Va bene, lo so. Mi merito tutte le
maledizioni che mi avete
mandato. Però, davvero, per molto tempo ho avuto i soliti
casini. L’università
mi impegna tantissimo e non riuscivo a trovare l’ispirazione
per scrivere.
Continuavo a buttare già delle schifezze, a tagliare,
incollare etc etc. poi
invece, ieri, mi è venuta l’ispirazione e ho
buttato giù il cap in un’oretta
(all’1 di notte, ovviamente, seguendo le buone vecchie
abitudini)
Spero che non vi siate dimenticate di me e che mi possiate
perdonare.
Adesso dovrò studiare per un esame che ho il 29 quindi non
so bene quanto tempo avrò ma posterò presto, per
davvero, perché l’altro cap lo
sto già scrivendo. In realtà, questo cap finisce
qui per la suspance! Se no,
avrei continuato qui!
Ciao e a presto.
Ps: spero che vi piaccia anche la mia
nuova storia.
Ultimamente non ho aggiornato eprchè, per il caldo, non
volevo accendere il pc, e poi dovevo studiare per due esami.il cap
è già
scritto, adesso provvederò a pubblicarlo.
Un bacione e a presto, recensite in tante
Pps: non abbiate paura, io amo i lietofine.
Ppps: buona maturità a chi deve affrontarla. Mi ricordo lo
scorso anno che paura avevo! In bocca al lupo a tutte.
Ovviamente, non
riesco a separarmi da questa
storia e questo non sarà l’ultimo cap…
scusate
La morte era qualcosa di freddo,
duro, liscio.
Una lapide di marmo che
trafiggeva la terra smossa e
bagnata di lacrime. Il pianto di chi ti ha amato e non ti permette di
andare
via.
Il loro dolore ti tiene incatenata a questo mondo di sofferenza
e paura, dove ogni battito di cuore è penoso come una
pugnalata.
È l’amore che ti impedisce di essere libera per
l’ultima volta. Ti obbliga a restare…
Io non ero libera. Non potevo andarmene.
A tenermi incatenata alla vita dei lacci invisibili,
più resistenti dell’acciaio.
Lasciatemi andare.
Lasciatemi morire. Vi prego, lasciatemi morire.
Avevo sofferto troppo.
Forse ero già morta?
No, il dolore era ancora troppo
vivido nella mia memoria.
Tutto intorno a me era immobile, silenzioso.
Vuoto.
Non ricordavo il perché, il come, il quando. Men che
meno il quanto.
Non potevo aprire gli occhi perché non sapevo dove
fossero.
Non ero padrona del mio corpo. non riuscivo a
percepire nulla all’infuori del panico che mi attanagliava. E
il ricordo del
dolore così annullante e frastornante che mi faceva temere
anche solo di
tentare di muovermi.
Ero sola. Al buio. Abbandonata.
Ero stata lasciata ad annegare in un oceano infinito
di dolore. Ed ora ero sola nel silenzio e
nell’oscurità più totale.
Lentamente ricominciai a pensare.
E con i pensieri la
sensazione di annegamento tornò a tormentarmi. Non volevo
ricordare tutto quel
dolore.
Tutta la paura che avevo provato.
Paura…
Quando ero piccola, avevo paura
del buio e del
silenzio.
Ciò che mi circondava in quel momento.
Avevo paura. cercai di focalizzare la mia mente su
quei ricordi per evitare di evocare il dolore.
Era buio in camera mia. E io avevo paura. urlavo se
sentivo un rumore strano.
E quando gridavo, Reneé veniva e mi abbracciava
stretta, stringendomi al suo petto.
Reneé, i suoi abbracci caldi e rassicuranti.
Reneé…
Mamma…
Avevo bisogno di lei.
Perché era mia madre e aveva il dovere di proteggermi.
Contro tutto e contro tutti.
Già, madre…
Vidi una piccola bambina dai
capelli rossi e gli occhi
verdi. La vidi dentro la mia testa ma era così…
reale. E poi, oltre a lei, due
infanti, piccoli e fragili.
Due neonati splendidi e delicati.
Anche loro così impossibilmente reali da sembrare
veri.
Anche io...
Impossibile.
Non ero pronta, non ero forte, grande abbastanza. E
poi, ero troppo sola.
Avevo bisogno di qualcuno che mi proteggesse.
Avrei voluto gridare, urlare, scalciare… piangere.
Ma non potevo muovermi.
Ero immobilizzata.
E poi, me ne accorsi.
Ero immobile. Letteralmente immobile.
Così immobile che il mio petto non si alzava ed
abbassava ritmicamente e dolcemente come avrebbe dovuto.
I miei polmoni erano vuoti.
Terrore.
Cercai di rimanere lucida. Ovviamente non era
possibile.
Cercai allora di ascoltare il battito del mio cuore o di percepire
la sensazione del sangue che pulsa feroce attraverso le vene.
Niente.
Nessun suono, nessuno movimento.
In compenso, nel tentativo di ridare ordine ai miei
sensi, mi accorsi del dolore sempre crescente che mi invadeva.
Bruciante a tal
punto da ricordarmi il rogo interiore che avevo subito.
Cercai di localizzare questa nuova sofferenza.
E così ritrovai la gola. E con essa il collo, le
spalle, la testa.
E poi le braccia, le mani, le dita… il busto la
schiena… le gambe, i piedi. Il mio corpo tornava ad esistere
nella mia mente.
Lo percepivo di nuovo.
Proprio ora che ormai sapevo.
Sapevo di essere irrimediabilmente morta.
E la morte era qualcosa di
freddo, duro, liscio.
Qualcosa di immobile tra le mie dita.
Ecco i polpastrelli.
Avevo paura. strinsi gli occhi.
Avevo ritrovato le palpebre.
Decisi di farmi coraggio e le sollevai lentamente,
terrorizzata da ciò che mi stava aspettando là,
nell’ade.
La prima cosa che vidi fu la
luce.
Non me lo sarei mai aspettata. Mi
immaginavo un luogo
scuro e cupo pieno di anime dannate ed invece c’era la luce,
prodotta da una
comunissima lampadina.
Banale.
E poi, c’era odore di disinfettante. Ammoniaca. Mi
fece storcere il naso. Quell’odore pizzicava. Certo, niente
in confronto
all’arsura che percepivo al collo.
Il muro davanti di me era bianco, immacolato. C’erano
delle travi di legno. Era un soffito? Sì. Sembrava proprio
di si.
Ma che ci faceva un soffitto all’inferno?
Ciò che di liscio e duro, freddo, sentivo tra le mie
dita fremette. Mi irrigidii automaticamente. Non osavo guardare. Ero
troppo
spaventata. Serrai immediatamente gli occhi e strinsi i denti.
Altre due cose dure, lisce e fredde mi afferrarono i
polsi. Mani forse?
Ci fu uno spostamento d’aria e il mio viso venne
investito da dei profumi fortissimi che mi ravvivarono dei ricordi che
parevano
lontanissimi.
Prati, fiori, sole…acqua… miele… e poi
altro ancora.
Molto altro ancora.
Avrei voluto rannicchiarmi ma quelle mani dure e lisce
mi stringevano i polsi con troppa forza. Eppure, non provavo dolore.
Non lì
perlomeno.
Una voce, agitata e ansiosa ma ugualmente splendida e
limpida, giunse alle mie orecchie. Sembrava implorante e spaventata.
Era di un
uomo.
< Lasciala. >
E le mani mi lasciarono. In un tempo che mi parve
infinitesimale mi ritrovai rannicchiata su me stessa. Mi coprivo il
capo con le
braccia. Le ginocchia poggiavano sotto al mento.
Tremavo.
Delle altre mani, gentili e delicate, corsero lungo la
mia schiena.
< Bella? Non avere paura. so che sei spaventata. È
normale. Ma tu stai bene. Adesso stai bene. >
Che cavolo stava dicendo?
Come poteva dire che stavo bene? La gola bruciava
impedendomi persino di pensare?
E poi, non respiravo! Il mio cuore non batteva!
No! No! No! < No!, No! No, No! No, no, no, no, no,
no, no, no, no! >
Sentivo un suono uscire dalla mia bocca. Non mi ero
accorta di aver cominciato ad urlare. ma quella non poteva essere la
mia voce.
Era troppo diversa da come la ricordavo.
Era tutto sbagliato.
Mi stavo agitando, muovendomi
convulsamente.
Scalciavo. Nessuno mi doveva toccare.
Avevo troppa paura.
< Edward, devi calmarla. >
< Jasper, TU devi calmarla. >
< Non ci riesco. È incontrollabile. >
Cercavano di tenermi ferma. Di immobilizzarmi. Ma io
scalciavo. Erano più di due persone. Molte di
più. Volevano farmi del male.
Quando caddi capii di essermi trovata in un punto
sopraelevato. Ci fu un tonfo rumorosissimo quando il mio corpo
sbatté sul legno
morbido del pavimento, lasciando come un’incavatura nel
parquet.
Nell’attimo in cui i miei aggressori chinarono per
afferrarmi, spalancai gli occhi e schizzai, veloce quanto non avrei mai
pensato
di potermi muovere. Mi sarei aspettata che, a quella
velocità gli oggetti mi
risultassero sfocati ed invece potevo cogliere tutto. Ogni
più insignificante
particolare. Come quel granello di polvere che danzava leggero vicino
alla
lampada.
Avevo paura. paura di quelle sei persone che percepivo
intorno a me. Due donne e quatto uomini a giudicare dal loro odore.
Non pensai neanche. Fu l’istinto a guidarmi. Mi fece
giungere alla porta. La mano era già sulla maniglia quando
delle braccia
possenti mi imprigionarono. Cercai di divincolarmi ma le mie gambe
colpivano
alla cieca. Muovevo il capo all’indietro nel tentativo di
colpirgli il volto.
Inutile. L’istinto mi diceva di mordere ma non
c’era niente a portata di bocca.
La mia pelle sensibile percepiva il contatto con
l’energumeno che mi aveva immobilizzata molto più
di quanto non fosse mai
successo.
< Bella?
Calmati. Devi calmarti. Imponitelo. So che puoi farcela.
>
Qualcuno parlava ma io non lo ascoltavo. Qualcun altro
continuò. Era la prima voce che avevo udito.
< Bella, amore, ascoltaci. Devi calmarti.
Tranquilla… non devi avere paura. non vogliamo farti del
male. >
Mentivano.Volevano eccome. Non potevo vederli perché
erano tutti alle mie spalle ma potevo percepire la loro
tensione.
Finsi di
acquietarmi. Smisi di divincolarmi e, poco dopo, la prima voce disse:
<
Prova a lasciarla, piano. >
Le braccia forti come acciaio mi liberarono ed io
scivolai lungo il petto dell’uomo che mi aveva tenuta
prigioniera. Mi lasciai
cadere a terra dove mi abbandonai.
Le prime mani che avevo percepito tornarono ad
accarezzarmi la schiena.
La sua voce adesso sembrava più calma. Ma era solo
apparenza. Lo percepivo.
< Bella?Tranquilla piccola.È tutto a posto. Sei al
sicuro. Non vogliamo farti del male. >
Sentii gli altri indietreggiare di qualche millimetro.
Finsi di essere docile. Non mi mossi.
Poi, quanto sentii che il ragazzo sopra di me voltava
il capo verso il suo gruppo, mi rialzai in piedi e mi avventai sulla
porta,
spalancandola. A velocità folle corsi lungo il corridoio.
Sentivo le urla concitate dei sei che mi ero lasciata
alle spalle. Stavano cercando di raggiungermi. Non mi avrebbero presa.
Ero più
veloce di loro.
Con un balzo mi ritrovai in fondo alle scale. Era
passato poco più di un quindicesimo di secondo rispetto a
quando avevo aperto
la porta ed ero fuggita.
Mi diedi una rapidissima occhiata intorno per
localizzare la via di fuga più vicina e più
sicura.
E in quel momento la vidi,
spuntò da dietro una porta.
Una bambina piccola. Non dimostrava più di quattro
anni. Capelli lunghi e rossi, occhi verdi. La stessa bimba che la mia
mente
aveva evocato poco prima.
Vidi il suo sangue caldo pulsare nelle vene sotto la
pelle della gola. Sentivo il suo cuore battere indicandomi la sua
posizione.
Mi accorsi di altri due piccoli cuori nella stanza da
cui la bambina proveniva. Con loro c’era anche una persona,
una donna.
Gli
altri sei erano quasi dietro di me
A nessuno di loro batteva il cuore. Ebbi paura.
Cosa diamine stava succedendo?
Una voce possente, l’uomo che mi aveva immobilizzato,
gridò: < Rose, prendi i bambini e vattene. >
La piccola mi fissò negli occhi, rapita, e sorrise.
Seguii l’istinto.
Mi avventai sulla piccola
creatura stringendola tra le
mie braccia.
Poi, con il suo peso leggero tra le mani, schizzai
fuori dall’abitazione.
Avevo sete. Una sete terribile. Accecante.
Ma non potevo fermarmi. Dovevo correre e scappare da
quegli individui. La sete l’avrei placata dopo.
Strinsi la bambina. Lei non aveva gridato, non si era
agitata. Si era limitata a rimanere immobile tra le mie braccia.
Sapevo che aveva paura perché il suo piccolo cuoricino
batteva velocissimo ed invitante.
Avevo sete. Sete, sete, sete, sete, SETE!
Corsi ancora più veloce. Dovevo allontanarmi, dovevo
scappare da loro. Li sentivo che mi seguivano. Erano a circa un
kilomentro da
me. Li stavo distanziando. Il ragazzo che mi aveva parlato con parole
gentili
era il più veloce. Si trovava ottocentosettantatre metri e
quindici centimetri
indietro rispetto a me. La più lenta era una donna. Lei era
mille
quattrocentododici metri indietro.
Non si davano per vinti. Continuavano a correre e mi
urlavano di fermarmi.
Incontrai un fiume. Era molto largo. Avrei potuto
disperdere il mio odore. Mi ci immersi e per alcuni metri nuotai,
seguendo il
corso della corrente.
Quando riemersi, mi trovavo molto più a valle.
Raggiunsi la riva e, lasciando fuori dall’acqua solo il
busto, ricominciai a
correre. Non li sentivo più.
Li avevo seminati.
Guardai la creatura tra le mie braccia. tossiva acqua.
avevo cercato di lasciarle la testa fuori per permetterle di respirare
ma
evidentemente aveva bevuto un po’.
Circa un’ora dopo, mi sentii abbastanza sicura e
lasciai del tutto il fiume. Camminai a piedi nudi lungo un sentiero
roccioso ma
le pietre non mi ferivano. La bambina tremava. I vestiti bagnati le si
stavano
asciugando addosso anche a causa del vento provocato dalla mia corsa. E
il suo
sangue pulsava irrorandole le guance.
Avevo sete. Troppa. Non riuscivo a gestirla. A pensare.
Il collo della bimba era così vicino…
Lei non aveva detto neanche una parola da quando
l’avevo presa. Era rimasta silenziosa.
Mi fissò negli occhi. Ricambiai il suo sguardo e
sorrisi. Lei fece altrettanto.
Poi si azzardò a parlare.
< Ho sonno. >
Sonno? Io non ne avevo neanche un po’. Avevo solo
sete. Eppure, avrei dovuto essere stanca. Chissà per quanti
chilometri avevo
corso…
< Posso dormire? > mi chiese con voce incerta.
Era impaurita, questo è certo, ma allo stesso tempo sembrava
fidarsi di me.
Le accarezzai i capelli e poi le guance rosate. Sentii
il sangue scorrere sotto quel sottile strato di pelle. Lo vedevo. Avevo
sete.
Con un balzo mi portai sulla cima di un albero e mi
sedetti, poggiandola sulle mie ginocchia.
< Certo che puoi dormire. Basta che tu chiuda gli
occhi. > le dissi suadente, accarezzandole i capelli e
sistemandoglieli
dietro alle orecchie.
Lei, obbediente, annuii e poi poggiò il capo sulla mia
spalla.
Osservai le palpebre abbassarsi e poi posai le mie
labbra sul suo collo dalla pelle sottile.
Il suo sangue aveva un odore
dolcissimo…