratto il suo burbero accompagnatore, “Adesso mi
raccomando, non fiatare e lascia parlare me.” Si raccomandò, guardando
minacciosamente la piccola. Curiosamente, Luisa non aveva notato prima che il
viso di quell’uomo era completamente sfigurato dal vaiolo.
Il
palazzo che comparve ai loro occhi era pieno di finestre e bifore; la facciata
di pietra grigia aveva un’aria importante e il fatto di trovarsi in una calle
piuttosto stretta e poco luminosa lo rendeva anche più imponente agli occhi
della bambina.
“Luisa?
Luisa, ma che fai? Dormi con gli occhi aperti?” squittì Caterina, strappando la
vecchia ai suoi ricordi che svanirono in un attimo.
“Lasciami
in pace, piccola ficcanaso!” mugugnò la vecchia, guardandola con astio. Da
quando quella piccola insolente era arrivata lì, non faceva altro che fare
domande stupide o darle noia. Che cosa le importava se lei voleva dormire con
gli occhi aperti? Non che Luisa lo ritenesse possibile, ma erano comunque
affari suoi e un giorno di quelli Caterina le avrebbe sentite.
L’uomo
continuò la sua inesorabile marcia, trascinando Luisa come avrebbe fatto con un
sacco di patate, ma ad un tratto, approfittando di un momento di indecisione,
la bambina riuscì a divincolarsi dalla stretta di quel tipo, lasciandolo per un
breve secondo a bocca aperta.
“Che
cosa diavolo…” imprecò quello, girandosi di scatto verso di lei, mentre il suo pastrano(1)
scuro gli turbinava attorno.
“Sono
capace di camminare da sola, sfregiato!” lo apostrofò la ragazzina, arricciando
il naso e ritraendosi.
Nel
sentirsi chiamare in quel modo a suo avviso così poco rispettoso, l’uomo non ci
pensò su due volte, assestando un sonoro ceffone a Luisa. In pieno viso.
“E
non provarci mai più!” le gridò contro, mentre l’afferrava per il collo e la
trascinava davanti a sé.
Luisa
era stata picchiata molte altre volte, persino troppe, per potersi risentire di
quel trattamento. Con disgusto per l’individuo che l’accompagnava si morse le
labbra, ben determinata a non far sentire neanche un lamento.
“E
pulisciti!” ordinò alla fine il bieco individuo.
Lì
per lì, Luisa non capì a cosa si riferisse, ma non ci volle un’eternità per
intuire che lo schiaffo l’aveva colpita in modo che il labbro superiore si
tagliasse. Sentendosi ancora informicolata, non se n’era avveduta
immediatamente, ma dandosi una ripulita col dorso della mano, notò come si
fosse tutta sporcata di rosso.
I
due si lanciarono sguardi roventi e fu proprio in quel momento che la ragazzina
si ripromise una cosa: mai più, per nulla al mondo, avrebbe permesso ad un uomo
di quella risma di picchiarla.
Tirando
su col naso il moccio dovuto al freddo e all’umidità, si lasciò condurre fino
al portone di legno scuro e pesante. Lo “sfregiato” scostò un lembo del
mantello e, mentre con la mano destra tratteneva per la nuca la bambina, con la
sinistra si accinse a scuotere il batacchio. Il rumore che produsse il grosso
anello di metallo brunito lo avrebbe sentito migliaia di volte ancora, ma in
quell’unica occasione, solo in quella, Luisa sentì un brivido correrle giù per
la schiena e percorrerla tutta. Forse per il freddo umido o per l’ansia di non
sapere cosa ne sarebbe stato di lei, la piccola si passò le braccia l’una
contro l’altra, sfregandosele. L’attesa non fu lunga, ma in quel momento le
parve interminabile, poiché mille e più pensieri si affacciarono alla sua
giovane mente. Chi avrebbe aperto la porta? Forse una vecchia bitorzoluta e
gobba, come se ne vedevano tante nel paese dove aveva sempre vissuto? Oppure
sarebbe stato un uomo? Magari alto e scheletrico, con quello strano trabiccolo
ferroso che le avevano spiegato chiamarsi occhiali. Continuava a chiederselo,
mentre ricacciava con insistenza il pensiero inquietante di non sapere cosa le
avrebbe riservato il futuro.
Il
portone – quello che poi si sarebbe rivelato solo una delle uscite di servizio
– si aprì cigolando e, contrariamente a quel che si aspettava, ad accoglierla
non comparve né una vecchia, né un uomo occhialuto, bensì una giovane donna
dall’aria florida e sana.
Angelina
– quello era il suo nome – degnò appena di uno sguardo l’uomo che
l’accompagnava, mentre i suoi occhi neri e penetranti come aghi si posarono
immediatamente su di lei, su Luisa.
“E’
magra peggio dei gattini di Sant’Urbano(2)!” constatò, afferrandole
un braccino e rimirandola come avrebbe potuto fare con un pezzo di carne appena
macellata, “E mi sembrava di avertelo già detto l’altra volta che questo non è
un ospizio per randagi.” Aggiunse, finendo di esaminarla.
L’uomo
al quale si era rivolta, lo “sfregiato”, fece per protestare, ma fu la bambina
ad intervenire per prima: “Non sono un gatto randagio io!”
Con
somma sorpresa di entrambi gli adulti, la piccola si liberò per l’ennesima
volta della stretta dell’uomo e si scostò da lui bruscamente. Non era un
gattino, no, dannazione, non lo era affatto!
Angelina
sbuffò, posando le mani grassocce sui fianchi, ma era del tutto inutile: per
quanto si impegnasse, non sarebbe mai riuscita ad incutere timore in chi la
guardava. Era grassa, a meglio guardarla, e le guance paffute e rosee la
facevano sembrare in tutto e per tutto un maialino di latte.
“Oh
sì, invece… un gattino magro e spelacchiato. E pure selvatico!” la provocò,
mentre sul suo viso si disegnava un sorriso sornione.
“No!
Non è vero!” le gridò Luisa, di rimando. Fosse anche una strega vera, come
aveva cominciato a pensare, non le importava. Non voleva che quella donna la
paragonasse ad un animale o che la trattasse come tale.
“Smettila,
sfacciata!” le intimò immediatamente lo sfregiato, tornando ad allungare la sua
mano su di lei, ma questa volta Luisa fu più pronta. Con un balzo, evitò la
presa dell’uomo e, agile com’era, sgusciò oltre la porta, senza nemmeno pensare
a quel che stava facendo.
“Piccola
insolente!” esclamò quello, prima di gettarsi al suo inseguimento. Piccola e
veloce com’era, avrebbe potuto impiegare un po’ prima di riacciuffarla e nel
frattempo poteva combinare chissà quali danni.
“Angelina!
Che fai lì sulla porta, imbranata! Chiudila e vieni ad aiutarmi!” urlò
all’altra. Ma Angelina non si mosse di un solo passo ed anzi, rimase sulla
soglia a ridersela.
“Arrangiati!
L’hai portata tu, qui. Adesso goditela!”
L’uomo
imprecò, lanciandosi all’inseguimento di Luisa. Quella marmocchia le avrebbe
prese di santa ragione, una volta che le avesse messo le mani addosso. La
rincorse, ben determinato nel suo intento, ma la sua stazza gli impediva di
raggiungere quell’agilità che invece sembrava propria della bambina. Aggirava
tavoli, sedie e mobili arrivando ogni volta quasi a sfiorarla, ma quando
sembrava che fosse fatta, ecco che Luisa sgusciava via, come una bisatta(3)
appena pescata.
“Maledetta
figlia del demonio!” sbraitò, quasi incespicando.
Dal canto suo, la bambina
continuava a spostarsi da una parte all’altra della stanza, senza mai riuscire
a raggiungere un’uscita. In effetti, le uniche due disponibili erano entrambe
lontane dalla sua portata. Una era occupata da Angelina, alla quale sarebbe di
certo bastato allungare una mano per acciuffarla, l’altra era semi-sbarrata da
alcuni sacchi di iuta, probabilmente pieni di qualche granaglia.
Quella
sorta di pantomima durò per diversi minuti e sembrò quasi volersi protrarre
ancora, quando all’improvviso, facendosi largo tra i sacchi, comparve sulla
soglia un’altra persona.
“Che
cosa succede qui, Angelina? Vi si sarà sentiti fino ai Frari(4)!”
irruppe la donna – perché di una donna si trattava.
Con
la stessa rapidità con cui quest’ultima era apparsa, altrettanto velocemente
l’espressione divertita di Angelina mutò dall’ilarità ad una sorta di tacita
ansia.
Anche
l’uomo che rincorreva Luisa si fermò all’istante e per un attimo parve voler
essere in tutt’altro luogo.
La
donna avanzò, uscendo dalla penombra in cui era immersa, guadagnando il centro
della stanza. Aveva un’espressione inquisitrice e fredda dipinta sul volto e
Luisa si sentì come raggelata. La nuova arrivata aveva l’aspetto più ossuto che
la bambina avesse mai avuto modo di vedere: magrissima e piuttosto in là con
l’età, era anche molto alta per essere una donna e aveva due penetranti occhi
verdi, infossati, che parevano rubati ad un rapace. I suoi capelli, ancora
folti nonostante la vecchiaia, dovevano essere stati biondi ed erano raccolti
in una treccia fissata alla nuca.
Riconoscendo
all’istante il foresto presente nella stanza, la donna non batté ciglio e,
seccata, intimò ad Angelina di andare avanti con le proprie mansioni.
“Quanto
a te, Selmo(5), non c’è mai stata una volta, dico una, che non ti
comporti come in uno stavolo(6) per maiali!” lo rimproverò,
notando il disordine che regnava nella stanza.
L’uomo,
punto sul vivo, abbassò il capo, ma non prima di aver lanciato a Luisa
un’occhiataccia che la bambina ricambiò cacciando fuori la lingua.
“E
tu, bambina? Che mi venga un colpo! Sei stata tenuta fuori dalla porta(7)
fino ad ora?” osservò, guardandola con qualche perplessità, ma non attese che
Luisa le rispondesse perché tornò a rivolgersi a Selmo.
“Dove
l’avresti pescata questa qui?”
“E’
l’ultima della covata di Piero, il vetraio.” Specificò l’interpellato.
“Ti
avevo detto che ci serviva un aiuto in casa, non un’altra bocca da sfamare.”
“Se
non la volete, posso sempre riportarla alla famiglia o lasciarla a mendicare
per le calli.” Ribatté l’uomo. Non ne poteva più di sentirsi dire che quella
piccola peste era magra, lo vedeva benissimo anche da sé, ma stando a quanto
l’aveva fatto penare poco prima, di certo le energie non le mancavano e il
lavoro duro l’avrebbe senz’altro irrobustita.
La
donna parve pensarci seriamente per qualche istante, poi sembrò capitolare:
“No, lascia perdere. Vedremo che cosa si può farle fare.”
A
quelle parole, Selmo si rilassò.
“Te
ne puoi anche andare adesso. Non c’è ragione per cui ti debba fermare oltre.”
Lo congedò lei indicandogli l’uscita.
Quando
l’uomo se ne fu andato, soltanto allora, la donna si voltò verso Luisa che non
aveva più mosso un muscolo.
“Allora,
come ti chiami?”
“Luisa.”
“Perfetto.
Io sono Agnese. Qui dentro faccio rigare tutto dritto da quasi trent’anni,
quindi occhi aperti e orecchie sveglie: non sei qui per cianciare. Farai quello
che ti dico di fare e vedremo se tenerti o no. Ricordati che non abbiamo
bisogno di pesi morti, che di bocche da sfamare qui ce ne sono anche troppe. Se
ti comporterai bene, sarai trattata bene, altrimenti, finirai fuori di casa.”
Spiegò Agnese tutto d’un fiato.
Luisa
annuì. Per essere il primo giorno della sua nuova vita, davvero era cominciato
di gran lena.
(1)
Il
pastrano è una sorta di mantello di lana, lungo fino ai piedi.
In dialetto la dicitura esatta sarebbe “pastràn”; veniva chiamato anche tabarro
o gabbano. Piccola curiosità: nella Venezia del ‘700 erano molto frequenti
questi capi di abbigliamento, anche tra i nobili, che solevano indossare questi
mantelli lunghissimi corredati da una maschera bianca chiamata “bautta” per non
farsi riconoscere.
(2)
I
gattini di Sant’Urbano sono quelli nati per ultimi, quasi al limite del periodo
(stagione) di gestazione. La loro caratteristica è quella di essere magri (a
causa della scarsità di cibo dovuta al sopraggiungere della stagione fredda) e
gracili. Da qui il detto “essere/somigliare a un gatto di Sant’Urbano”, che
significa proprio essere malaticcio.
(3)
La
bisatta è niente meno che l’anguilla. Letteralmente significa “biscia”. In
alcun casi in dialetto veneto si dice anche “bisàt”.
(4)
“Frari”
è il nome abbreviato (per esteso sarebbe “Santa Maria Gloriosa dei Frari”) di
una delle chiese più conosciute di Venezia all’interno della quale si trovano
celebri opere d’arte e tombe di personaggi illustri come quella del Tiziano e
il mausoleo al Canova.
(5)
Selmo è
l’abbreviazione di Anselmo.
(6)
La
dicitura “stavolo dei maiali” indica letteralmente il porcile e viene usato per
definire quei luoghi sporchi e in disordine. In alternativa viene usata la
dicitura “punèr” che indica invece il pollaio.
(7)
“tenere
qualcuno fuori dalla porta” significa trascurarlo, affamarlo, non curarsi di
lui. Più o meno quindi si tratta di un sinonimo del termine “gatto di
Sant’Urbano”. In alternativa e con la stessa valenza viene usato il termine
puramente dialettale - e difficilmente traducibile in italiano - “Bevùo su dala
bèa donna”.