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Autore: Tlem    12/06/2010    3 recensioni
Voi credete nella magia? Nelle creature mitologiche che si trovano nei romanzi?... Fino a qualche anno fa non credevo a queste cose; ero solo una normalissima diciassettenne quando cominciò tutto; ma prima mi presento, il mio nome è Nory Weber.
Genere: Romantico, Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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1.L 'incontro

 

Caro nuovo Diario,

Mi presento, il mio nome è Nory Weber.

Non sono più alta di un metro e sessantacinque, ho i capelli neri,  lisci,  lunghi oltre il seno. I miei occhi sono di un verde  molto chiaro. Ho un viso pulito e le labbra piene. Sono nata in America, ma un anno prima della morte di mia madre, io e la mia famiglia, ci trasferimmo in un paesino tra le colline della Toscana.

So molto bene l’italiano, mia madre me lo ha insegnato fin da piccola.

Quando ci trasferimmo non trovai molte difficoltà ad inserirmi, furono tutti molto gentili. Avevo quindici anni quando venimmo ad abitare qui.  Ci misi un po’ ad abituarmi ai nuovi funzionamenti scolastici, qui non è come in America.

Ho fatto amicizia con una ragazza: Camilla Laico; non sono mai stata molto estroversa perciò ho socializzato quasi esclusivamente con lei dato che,  spesso, sembra essere l’unica persona a capirmi davvero, alcune volte, fin troppo.

Camilla è una ragazza davvero speciale, con i suoi riccioli biondi che le arrivano a metà schiena, ha anche degli stupendi occhi color cioccolato, è  davvero bella. Alcune volte riesce ad intuire a cosa stia pensando una persona solo dalla sua espressione. È davvero brava.

Abito in un piccolo paesino, io e lei lo giriamo sempre a piedi: è un antico borgo medioevale collocato su una collina abbastanza alta, la città più vicina dista circa quindici minuti in macchina.

Non so perché sto raccontando tutto questo, di solito non si fa in un diario. Ok non so già più cosa scrivere. Però un po’ tutto questo mi è servito perché ora ho capito che probabilmente non terrò mai un diario.

 

“Meglio lasciar stare con i diari” pensai mentre fissavo la mia calligrafia disordinata sul foglio. Non ero dell’umore per scrivere. Oggi era giovedì. Avevo proposto a Camilla di andare a fare un giro nel pomeriggio, ma si mise a piovere e così rimandammo l’uscita. Così provai a scrivere qualcosa di simile ad un diario su un foglio di carta. Era stata una giornata pesante: odiavo l’orario scolastico del giovedì: mi toccavano tre ore di fila di matematica, non mi era mai piaciuta.

Ero tornata a casa un po’ delusa: mi piaceva passare del tempo con lei: quando stavo insieme a  lei mi sentivo spontanea, riuscivo a sentimi me stessa e la mia timidezza sembrava sparire.

Decisi di passare il resto del pomeriggio guardando un film.

Mio padre sarebbe tornato a casa verso le sette, la cena la preparavo io dato che lui stava fuori tutto il giorno.

Non mi è mai piaciuto molto cucinare,  però, a sentire mio padre, ero brava. Fortunatamente a pranzo io restavo a scuola, e lui andava a mangiare al  fastfood, gli avevo consigliato varie, a volte di mangiare più sano, ma senza ottenere grandi risultati.

Decisi di preparare la pizza, la ricetta me la aveva insegnata mia madre. Sinceramente trovavo che quella fatta i casa fosse la migliore, anche se quella che facevo io non aveva niente a che vedere con quella che faceva mia madre, ma era buona lo stesso.

Cercavo sempre di pensare il meno possibile a mia madre, ma anche i gesti più piccoli mi ricordavano lei: come la mattina quando mi alzavo e, nonostante fosse già passato un anno, mi aspettavo sempre di vederla seduta sulla sedia della cucina a mangiare i suoi cereali preferiti, a cui aggiungeva sempre troppo miele, oppure quando torno da scuola e mi sembra ancora di vederla seduta sul divano a rileggere per l’ennesima volta il suo libro preferito: “Orgoglio e Pregiudizio”.

Si chiamava Angelica, ed era davvero un angelo: era disordinata e sbadata, ma era sempre solare e sorridente, probabilmente era la donna più dolce del mondo e allo stesso tempo anche la grintosa, era la migliore mamma del mondo. La mia vita aveva sempre ruotato intorno lei, era sempre stata  il mio punto di riferimento, ed ora non c’era più nessuno ad appoggiarmi e sostenermi,  da tanto tempo mi sento incredibilmente sola e sento un vuoto che nessuno è riuscito a colmare.

Sentivo già gli occhi diventare lucidi, cucinare teneva occupate solo le mani lasciando correre troppo i pensieri.

Mio padre rientrò tardi quella sera, così ebbi il tempo di apparecchiare io la tavola.

Il giorno dopo, a scuola, regnava la noia. Le lezioni non furono particolarmente interessanti, così io e Camilla passammo la giornata a scarabocchiare su un foglio fino alla fine delle lezioni.

Camminando verso la solita stradina, che conduceva al bivio dove ci saremmo separate e saremmo tornate ciascuna a casa propria, decisi di accompagnarla fino a casa sua. Lei abitava nella zona più bassa del borgo, vicino al bosco, solitamente quando torno indietro da casa sua prendevo una scorciatoia che tagliava per il bosco, mi piaceva sempre passeggiare in mezzo al verde, ma stavolta fu diverso: quando tornai a casa passando attraverso il sentiero nessun uccello cantava, nessun cerbiatto passeggiava, nessuno scoiattolo si arrampicava sugli alberi,… il bosco era rimasto in silenzio,  impietrito, tanto da farmi sentire osservata, come se stesse aspettando che me ne andassi, non capii: era una bella giornata, una delle poche in autunno,  solitamente in questo tipo di giornate il bosco brulica di vita, ma niente. Qualcosa lo aveva fatto tacere. Mi sentii a disagio: l’unico rumore udibile proveniva dai miei passi sulla stradina di terra battuta e dal mio respiro agitato. Ad un tratto mi accorsi che stavo involontariamente accelerando il passo, e proprio in quel momento udii un rumore, mi girai di scatto, allarmata, e per un secondo, ci avrei scommesso, vidi, nascosti all’ombra di una quercia, due occhi azzurri, intensi come l’oceano, mi stavano osservando, ne ero certa, ma dopo un secondo non c’erano già più.

Per tutto il resto del tragitto cercai di convincermi che era solo qualche animale che non si era accorto del silenzio che c’era, e aveva fatto rumore.

In fondo, però, sapevo che non era così, nessun animale poteva avere degli occhi così, ma allora cosa si nascondeva nel bosco? Ma soprattutto, cosa poteva far ammutolire così il bosco? Mi dissi che dovevo smetterla di leggere troppi libri fantasy.

Cercai di non pensare più a quegli occhi, mi convinsi che era solo la mia immaginazione che aveva fantasticato.

Per tutta la sera riuscii a non pensarci, ma non avevo fatto i conti col mio subconscio, ancora traumatizzato. Sognai tutta la notte quegli occhi, immaginando a quale strana o mostruosa creatura potessero appartenere.

Per la paura, verso le tre del mattino, scesi in punta dei piedi nel salotto, dove era solito addormentarsi Mr. Shakespeare, il mio gatto. Era un bel gatto, a pelo lungo, tutto bianco. Lo presi in braccio e salii con cura le scale, per non svegliare mio padre.

Arrivati in camera mia, non accesi nessuna luce, ormai i miei occhi si erano abituati al buio, mi sedetti sul letto, misi Mr. Schakespeare sulle ginocchia, e mentre giocavo con il suo pelo iniziai a sentire il sonno che incominciava ad intorpidire la mia mente, ma sapevo che se avessi richiuso gli occhi, gli episodi del pomeriggio sarebbero tornati a torturare i miei sogni. Purtroppo, per quanto mi volesse bene, il mio povero gatto non avrebbe potuto proteggermi; non tanto da quella creatura, quanto da  me e tutte le mie paure.

“Sai micio, oggi pomeriggio c’era qualcosa di strano nel bosco. Ho un po’ paura, resti a dormire qui stanotte?”, bisbigliai.

Mi guardò con i suoi occhioni dorati per un po’ e poi si acciambellò, come al solito,  al fondo del letto. Iniziai a preoccuparmi: non era mio solito parlare con i gatti, forse la mancanza di sonno mi stava giocando brutti scherzi. Mi misi a dormire prima che il gatto mi rispondesse.

Il resto della notte fu un po’ più tranquillo, ma l’ossessione per quegli occhi era ancora vivida e ben impressa nei miei incubi.

Il giorno dopo a scuola non ne feci parola con nessuno. Nemmeno con Camilla, non sapevo se mi avrebbe creduto o se avrebbe dubitato delle mie facoltà mentali. Come poteva non dubitare se perfino io ero restia a credermi. A pranzo mi sedetti, come al solito, vicino a lei, ma notai che aveva lo sguardo assente perso nel vuoto, non mi stupii di questo, spesso le accadeva di perdersi nei suoi pensieri, ma stava canticchiando, a bassa voce. Era molto insolito, lei diceva sempre di non saper cantare e non le piaceva dar mostra apertamente delle sue emozioni, era una ragazza riservata e soprattutto non le piacevano i pettegolezzi, specialmente quelli su di lei. Per questo motivo mi stupii nel sentirla canticchiare. Non era così male come diceva, era piuttosto  brava, non l’avevo mai sentita cantare.

“Sei di buon umore oggi, vero?”.

Dovetti ripetere la frase due volte, era talmente presa dai suoi pensieri che nemmeno mi sentì. Poi si riprese.

“Eh?... No. Non più del solito, perché?”, rispose lei con lo sguardo fisso altrove.

“Non ti avevo mai sentito cantare. Non sei male”.

“Ah. Non ci avevo fatto caso, non so perché, oggi mi andava”. Concluse la frase con un sorriso un po’ troppo innocente, tanto da farmi insospettire.

Ad un tratto però mi resi conto del motivo ti tanta allegria: al tavolo davanti al nostro c’era Marco Vetti. Camilla ha  una cotta per lui fin dall’asilo, anche se lei è sempre stata troppo orgogliosa per fare il primo passo.

Tornati in classe vidi una circolare in bella vista sulla cattedra. Non resistetti alla curiosità, controllai che il professore di biologia  non fosse nei paraggi e lessi: avvisava i professori che era in arrivo un nuovo studente. Lessi qualche informazione sul nuovo studente, in un paesino come questo dove c’era solo una scuola superiore, un avvenimento del genere faceva scalpore. Il ragazzo si chiamava William Leopold Gray, veniva da una scuola russa, aveva diciotto anni, ed era di origine inglese. Aveva un nome antiquato, ormai fuori moda da almeno un secolo. Sarebbe arrivato lunedì. Oggi, però, era sabato. Non vedevo l’ora che fosse lunedì, chissà che tipo era, provavo già un po’ di compassione per lui: probabilmente lo avrebbero assalito di domande e sarebbe stato sottoposto a svariati “interrogatori”, tutti avrebbero voluto conoscerlo e sicuramente avrebbero fatto a gara per vedere chi stringeva per primo amicizia con lui. Anche se sapevo che sarebbe durato poco, quando ormai non sarebbe più stato la novità.

A fine giornata vidi Camilla che parlava serenamente con Marco, lui evitava di guardarla negli occhi guardando per terra, lei invece faceva di tutto per catturare il suo sguardo. Camilla ha sempre avuto un carattere forte, lui invece no, chi lo sa, magari insieme si troverebbero bene. Però era molto strano, lei diceva sempre che sono gli uomini a dover fare la prima mossa, e poi lei aveva fatto sempre in modo di non far vedere tutto l’interesse che nutriva nei suoi confronti, voleva vedere se lui si sarebbe mai fatto avanti.

Aspettai per un po’ che la loro conversazione finisse, poi mi stufai, ma proprio quando me ne stavo andando, mi venne in mente che sarei dovuta passare vicino al bosco, da sola, e così preferii aspettare ancora un po’.

Dopo  altri dieci minuti, quando ormai erano già usciti quasi tutti gli studenti, si salutarono, lei gli diede un bacio sulla guancia e lui arrossì completamente.

Lei si diresse verso di me con uno sguardo trionfane e colmo di felicità. Stava sorridendo in una maniera che non le avevo mai visto fare prima. Non era assolutamente da lei un comportamento simile, e invece ora stava avanzando con gli occhi lucidi e le fossette che stavano ai lati del suo sorriso erano ben marcate. Ridacchiai.

“Mi sembri felice!” dissi ironica.

Mi abbracciò felice, era euforica.

“Camy…non riesco…non respiro!”, cercai di dire mentre mi stritolava col suo abbraccio.

“Oh! Scusa, mi dispiace”, disse ridendo.

Stette fino al bivio in silenzio col sorriso sulle labbra, poi si voltò e mi disse: “mi accompagni a casa  oggi? Stai un po’ da me così studiamo e guardiamo un film, ti va?”.

 Non mi andava di rovinare il suo buon umore dandole una delusione così accettai, ma non  le dissi nulla della mia assurda paura.

Per tutto il pomeriggio parlò di lui. Non riuscimmo studiare, era troppo distratta: mi raccontò ogni noioso dettaglio della loro conversazione, ma ascoltai solo metà del suo discorso, annuendo ogni tanto.

Quando fu ora di tornare a casa mi sentii un nodo alla gola e avevo la nausea per la paura. Non le dissi nulla comunque.

Tornai a casa in silenzio e anche il bosco stette in silenzio con me. Sentii qualcosa muoversi nel bosco, mi girai di scatto. Il cuore martellava, sembrava che volesse sbriciolarmi le costole. Restai immobile, impietrita. Mi sentii toccare con delicatezza la spalla, sobbalzai e lanciai un urlo.

“Scusami tanto se ti ho fatta spaventare, ti assicuro che era l’ultima delle mie intenzioni”.

Restai, se possibile, ancora più immobile di prima: davanti a me c’era un ragazzo molto alto, biondo, con i capelli scompigliati, carnagione olivastra; dei lineamenti decisi e armoniosi, lo guardai e seguii il profilo della mascella fino al collo e poi al fisico, era perfetto, un fisico che avrebbe fatto invidia anche agli atleti della squadra di nuoto della scuola:  molto muscoloso, spalle larghe, schiena dritta, così armonioso e aggraziato.

“Stai bene?”. Chiese leggermente allarmato, probabilmente dalla mia espressione: era la cosa più bella che avessi mai visto.

“Si… penso di si”, balbettai, ancora frastornata.

Sorrise della mia espressione imbambolata.

“Perdonami non ho avuto modo di presentarmi, sono William Gray, mi dispiace di averti fatta spaventare, ma avevo notato che eri impaurita, e volevo accertarmi che andasse tutto bene”.

“Tutto bene, avevo solo sentito un rumore proveniente dal bosco, ultimamente mi fa un po’ paura. Aspetta! William Gray? Tu sei il nuovo studente, giusto?”.

“Giusto, posso sapere il tuo di nome?”, disse cortesemente, ma con un accenno di curiosità nella sua voce calda e melodiosa.

“Ehm…Nory, Nory Weber”  balbettai.

“Piacere di conoscerti Nory. Se mi è concesso chiederlo, perché, se temi tanto il bosco, cammini da sola in un sentiero all’interno d’esso?”, chiese con un espressione che sembrava tanto divertita quanto curiosa.

“Sto tornando a casa, e tu? Dove stavi andando? Non tutti conoscono questa strada”, domandai, forse un po’ troppo sospettosa. Mi sorprese con un furbo mezzo sorriso innocente.

“A casa anche io, ero andato a fare un giro per esplorare il bosco. Comunque se lo desideri posso accompagnarti fino a casa tua, in modo da risparmiarti altri spaventi o infarti, così anch’io avrei l’occasione di conoscere qualcuno. Ti andrebbe?”, chiese nuovamente col quel suo tono gentile, ma stavolta c’era anche qualcos’altro nella sua voce, qualcosa che non riuscivo a cogliere, come se sapesse già cosa dire.

In quel momento alzai lo sguardo e per la prima volta mi soffermai sui suoi occhi. Non potevo crederci, non poteva essere lui. Erano gli stessi occhi azzurri, quelli che avevano perseguitato i miei sogni, mi ero immaginata che appartenessero a chissà quale mostro, invece, su di lui, facevano tutt’altro effetto: aveva uno sguardo sicuro, fermo, rassicurante.

“Quando sei arrivato qui?”, chiesi incapace di trattenere la mia curiosità.

“Questa mattina, appena arrivato ho fatto domanda per l’iscrizione a scuola, non pesavo fosse tanto veloce, verrò a scuola già lunedì”. Lo guardai un po’ sorpresa: di nuovo quel tono strano.

Allora non poteva essere lui. Forse me li ero davvero immaginati. Ora però non riuscivo a distogliere lo sguardo dai suoi: erano davvero stupendi, così profondi e limpidi. Doveva essere la sera che giocava con le luci e mi prendeva in giro, probabilmente era solo una mia fissazione.

 “Stai eludendo la mia domanda precedente? Puoi dirmi se ho avanzato una proposta  che non gradisci, non mi offendo” disse con una certa delusione.

 “No, no. Mi farebbe piacere risparmiarmi un infarto.”Gli sorrisi.

Lui sorrise divertito.

Parlava in una maniera buffa, non era antico solo il suo nome, anche i suoi modi di fare e di parlare lo erano.

“Posso chiederti una cosa?” domandai divertita.

“Certo, ti ascolto” .

“Come mai usi un modo di parlare così formale ed antiquato?”. Sperai di non averlo messo a disaggio, che non la prendesse come una critica. Lo guardai in viso, un’espressione di pura sorpresa lo attraversò per poi sparire dietro una maschera di innocente serenità.

“Sono sempre stato abituato a riferirmi così alle altre persone … è da molto tempo che non socializzo più”. Stavolta sembrava più sincero, non c’era più quel velo di finzione che c’era quando rispondeva alle mie domande.

Mi accompagnò fin davanti a casa mia,  durante il tragitto parlammo soprattutto di me, e la cosa mi metteva a dir poco a disagio: non mi era mai piaciuto parlare di me, mi metteva in soggezione. Parlammo di cosa mi piaceva, mi chiese quale fosse il mio colore preferito, i miei fiori preferiti, film, generi musicali,… ma mi stupii del fatto che lui sembrasse sinceramente  interessato.

Arrivati davanti a casa mia mi chiese se l’indomani sarebbe potuto passare nel  pomeriggio per avere il programma scolastico svolto, ovviamente, “se non recava disturbo”. Accettai volentieri, non avevo fatto nessun programma con Camilla. Forse era un po’ affrettato, ma d’altronde mi aveva appena salvata da un infarto, e poi non capita tutti i giorni di aver la possibilità di avere un ragazzo così in casa.

Quella sera portai lo stesso Mr. Shakespeare in camera mia: il mio umore era migliorato, ma la paura, di certo, non era passata.

La mattina seguente ero euforica, dato che avrei passato il pomeriggio a spiegare il programma scolastico di due mesi, ad un ragazzo che sembrava un modello appena uscito da una rivista.

Non riuscivo a togliermi il suo viso dalla mente.

Erano più o meno le dieci quando scesi a far colazione, mio padre, Jonathan, mi squadrò, divertito, dalla testa ai piedi e poi mi sorrise.

“Come mai tutta questa allegria oggi?”.

“Allegria? È solo perché non devo andare a scuola…”. Mentii cercando di sminimizzare: non vedevo l’ora di ritornare a scuola per vedere in che classe avrebbero messo William. Avevo sentito che lo avrebbero messo in quarta, nonostante i suoi diciotto anni, perché era uno studente nuovo, quindi poteva essere anche nella mia classe, iniziavo anche a sperarci un po’, ma sapevo che non avrebbe mai fatto caso a una come me, al massimo sarei potuta diventare sua amica.

“Riguarda forse il ragazzo che ti ha accompagnata a casa ieri?”chiese mio padre.

Aveva capito tutto.

“Ehm…forse…”, imbarazzata cercai di sembrare naturale “a proposito, potrebbe venire oggi pomeriggio per vedere a che punto siamo arrivati col programma?”. Non so perché ma avevo l’ impressione che sarebbe andato a prendere il fucile per aspettarlo, e invece mi sorprese.

“Va bene, se è solo per quello, va bene” decretò dopo averci pensato un attimo, “mi fido di te”, aggiunse un secondo dopo.

Mio padre quando voleva sapeva essere comprensivo, anche se dall’aspetto poteva sembrare un po’ burbero: aveva gli occhi marroni, capelli neri e mossi, con rughe abbastanza marcate sul viso che gli conferivano un’aria “minacciosa”.

Comunque non era un atteggiamento tipico di lui. Riguardo ai ragazzi, da quando la mamma se ne era andata, si sentiva molto protettivo nei miei confronti.

Finii la colazione, lavai i piatti, salii in camera, feci una doccia e mi vestii. Guardai l’ora delusa: erano solo le undici e mezzo. Dovevo far passare il tempo che sembrava scorrere più lentamente del solito, ero troppo ansiosa, tornai in camera e mi buttai sul letto, guardai sul comodino e vidi la foto di mia madre. La presi e la guardai attentamente lottando con una macchiolina sul vetro.

Quella era la foto più bella che  avevo di lei. Nella foto lei era in piedi che sorrideva, aveva lo stesso colore dei miei occhi: di un verde chiaro e limpido, e i capelli lunghi, castani e lisci. Era bella, la migliore mamma del mondo, mi mancava tantissimo.  

Sospirai  e riposi la foto dov’era.

Mi alzai guardai il cellulare, c’era un messaggio: era Camilla: mi chiedeva come mai il pomeriggio precedente ero stata così silenziosa e mi comunicava che quel pomeriggio sarebbe uscita con Marco. Non le risposi, non sapevo cosa dirle, forse le avrei parlato l’indomani a scuola. Volevo dirle la verità, ma dubitavo che mi avrebbe creduta, anche se lei in fondo, lei mi capiva sempre, e sapeva essere comprensiva, probabilmente mi avrebbe detto che era stato solo un animale.

Ero così confusa, nemmeno io, ormai, ero sicura di cosa avevo visto davvero, magari anche lei lo poteva aver visto, lei abitava proprio lì vicino, poteva averlo visto mentre andava a scuola, e per la stessa mia ragione aveva deciso di non farne parola con nessuno.

Mi guardai allo specchio per controllarmi meglio: i miei capelli neri lisci e lunghi fino sotto al seno erano come sempre in ordine, mi guardai negli occhi pensando se non fosse il caso di truccarmi, però con le mie ciglia così lunghe e folte la matita o il mascara sarebbero stati inutili. Mi rassegnai e mi misi un po’ al computer. Finalmente giunse l’ ora di pranzo, preparai velocemente un po’di pasta.

Mangiai in fretta e rischiai di soffocarmi con uno spaghetto. Mio padre se ne accorse e mi guardò divertito.

“A che ore arriva il tuo amico?”, disse trattenendo una risata.

Inarcai le sopracciglia, non era da lui  parlare con così tanta leggerezza di ragazzi.

“Ehm…Non lo so di preciso” dissi, lui sorrise ancora di più e io divenni subito rossa.

Avevo appena finito di lavare i piatti quando suonò in campanello, mi venne quasi un attacco di panico, respiravo forte e il cuore batteva fortissimo. Feci un respiro profondo e mi calmai, andai ad aprire alla  porta. I miei sogni non gli avevano reso giustizia. Sembrava quasi che il suo viso brillasse, il sole sembrava quasi oscurato dalla sua presenza.

Gli sorrisi e lo invitai ad entrare, mio padre era appena andato a lavorare: ha un’edicola, ed è sempre  informato su ogni fatto di cronaca, solitamente quello è l’unico argomento di conversazione.

“Hai una bella casa” disse appena fu entrato.

“Grazie”, balbettai impacciata.

Andammo in sala, c’era una scrivania più grande rispetto  a quella in camera mia.

La scrivania era attaccata alla parete, dietro al divano beige che guardava verso la tv accanto alla quale c’era un grande libreria stracolma dei miei libri e i miei romanzi.

Lo feci sedere e andai a prendere tutti i libri che servivano e i miei appunti. Andavo bene a scuola, anche se non ero la prima della classe, ma avevo una buona media.

Partii dalla materia che mi risultava più facile: lettere.

“Sei un’ottima insegnante” decretò quando finii di spiegargli il programma di italiano.

“Ehm… grazie, prima di passare ad un’altra materia, ti va di mangiare qualcosa? Ho un po’ di fame”, forse avevo mangiato troppo poco a pranzo.

“Ti prego di offenderti, ma non ho fame, ma tu non ti preoccupare, mangia pure se ne hai voglia”.

Mi diressi in cucina, lui mi seguii e si sedette sulla sedia del tavolo da pranzo, continuava a guardami mentre cercavo qualcosa  da mangiare. Frugai dappertutto, ma alla fine mi arresi e presi una mela, segnai su un foglietto che dovevo andare a fare la spesa e con una calamita lo attaccai sul frigo.

Tornammo in sala, e dopo aver finito le spiegazioni di biologia, fisica, chimica e matematica, guardai l’ora: erano già le sei. In ottobre, a quest’ora, è già buio, e pensai di nuovo a quella sera, quando lo avevo incontrato: il sole era già tramontato, non avevo visto i suoi occhi chiaramente come li vedevo adesso, ora sembravano così espressivi, anche se solitamente gli occhi azzurri non lo sono, ma i suoi sembravano più turchesi che azzurri. I suoi, certamente, sono diversi da tutti gli altri: erano intensi, né scuri, né chiari.

Continuai nella spiegazione di inglese e spagnolo. Finite le spiegazioni controllai l’ora: erano le sette.

“Dovrei tornare a casa, tra poco sarà ora di cena” disse.

“Già, anche io dovrei preparare la cena, ma se vuoi ti  puoi fermare a mangiare” dissi sperando un po’ troppo in un sì .

“Mi dispiace molto ma temo di essere costretto a rifiutare, ma mi ha fatto davvero molto piacere trascorre il pomeriggio con te, posso chiederti se domani pomeriggio hai qualche impegno?”.

“Ehm… no, nessuno. Sono libera”.

“Ti andrebbe di farmi vedere meglio il paese?”.

“Certo. Appena finita la scuola potremmo lasciare gli zaini a casa mia e andare a fare un giro”.

“Ottimo. Dunque, ci vediamo domani”.

“D’accordo. Anche a me ha fatto piacere passare il pomeriggio con te”, dissi arrossendo leggermente.

Lo scortai fino alla porta, dove fece un sorriso che mi mozzò il fiato e se ne andò.

Mi sentivo la pelle delle guance bruciare.

Lui era così dolce e garbato, per tutto il pomeriggio era stato così gentile.

Quando mio padre rientrò ero ancora su di giri, e avevo sicuramente un espressione imbambolata perché mio padre scoppiò in una fragorosa risata appena mi vide.

“Spero che tu non abbia avuto questa espressione quando lui era qui, perché se è così, beh, ti avrà preso per un pesce lesso!”. Feci una linguaccia e lui rispose con una smorfia, alcune volte sembrava che l’adolescente fosse lui.

Era così strano che non avesse iniziato col suo solito interrogatorio sul ragazzo che avevo appena incontrato, solitamente era la prima cosa che faceva.

A tavola scherzò ancora un po’ su di me prendendomi in giro, poi però si fece serio e disse che  due campeggiatori nel bosco erano stati sbranati da quello che sembrava essere un orso. Che strano, qui non c’erano mai stati orsi. Gli dissi di non preoccuparsi, non mi sarei più avvicinata al bosco ancora per un po’.

Verso le undici salii silenziosa le scale: mio padre era già a dormire. Appena arrivata in camera mi buttai sul letto a pensare: c’era qualcosa che non andava, era sempre stato tutto uguale da quando mi ero trasferita, non c’erano mai stati dei cambiamenti così bruschi: Camilla non si curava più dei pettegolezzi sul suo conto, faceva vedere tutto il suo carattere forte e aveva fatto lei il primo passo con un ragazzo; mio padre non si preoccupava se frequentavo qualche ragazzo oppure no. A me non erano mai piaciuti i cambiamenti così improvvisi.

Forse stavo un  esagerando, era solo la mia immaginazione che era un po’ troppo fervida, ma una cosa era certa: qualcosa stava cambiando anche se non sapevo di cosa si trattasse.

Preferii prepararmi per andare a dormire che rimanere da sola con i miei pensieri.

Mi consolai col pensiero di ciò che sarebbe successo l’indomani.

Quando mi alzai, la mattina dopo, ero ancora più euforica della mattina precedente, erano le sette quando la sveglia suonò, ma io ero già in piedi da almeno cinque minuti.

Scesi a far colazione, mio padre era appena uscito di casa per andare all’edicola, ci andava ogni mattina di buon’ora, ci stava fino alle sette di sera, gli affari andavano bene dato che era l’unico edicolante nel paese.

Andai a scuola emozionatissima, speravo tanto che William fosse nella mia classe.

Arrivai in classe col sorriso sulle labbra, per l’occasione avevo deciso di mettermi anche un po’ di trucco, leggerissimo, ma che accentuasse un po’ lo sguardo, come mi aveva sempre consigliato di fare Camilla misi solo un velo di ombretto verde chiaro, chiaro come i miei occhi, mi dissi che avrei dovuto farlo più spesso, magari poteva diventare un’abitudine.

La campanella trillò, ma non vidi nessun banco nuovo, e nemmeno lui.

Camilla si sedette accanto a me, subito mi raccontò della sua uscita con Marco. Mentre lei si perdeva in piccoli dettagli futili, io cercai di immaginarli insieme: lui impacciato, timido e romantico, coi suoi capelli bronzei e ricci, con gli occhi color miele; e lei coi suoi lunghi ricci biondi e i suoi occhioni color cioccolato, con un carattere forte, deciso e intrigante.  Tutto sommato, insieme, non stavano tanto male.

Quando lei finì la sua meticolosa descrizione, si voltò verso di me e mi osservò attentamente.

“Perché quell’aria delusa?”. Era incredibile, per quanto mi sforzassi, per lei restavo comunque un libro aperto.

“Non ho niente”, cercai di nascondere la mia delusione sviando l’argomento, non mi andava di parlarne, magari più tardi.

“Ok, fammi sapere quando poi ti va di dirmelo” disse, con un sopracciglio alzato.

Iniziò a parlare d’altro, per fortuna la sua capacità di capirmi non era cambiata, chissà perché mi aspettavo che fosse così. Tutto, nelle persone che mi circondavano stava cambiando, e questa cosa non mi piaceva affatto.

Seguii tutta la lezione fino all’intervallo, non feci nemmeno in tempo ad uscire dalla mia classe che davanti alla porta c’era già lui, William, appoggiato allo stipite, sorrideva alzando solo un lato della bocca, non avevo ancora fatto caso alle sue labbra: erano piene e perfette, e contornavano i denti perfetti e bianchissimi. Sembrava diventare ogni giorno più perfetto.

“Ciao”, disse appena mi avvicinai.

“Ciao, in che classe ti hanno messo?”, dissi cercando di essere naturale, ma un fremito di curiosità mi pervase.

“Proprio in questa, sono solo un po’ di ritardo” aveva senza dubbio intuito la mia delusione nel credere che lui fosse stato messo in un'altra classe,  perché parlò con un tono divertito e il suo sorriso si era espanso anche all’altro lato della bocca.

Passai l’intervallo cercando di portare la nostra conversazione su un argomento che non fossi io o i miei interessi, ci riuscii … più o meno: parlammo di interessi comuni.

Quando suonò la campanella tornai al mio posto vicino a Camilla, e mi accorsi che,    accanto al mio, avevano aggiunto un altro banco.

La nostra classe è  disposta a banchi da due, ci sono tre file  di banchi ed io e Camilla avevamo gli ultimi due banchi della fila centrale, che ovviamente ora erano diventati tre. Qui gli studenti sono divisi in classi e ogni classe ha la propria aula e sono i professori a spostarsi per le aule.

Camilla mi stava fissando da un po’, ma me ne accorsi solo ora.

“Chi è quello?”, chiese appena mi fui seduta.

“Si chiama  William”, dissi distrattamente. Si accorse subito della mia distrazione così mi guardò in faccia un po’ sospettosa reclamando la mia attenzione, e poi si aprì in un ampio sorriso.

“Adesso capisco i tuoi strani comportamenti, ma c’è dell’altro, scommetto che questa non è la prima volta che lo vedi, non importa, ne parliamo poi domani. Te lo avevo detto che io e Marco abbiamo dei programmi per il pomeriggio?…” e si perse nella descrizione dei programmi che avevano fatto.

Ormai non ascoltavo più quello che lei mi stava dicendo, il professore aveva appena presentato William alla classe, e lui si stava dirigendo aggraziatamente verso di noi. Sembrava quasi che avesse preso lezioni di portamento.

Non avevo mai fatto caso a quanto fosse alto davvero, era un metro e ottantacinque di sicuro, se non di più. Indossava un paio di jeans chiari e un maglione a dolcevita, attillato beige ma con le maniche arrotolate fino al gomito. Era stupendo, gli risaltava molto il fisico perfetto.

“Che materia insegna questo professore?” disse appena si fu seduto.

“Matematica, è molto bravo”.

“Mmh, però da quanto mi hai detto non ti piace la matematica, giusto? Come fai a ritenere bravo un’insegnante se non riesce nemmeno ad appassionare gli studenti alla propria materi?”, disse sorridendo. Era un ragazzo davvero sveglio.

“Ho sentito dire che non sei qui da molto, dove stavi prima?”. Lo guardai stupita, a quanto pare i pettegolezzi arrivano in fretta anche alle persone nuove.

“Sono qui da circa due anni, prima abitavo in America”.

“Parli molto correttamente l’italiano, chi te lo ha insegnato?”.

“Mia madre, è nata e cresciuta qui”. Ora  che  ci pensavo anche lui lo parlava bene, eppure la circolare non accennava  nulla riguardo ad un suo precedente trasferimento qui.

“Non hai un cognome Italiano”.

“Mio padre è Americano”.

“Perché, se non sono troppo invadente, siete andati via dall’America?”.

“A mia madre mancava l’Italia,” sospirai, “Ci trasferimmo qui quando avevo quindici anni, un anno prima della sua morte”.

“Oh. Capisco”. Di colpo si fece silenzioso, pensieroso, sembrava quasi turbato.

Stette tutto il giorno in silenzio, avrei tanto voluto avere la capacità di Camilla di interpretare le espressioni della gente.

Quando uscimmo di scuola, io, Camilla e William, ci avviammo verso il bivio. Eravamo tutti e tre molto silenziosi, poi io e lui andammo verso casa mia, posammo gli zaini in soggiorno e andammo a fare un giro. Non capivo come mai tutto questo silenzio all’improvviso.

“Ho per caso detto qualcosa che ti ha dato fastidio in classe, oggi? Mi sembri molto pensieroso”.

Mi guardò, sembrava quasi dispiaciuto ma infondo, nella sua espressione, c’era anche un accenno d’irritazione. Non capivo. Lo guardai confusa mentre riprendeva il controllo di sé. La sua espressione mutò gradualmente dal tormento alla serenità  fatta persona.

“No, no va tutto bene”. Disse calmo, ma il suo sorriso era vuoto.

“Dove si trova casa tua?”. In giro non avevo sentito nessuna voce sul posto in cui risiedevano i  Gray. Sovente, quando qualcuno si trasferisce qui, il primo pettegolezzo di cui la gente parla è proprio il posto in cui la famiglia sceglie di abitare. La famiglia di William doveva essere stata molto discreta dato che nessuno ne aveva fatto parola.

“Abbastanza lontano da qui”, disse con tono sereno ma allo stesso tempo vuoto, di nuovo, sembrava che stesse recitando alla perfezione una parte.

 “A cosa stai pensando?”, chiese improvvisamente ansioso, dopo un attimo di assoluto silenzio.

“Che ti sto irritando”. Abbassai lo sguardo, avevo paura di scoprire la sua reazione.

“Non sei tu che mi fai arrabbiare”, disse dopo un breve momento di silenzio con tono rassicurante ma allo stesso tempo duro. Alzai lo sguardo: la sua espressione era di nuovo calma, ma la voce smascherava ancora un po’ di turbamento.

“E allora cosa?”.

“Io…non ho niente, sono solo un po’ stanco: stanotte ho fatto un po’ di fatica a dormire. La mancanza di sonno mi rende nervoso a volte”.

Sembrava convincente ma, c’era del rimorso nei suoi occhi, sembrava  quasi che volesse dirmi qualcos’altro, come se volesse che io capissi qualcosa che mi stava dicendo fra le righe. Lo esaminai attentamente, cercando di capire se era davvero così o meno.

“Perché mi guardi così?”, domandò con un sorriso poco convincente.

“Perché…Ehm…hai una qualcosa fra i capelli”. Arrossii dall’imbarazzo. Non era  affatto vero, i suoi capelli erano impeccabili come al solito: spettinati, alla moda.

Allungai automaticamente la mano per togliere “qualcosa” dai suoi capelli, ma evidentemente mi si leggeva in faccia che non era vero,  perché mi bloccò il polso con la mano. Era bollente, sembrava febbricitante, e la sua stretta era davvero forte, sembrava acciaio surriscaldato. Mollò subito la presa.

“Scusa”, mormorò.

“Mio Dio! Tu hai la febbre, vieni ti porto a pronto soccorso!...”. Stavo quasi urlando.

Mi sporsi per toccargli la fronte, ma lui si scansò e mi prese per la spalle.

“Calmati, non ho la febbre, ho solo tenuto le mani in tasca e in confronto con la tua pelle fredda sembrano bollenti”.

A quel punto mi sentivo un po’sciocca, forse la mia reazione era stata esagerata. Anche se non avevo tanto freddo, soprattutto ora che c’era lui che mi teneva le spalle col suo viso  a una spanna dal mio. Il mio cuore stava pulsando ad un ritmo decisamente irregolare, ma stavo controllando il respiro in modo che apparisse normale. Ma lui sembrava non cascarci, sfoderava il suo mezzo sorriso, che coinvolgeva solo un angolo della bocca, ed ad un sussulto del mio cuore il suo sorriso si espanse anche all’ altra metà lasciandomi intontita.

restammo così per poco. Dopo un po’ le gambe mi si intorpidirono, e purtroppo lui se ne accorse e ci avviammo verso il castello in cima al borgo. Lì, nascosto da un piccolo boschetto si nascondeva una piccola terrazza segreta dove c’era una panchina in pietra. Quella terrazza non era segnata nemmeno sulle più accurate cartine, nemmeno la gente del posto ne era a conoscenza, era stata dimenticata; ma chi poteva ritrovarla se non una ragazzina di quindici anni desiderosa di un posto in cui stare da sola? Mi ricordo che lo trovai in uno dei primi giorni che ero qui, era un pomeriggio nuvoloso e volevo stare da sola e non essere più al centro dell’attenzione di tutti, sembrava che nessuno volesse lasciare in pace la nuova arrivata, così uscii da sola per distrarmi, ma arrivata in prossimità di quel boschetto, vidi dirigersi verso di me alcuni miei compagni di scuola e, senza pensarci, mi infilai nel boschetto. Mi ci inoltrai, non volevo che mi trovassero, nemmeno per sbaglio, poi vidi la fine del bosco e trovai quel fazzoletto d’erba con quella panchina abbandonata, decisi di ripulirla e così diventò il mio piccolo angolino segreto, il mio rifugio sicuro, dove avrei potuto sentirmi di nuovo protetta dal mondo esterno. Non avevo detto a nessuno dell’ esistenza di quel posto, nemmeno a Camilla, sapevo che se glie lo avessi detto non avrei più avuto un posto solo mio, dove rintanarmi quando voglio stare sola.

Ma di lui mi fidavo, sapevo che se gli avessi chiesto di non farne parola con nessuno, lui avrebbe tenuto fede all’impegno dato, ora che iniziavo a conoscerlo iniziavo a scoprire che in lui c’erano valori che nelle altre persone sono già morti da mezzo secolo.

Una volta raggiunto il bosco che circondava terrazza, lo condussi attraverso una specie di sentiero che avevo fatto io dato che non ce ne erano. Non sembrava fare il minimo sforzo mentre mi seguiva tra gli alberi.

Ne fu valsa davvero la pena, perché il sole, stava per tramontare dietro le colline, ed era davvero uno spettacolo meraviglioso. Restai incantata per un momento, poi mi ripresi e mi sedetti sulla panchina.

William si sedette accanto a me, ma non guardava il tramonto come facevo io: teneva lo sguardo fisso su di me.

“Per…”. Quando mi girai verso di lui mi tose il fiato e non riuscii a completare la frase; i nostri nasi si sfioravano ed il tramonto aveva modificato i colori: i suoi occhi azzurri erano diventati quasi verdi, i suoi capelli dorati erano diventati color rame e la sua pelle sembrava essersi tinta dei colori del tramonto.

“Dimmi”, mi incoraggiò.

Ripresi fiato e parlai:“Perché mi guardi in quel modo?”. Riuscii finalmente a dire scostandomi un po’ dal suo viso.

“Perché trovo che sia davvero affascinante come il tramonto riesca a mutare il colore dei tuoi occhi e del tuo viso”. Diventai immediatamente rossa, ma riuscii lo stesso a mormorare un “Grazie” che fu, a mio parere, incomprensibile.

Si mise a ridere ed io divenni, per quanto possibile, ancora più rossa.

“Ti trovo molto dolce quando arrossisci”. Sembrava divertito dell’idea che fosse lui la causa del mio rossore. Mantenni lo sguardo basso, non ero abituata a complimenti e ad attenzioni.

“Ti ho messa forse a disagio?”, chiese ancora col sorriso sulle labbra.

“No”. La mia risposta fu abbastanza secca, ero ancora imbarazzata.

“Per favore non offenderti, non ti stavo prendendo in girio”. Stavolta sembrava davvero sincero anche se c’era dell’ironia nel suo tono di voce.

“Non mi sono offesa, è solo che non sono molto abituata a tante attenzioni”, dissi tenendo ancora lo sguardo basso.

“Non volevo metterti a disagio, pensavo che fossi abituata ai complimenti dato che sei una ragazza carina”, disse con un tono tranquillo, sereno ma serio.

Alzai lo sguardo stupita.

Mi trovava carina? Non mi sero mai reputata brutta, come ragazza,  ma nemmeno bella.

“Sei forte dentro, la tua timidezza però lo nasconde, non sei insicura come credi, ma ti fidi troppo di alcune persone che non reputo degne della tua attenzione, ma, d'altronde, non spetta certo a me decidere. È solo che…”. Assunse un’ aria strana che non capii. Riflettei un po’ sulle sue parole. Forse era ora che anche io provassi a cambiare, che provassi a tirare fuori un po’ di sicurezza. Magari mia madre me ne aveva trasmessa un po’ della sua. Però lui non mi aveva vista molte volte, come faceva a conoscermi così bene?

Ricominciammo a parlare del più e del meno.

Ad un tratto mi accorsi che incominciavo ad avere freddo, e tirai le maniche della giacca fino a fare in modo che coprissero le mie mani.

“Hai freddo? Vuoi tornare a casa?”, chiese preoccupato.

Non avrei voluto tornare a casa nemmeno se fosse venuta una tormenta di neve.

“No, tranquillo sto bene”. Fece un sospiro e mi si avvicinò fino a far toccare i nostri corpi, e quando avvenne, io ebbi un lieve sussulto, ma mi ricomposi subito. Ero abbastanza vicina da sentire il suo profumo: era dolce come un misto tra miele o vaniglia ma con qualcosa di…selvatico, ciò nonostante, era stupendo, sarei stata ad annusarlo per ore, era come una calamita da cui non ero in grado di staccarmi.

“Dammi le mani”, disse cercando di rassicurarmi col suo sguardo intenso.

“Perché?”. Non capivo il motivo della sua richiesta.

“Fidati, le ho tenute in tasca e si sono scaldate molto”.

Allungai le mani verso di lui, ma appena sfiorai le sue sentii che erano bollenti, come lo erano state il pomeriggio. Aveva delle mani gradi e forti. Appena ebbe la certezza che non le avrei tolte dalle sue, chiuse le mani attorno alle mie, con una delicatezza incredibile. Nonostante la delicatezza, era  come se fosse una statua a tenermi le mani: aveva una stretta ferrea, non sarei riuscita a togliere le mani se lui non avesse voluto. Sentivo la sua pelle bollente sulle mie mani gelide, non avevo fatto caso alla consistenza della sua pelle, era come toccare marmo ricoperto da seta: la sua pelle era dura ma liscia,tanto da farla sembrare morbida anche se non lo era.

Non mi sembrava di averlo visto mettere le mani in tasca, forse ero troppo concentrata sul suo viso e non lo avevo notato.

“I tuoi occhi sono bordati di nero, lo sapevi? Sono di un bellissimo verde molto chiaro, ed è molto curioso che siano bordati di marrone così scuro”, disse con un tono affascinato, quasi come  se stesse osservando un opera d’arte in un museo.

“No, non lo sapevo”, dissi spostando lo sguardo altrove.

Mi venne il batticuore quando si avvicinò e mi sollevò il mento con un dito per vederli meglio.

Guardò l’orologio.

“Sono le sei e un quarto. Forse è meglio se torniamo a casa”.

“Già”, dissi rattristita.

Si accorse della tristezza nella mia voce e sorrise.

Mi lasciò andare le mani, che ormai si erano scaldate. Però ora che lui le aveva lasciate andare sentii il freddo penetrante congelarmi le dita.

Tirai di nuovo giù le maniche della giacca fino a coprirmi le mani per mantenere il più possibile il calore accumulato. Cercai di alzarmi ma il freddo mi aveva intirizzita. William sorridendo mi aiutò ad alzarmi e, una volta in piedi, mi prese tutte e due le mani in modo da tenermi di fronte a se.

Mollò le mie mani e le posò sui miei fianchi e mi strinse a se. Posai le mani sul suo petto che riuscivo a percepire il tepore della sua pelle. Potevo sentire tutti i suoi muscoli possenti. Affondai il viso nella sua giacca.

Ad un tratto sentii le sue labbra morbide e roventi adagiarsi sui miei capelli lisci.

“Sei così piccola e tenera”, sussurrò dolcemente.

Ridacchiammo insieme. Quel momento era perfetto, ma il silenzio fu interrotto dal mio stomaco che si mise a brontolare.

Risi, e lui fece un sorriso trattenendo una risata.

“Immagino che tu abbia fame”, disse ridacchiando.

“Che intuito”, dissi sarcastica. Ma sorridendo.

Mi riaccompagnò a casa e mi salutò con il suo mezzo sorriso ed un bacio sulla guancia, dandomi un brivido lungo la schiena.

Entrai in casa  e inizia a preparare la cena. Ero di buon umore e cucinai lasagne.

Mio padre entrò silenziosamente in casa. Sembrava pensieroso.

“Ciao, papà, come è andata oggi?”, dissi ancora su di giri.

“Come al solito” disse vago. Sembrava turbato da qualcosa.

“Come mai quella faccia?”, chiesi incuriosita.

“Ti ricordi di tua zia Eveline?”, annuii, “sta di nuovo male”.

Non mi convinceva, ci doveva essere dell’altro, non si sarebbe crucciato così se non ci fosse stato dell’altro. Lo guardai sospettosa.

“Dai piccola, non guardarmi così!”.

“E allora dimmi il resto”. Abbassò lo sguardo.

“Ehm… mi chiedevo, se ti andava di andarla a trovare, ma in questo caso dovremmo trovare qualcuno che dovrà badare al gatto e alla casa … riguardo l’edicola non ci sono problemi: ho già trovato una ragazza che mi sostituisca” mi guardò un momento e poi disse: “Non sei costretta, se non vuoi non ci andiamo”, disse e mi lanciò uno sguardo implorante.

Sinceramente non mi andava di andare, ma avrei lasciato andare lui, se lo meritava qualche giorno di stacco dal lavoro.

“Vai tu, io so badare a me stessa, e mi prenderò cura io di Mr. Shakespeare e della casa”. Non sembrava ancora convinto.

“Papà, ti assicuro che starò benissimo”.

 “Ne sei sicura? Guarda che per me non ci sono problemi a rimanere qui”. Mi lanciò uno sguardo pieno di scuse, sapeva che ero testarda e che non avrei permesso che si negasse dei giorni di vacanza.

“Tranquillo. Quando hai intenzione di partire?”.

“Domenica e torno mercoledì”.

“Va bene,  dove prendi l’ aereo?”.

“A Firenze, vado con la macchina”. Evidentemente non si fidava a lasciarmi da sola con la sua macchina.

 

Il resto della settimana passò in fretta, quasi tutti i giorni io e William  andavamo in giro. Camilla e Marco erano usciti già quattro volte  e si erano dati il primo bacio al quarto appuntamento.

Mio padre era partito questa mattina presto, ma essendo domenica, non mi aveva voluta svegliare, così riuscii a dormire fino alle  dieci e mezzo.

La mattinata passò lentamente, così la passai a fare i compiti e a studiare.

Verso mezzogiorno uscii di casa e mi diressi verso la mia pizzeria preferita, e ordinai da portar via una pizza intera.

La portai a casa, ma ne mangia solo metà il resto lo avrei mangiato a cena.

Appena ebbi finito di mangiare perlustrai la casa a caccia di una gomma da masticare. In un cassetto della mia scrivania, in camera, tenevo le scorte. Sapevo che quel pomeriggio probabilmente William sarebbe passato e avevo paura di avere l’alito pesante.

La mia previsione si avverò, il mio angelo personale bussò alla porta proprio mentre tornavo in sala.

Lo invitai ad entrare, aveva iniziato a piovere e non mi sembrava una buona idea uscire.

“Ma tuo padre non è in casa?”, domandò incuriosito.

Gli spiegai la storia di mia zia, e lui annuì comprensivo.

“Non ti andava di vedere tua zia?”, sapevo che era una domanda, ma dal tono non lo sembrava.

“Bé, non tanto, ma più che altro sapevo che mio padre avrebbe apprezzato di più se io fossi rimasta a badare al gatto e alla casa. In fondo anche lui se li meritava un paio di giorni di riposo”. Annuì di nuovo.

Ci sedemmo sul divano e guardammo un film. Mi cingeva le spalle con un braccio mentre io affondavo il viso nel suo maglione, e come al solito se ne andò appena decisi di mangiare.

Il giorno dopo il tempo era migliorato, e andai, da sola, sulla mia terrazza privata. Ero troppo in anticipo per andare a scuola, avevo detto a William che sarei andata a fare  un giro, e lui aveva capito subito che volevo stare un po’ da sola.

Avevo messo la mia collana preferita: una catenina d’argento, con attaccato un cuoricino di cristallo che mi aveva regalato mia madre al mio primo Natale.  Mi tolsi la catenina, per sfilarne il ciondolo, e poi la riaggancia per non perderla. Con l’altra mano tirai fuori dal mio portafogli il bigliettino che aveva accompagnato quel regalo, lo avevo sempre custodito gelosamente:

 

Buon Natale Nory,

piccola mia, sei bellissima, la più bella bimba che una madre possa avere. Spero tanto che questo ciondolo illumini la tua vita, come tu hai illuminato la mia. Ti voglio bene, non puoi immaginare quanto. Sei la mia gioia più grande. Tesoro mio, io non so cosa accadrà in futuro, ma spero tanto che questo ciondolo ti faccia ricordare di me,  e se un giorno dovessi sentire la mia mancanza, stringilo forte e pensa a me, io penserò  a te ogni giorno. Con amore.

                                                                                              Mamma

Era il biglietto di auguri più bello che mi avesse mai scritto.

Presi il ciondolo e lo feci brillare alla luce, era bellissimo vedere come brillava alle prime luci dell’alba. Mi ricordava così tanto lei: quando vedeva che ero triste lei lo prendeva tra le sue mani e lo faceva brillare alla luce del sole e diceva che quando ero felice i miei occhi brillavano come quel ciondolo, e che non dovevo mai farli smettere di brillare.

Quando se ne era andata avevo scritto un biglietto di addio che avevo messo tra le pagine del suo libro preferito. Da allora non lo avevo più aperto.

Mi passai una mano sulla lacrima che mi stava rigando il viso. Mi mancava così tanto, non era giusto che me l’avessero strappata via così, proprio quando avrei avuto più bisogno di lei. Mi sedetti un po’ sulla panchina a pensare a lei, a tutte le volte che sorrideva, a tutte le volte che mi accarezzava o che faceva qualcosa di buffo o inappropriato. Avevo un ricordo di lei che custodivo gelosamente, non era un ricordo di qualche momento importante passato con lei, era un momento semplice, ma forse è il più bel ricordo suo: io ero piccola e la guardavo dal divano, lei si era provata un abito da sera e si era messa a ballare per farmi ridere, così mi unii anche io a lei e si mise a ridere, mentre lei mi insegnava a ballare, era una risata speciale. Riaprii gli occhi e la visione si dissolse in un lampo. Guardai l’ora: si era fatto tardi, dovevo correre a scuola e dimenticai il ciondolo sulla panchina. Purtroppo me ne accorsi solo a scuola, decisi che l’avrei ripreso nel primo pomeriggio.

Passai la prima ora a scarabocchiare segretamente su un foglio con William. Ora che ci facevo caso, a scuola, a parte durante l’intervallo, io e William non parlavamo quasi mai. Solitamente parlavo con Camilla. Parlavamo di tutto e lei sapeva essere molto comprensiva e non mi faceva troppe domande per farsi dire tutti i dettagli, si accontentava dei fatti generali.

Dopo la scuola, chiesi a William di non accompagnarmi dato che non sarei andata a casa.

Giunsi fino al boschetto e lo attraversai faticando, c’era molto fango scivoloso.  Attraversato il boschetto, guardai sulla panchina e vidi il mio ciondolo brillare alla fioca luce che filtrava da dietro le nuvole. Poi troppe cose successero nello stesso istante: io scivolai sul fango, urtai la staccionata in legno  che delimitava la terrazza, la staccionata si spezzò e io caddi nello strapiombo sottostante. Sentivo lo stomaco ribaltarsi, e l’aria fischiare accanto alle mie orecchie mentre precipitavo. Lo sapevo era la fine. Non potevo morire per colpa del fango, sarebbe stata la morte più stupida del mondo. Era molto alto, mi ero sporta per guardare il panorama molte volte, non sarei sopravvissuta  ad una caduta così. Ma soprattutto mio padre, quanto lo avrei fatto soffrire se fossi morta? Proprio lui che aveva già perso una persona che amava, ora stava per perdere anche sua figlia. Non lo avevo nemmeno salutato per l’ultima volta…

Ma successe qualcosa, l’ultima cosa che mi sarei mai aspettata: a mezz’aria qualcosa aveva frenato la mia caduta. Non avevo nemmeno avuto il tempo di gridare, e, in teoria, nessuno mi aveva vista cedere.

Qualcosa mi aveva presa, veniva dal basso, come se avesse fatto un salto e mi avesse afferrata. Continuavo a tenere gli occhi serrati. Stavamo risalendo. Mi aggrappai con tutte le mie forze a questa cosa, qualunque cosa fosse, forse ero morta e lui era il mio angelo che mi stava portando via. Forse non avevo fatto in tempo ad accorgermi dell’impatto col terreno, forse ero atterrata su una roccia appuntita ed ero morta sul colpo. Ma sentivo il freddo e il vento pungermi il viso, i brividi percorrermi la schiena, l’adrenalina gelarmi il sangue nelle vene e sentivo il mio cuore mentre cercava quasi di uscirmi dal petto.

Ora, però, stavamo tornando verso il basso. Non ero morta. La forza di gravità stava di nuovo cercando di portarmi via. Ma qualunque cosa mi stesse tenendo riuscì ad essere delicato e quasi non mi accorsi che avevamo toccato terra. Tenevo gli occhi serrati e i tremori, ormai più simili a spasmi, aumentarono. Il mio angelo non mi mollava, ma quello non poteva essere il paradiso, faceva troppo freddo.

Ci misi almeno un minuto perché gli spasmi si calmassero, allora riaprii gli occhi.

Non era un angelo vero, ma era la cosa che più ci si avvicinava. Era William.

“Come stai? Sei ferita?”. Parlò con voce bassa e ferma per rassicurarmi, ma la preoccupazione nei suoi occhi era tangibile.

Non riuscivo a trovare le parole per esprimermi, non stavo bene, fino ad un secondo prima stavo per morire, ora sarei dovuta essere morta, con l’osso del collo rotto.

Il burrone doveva essere, più o meno, alto trenta metri. Non sarei sopravvissuta se lui non mi avesse presa. Già, ma come? Mi ricordavo ogni cosa: la caduta, la spinta verso l’alto, la discesa tra le sue braccia, la forza e la velocità che aveva usato. E poi come faceva ad avermi presa? Non poteva sapere dove mi trovavo,  lo avevo visto dirigersi verso la parte opposta rispetto alla quale stavo andando.

Eppure nonostante tutto, era lì, e io, nonostante tutto, ero felice che fosse lì.

“Stai bene?”, disse nuovamente, sempre più allarmato; temevo che gli venisse un attacco di panico da un momento all’altro. Mi stava ancora tenendo in braccio, senza il minimo sforzo. Non sembrava pesargli.

Annuii leggermente prima che gli venisse una crisi, non ero sicura  di poter controllare la voce.

Sembrò un po’ più sollevato, ma non mi mise a  terra continuava ad esaminarmi. Probabilmente si aspettava un’altra reazione, qualcosa simile ad una crisi isterica. Continuavo a tenermi forte. Non mi sembrava reale, mi sembrava un incubo, uno di quelli dove sogni di cadere, e anche se per un momento ti fermi un secondo dopo cadi di nuovo.

 “Sei sicura che sia tutto apposto? Come ti senti? Hai la nausea?”, chiese ancora allarmato.

“No, no, sto bene, mi gira solo un po’ la testa”, si irrigidì e cambiai discorso all’ istante “non mi ricordo con precisione cosa è successo, solo che sono scivolata, ho chiuso gli occhi e poi… tu”. Speravo che la mia ansia passasse per shock.

Mi posò a terra, ma il mio cuore non era ancora pronto: come toccai terra mi sentii frastornata, mi si offuscò la vista, sentivo le gambe cedere, la testa girava vorticosamente e sentivo William che mi chiamava, ma la sua voce era ovattata, e la sentivo lontana, troppo lontana; e poi tutto fu buio ed io caddi a terra.

Mi risvegliai sul divano di casa mia, mi faceva male la testa, ancora più di prima. Aprii gli occhi e vidi William preoccupato che mi fissava. Rimasi incantata a guardarlo, era assurdo come fosse bello, anche se la preoccupazione aveva fatto apparire un solco tra le sua sopracciglia, sembrava lo stesso un dio greco.

“Ehi, Nory, mi senti?”.

“Forte e chiaro”, sussurrai, e accennai un sorriso. Lui sollevò un angolo della bocca e il suo solco, fra le sopracciglia, sparì.

“Sicura di stare bene? Forse è meglio che io ti porti all’ospedale”.

“Non ti preoccupare”. Mi sedetti su divano sotto il suo sguardo vigile, che controllava gli sbalzi della mia pressione sanguigna. Si sedette accanto a me.

Avevo sognato, dovevo essermi addormentata appena tornata a casa, che sogno strano. “Cos’è successo?” chiese lui freddo.

“Ehm, stavo andando sulla terrazza in cui ti ho portato ieri, perché avevo dimenticato là il mio ciondolo...” portai una mano sulla catenina ed il ciondolo era li al suo posto “ poi ricordo di essere tornata a casa e di aver fatto un brutto sogno”. Lui sorrise gentile e mi disse che forse  ero solo stanca e che mi lasciava da sola a riposare. Strano ero convinta della mia versione dei fatti eppure il mal di testa era reale, e quei ricordi erano incoerenti col fango sui miei pantaloni.

 

Andai in camera, avevo ancora un quarto d’ora per leggere poi avrei cenato. Presi uno dei libri che tenevo in camera mia. Nella sala c’era una bella collezione di libri ma avevo selezionato i miei preferiti e li avevo messi  su uno scafale in camera mia, erano più o meno una decina. Ne afferrai uno, non avevo fatto caso a quale fosse, ma quando lo presi  in mano lo riconobbi immediatamente: “Orgoglio e pregiudizio”. Non ero stata io l’ultima persona a leggere quel libro e così lo rimisi al suo posto. Sapevo che era sciocco, ma avevo l’impressione che non leggerlo avrebbe preservato il ricordo di mia madre. Per questo quel biglietto d’addio lo avevo messo proprio lì.

Mentre riponevo il libro sullo scaffale dalle pagine scivolò il biglietto che le avevo scritto:

 

 Tu hai sempre vissuto in un mondo tutto tuo, nel paese delle meraviglie, ma come lo stregatto, sei scomparsa anche se il tuo sorriso rimane sospeso nell’aria... ti voglio bene.

 

Ero piccola, “Alice nel Paese delle Meraviglie” era il mio cartone animato preferito. Lo lessi ad alta voce, ma non riuscii a leggere l’ultima riga perché la voce si spezzò. Feci un respiro profondo e rimisi il biglietto al suo posto: tra le pagine di quel libro.

Decisi di distrarmi cucinando, ma non servì a molto. Stavo preparando della pasta quando sentii bussare alla porta.

“Arrivo!” urlai, mescolai velocemente la pasta ed corsi ad aprire.

Rimasi a bocca aperta, era proprio lui: William.

“ Posso entrare?” chiese gentile.

“Certo”.

Ci sedemmo sul divano. Era bello stargli accanto.

“Cosa ci fai qui?” chiesi curiosa. Ci eravamo visti solo poche ore prima.

“Tieni; avevo visto che la catenina era d’argento sta rovinando, e ho pensato che avresti dovuto sostituirla prima o poi; spero che sia di tuo gradimento” disse ansiosamente in attesa della mia reazione.

Presi la nuova catenina e la osservai bene: a vederlo così sembrava oro bianco, ma scartai quell’ipotesi: gli sarebbe costato troppo.

“Grazie, è davvero un pensiero gentile” dissi togliendomi la vecchia catenina, che in effetti si stava rovinando e sostituendola con la nuova.

“Sento odore di bruciato” disse dopo averci pensato un po’.

“Maledizione!”esclamai, “La pasta!”.

Mi precipitai in cucina, ma purtroppo non c’era più nulla da fare, e così buttai via il contenuto della pentola. Riempii la pentola d’acqua e iniziai a lavarla. Sentivo gli occhi di William su di me.

Mentre lavavo la pentola vidi un coltello sporco di cibo, lo presi in mano e feci che lavare anche quello.

“William?” lo chiamai con fare innocente.

“Dimmi” rispose lui avvicinandosi.

“Avresti voglia di asciugare questa roba?” dissi offrendogli uno straccio. Così avrei finito prima e avremmo avuto più tempo per stare insieme.

“Certamente”.

Sapevo che non avrebbe rifiutato.

Gli porsi la pentola che lui asciugò in breve tempo. Intanto si scusò un paio di volte per avermi distratto e avermi fatto bruciare la pasta. Gli dissi che non importava e gli passai il coltello, ma, mentre lui allungò la mano per prenderlo, gli porsi accidentalmente la lama che lui afferrò senza pensarci. Ma avvenne qualcosa, che non avevo certo previsto: lui si ferì. Il sangue iniziò a colare lento dal palmo fino al polso. Io ero totalmente sconvolta. Non tanto perché si  fosse ferito ma perché per un momento pensai che sarebbe accaduto qualcosa di strano. Mi ripresi subito. Cosa mi aspettavo?! Che la lama si piegasse?! Mi vergognai di me stessa per aver pensato una cosa simile.

Cercai di rimediare: con decisione gli afferrai il polso, evitando con cura di toccare il rivolo di sangue che stava colando, e gli misi il mano sotto l’acqua fredda.

Mi azzardai a guardare la ferita, ma distolsi subito lo sguardo disgustata: era davvero profonda.

Rossa in viso provai a guardare il suo volto. Lui, però, non guardava né me, né la sua mano, stava fissando il vuoto con un espressione che assomigliava molto alla paura, ma era anche molto pensieroso.

“Scusami, sono davvero mortificata” dissi cercando di non far vedere quanto ero nauseata dalla ferita.

Lui, però, non mi guardò e rimase assorto nei suoi pensieri. Lo guardai esterrefatta: era possibile che non si curasse nemmeno un po’ della sua mano? Non si era preoccupato nemmeno di verificare l’entità del danno. Gli stavo tenendo ancora la mano sotto l’acqua, ma quando ritornai a guardarla non stava più sanguinando. La asciugai con l’asciugamano che aveva usato lui per asciugare i piatti. Osservai il palmo della mano. Non era possibile: il taglio era sparito: non c’era nemmeno l’ombra di una cicatrice.

 

  
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